When_due – Pendolo (Pistacho)

Secondo album per il duo proveniente dalla Sicilia che si cimenta con suoni ultraterreni da dance floor contemporanea in loop continuo a disegnare geometrie standardizzate e nel contempo eleganti che implodono ed esplodono ad attutire i colpi della materia per far rivivere armonie sotto forma di figure, colori e decostruzioni elettroniche. Pendolo dà proprio l’idea oscillatoria del moto, in un’esigenza a temporale nel consegnare risultati apparenti di sicuro impatto che si muovono attraverso cinque tracce che fanno parte della stessa matrice, hanno le stesse radici e portano con sé l’esigenza di intrappolare il momento fino a necessario bisogno di consegnarci una suite sonora divisa ad arte, un Pendolo musicale che parte e torna con la stessa forza, in un moto perpetuo studiato e necessario che ricopre le distanze e fa si che il mondo attorno diventi trottola consequenziale di un viaggio che sembra non avere mai fine.

Il reparto psichiatrico – Qualcosa più di niente (Autoproduzione)

Disco d’esordio per una band strampalata che fa del citazionismo un’insegna da espandere come bandiera all’interno delle nostre menti, incamerando un rock che si affaccia alla canzone d’autore decostruita a dovere e mossa dall’intento di dare da vita e voce forse, a chi tutto questo non ha. Già dal nome della band si può evincere la particolarità della proposta, sostenuta da un rimando quasi sempre esplicito, nei titoli e nei testi delle canzoni, a personaggi di un mondo onirico, fantastico, da Laputa di Miyazaki, fino a Moby Dick, passando per il Mago di Oz, senza dimenticare gli Humpty Dumpty di Alice attraverso lo specchio e in un certo qual modo un mondo infantile che si affaccia all’età adulta in modo improvviso, ma allo stesso tempo luccicante. Il reparto psichiatrico con quel Qualcosa più di niente si dimostra essere una band dal forte carattere e connotata da un impattante desiderio di raccontare e raccontarsi attraverso parabole che ci riguardano da vicino e osano fino a comprendere ciò che è nascosto dietro alle apparenze di ogni giorno. Un mondo strutturato e variopinto mosso dalla psichedelia dell’attimo appena fuggito.

Unreal city – Frammenti Notturni (AMS Records)

Città che non esistono, città contornanti la notte velata di nero contendendosi le ultime luci del giorno per bagnare il tramonto con il fuoco della sera. La città dorme e sotto c’è nascosto qualcosa, qualcosa che non conosciamo e a cui non sappiamo dare un nome, ma rappresenta la parte più oscura di noi, la parte che da tempo sentiamo il bisogno di abbandonare, ma allo stesso modo quella parte ci attira, ci ammalia, si ciba di noi. Frammenti notturni è un concept calibrato a dovere che ripercorre senza se e senza ma il grande periodo del prog italiano, un disco quasi anacronistico ai giorni nostri, ma sicuramente così ben strutturato da apparire moderno e mai stancante, anzi si prefigge, senza sosta e ripensamenti di far da tramite e veicolo per il buio che risiede dentro di noi. Gli Unreal City intascano una prova davvero miracolosa, una prova cupa e oscura, fatta di pezzi strumentali come le due parti d’apertura che lasciano il posto ad un cantato in cui l’urbanizzazione e la potenza devastante del cemento e della sua conseguenza naturale e cioè l’alienazione, sono riferimenti e temi essenziali per comprendere la poetica intrisa di significati di questa band. Al terzo disco i nostri si proiettano lungo una circolare esemplificazione del tutto, stratificando a dovere i contenuti e imbrigliando di luce le ultime ore della notte.

C’esco e i musicanti di Brahma – Mutazione/Profondità in superficie (Autoproduzione)

Parallelismi utopici che segnano il confine già dalla copertina trasfigurata e in mutazione, un passaggio essenziale per comprendere all’unisono una musica quasi orchestrale e fatta di entità sospinte a ricreare quel bisogno di trasformazione che non si sofferma ad un genere preciso, ma piuttosto è comprovata eleganza pronta a misurarsi con la canzone d’autore italiana. Mutazione/Profondità in superficie è un disco che vuole raccontare e raccontarsi attraverso un uso sapiente delle parole, brani che si trasformano in poesie e rendono gli arrangiamenti punto prezioso da cui partire per dare una maggiore scorrevolezza al tutto, grazie all’utilizzo degli strumenti più disparati, soprattutto di origine folk come il violino, l’ukulele e il banjo e grazie anche a parole che parlano di una velata quotidianità a volte sottintesa, quasi criptica, ma sempre pronta ad esplodere nei momenti più opportuni. Nove pezzi che lasciano all’apertura Macchia di rosa l’incipit potente che affonda poi in pezzi più leggeri, ma strutturati, come Timore d’amore e Orbitante passando per Credo nell’uomo e il finale lasciato a Un discorso sospeso quasi a ricordare che il messaggio lanciato dal gruppo è importante, profondo, ma comprensibile da tutti, per questo superficiale: in una banalità dilagante i nostri parlano, in modo poetico, di ciò che ci circonda ogni giorno.