Royal Bravada – Royal Bravada (Autoproduzione)

Questo è il pop che mi piace, non strillato, non mega acclamato, essenziale, lineare, suoni curati, canzoni che ti entrano e non escono più, con contrappunti di chitarra che si dileguano al suolo lasciando polvere al proprio passaggio.

I “Royal Bravada” meravigliano con una prova carica di stile e precisione degna di un qualsiasi disco  che sforna il mercato internazionale giornalmente, con piglio quindi di chi la musica la fa da un sacco di tempo pur mantenendosi giovane negli anni e nelle scelte.

10 tracce che lasciano spazio all’immaginazione, dove ognuno è il protagonista di queste storie che si fanno influenzare dal migliore indie-pop in circolazione partendo da gruppi come “Blur”, passando per “Bloc party” e roll and rock coreografico di “Franz Ferdinand” e Co.

A farla da padrone in questa prova dal sapore immacolato sono i cori puntuali che affiancano la voce azzeccata di Alberto Ciot  coadiuvato nell’opera da Luca Fedeli  alla chitarra, Antonio Silvestre al basso, Alberto Trizzino all’altra chitarra e Marco M Lucano alla batteria.

Una corsa folle su di una montagna deserta sbattendo addosso ad ogni albero che si incontra al proprio cammino: è questa la sensazione di stordimento che percepisci lungo l’intero LP dove la follia  è sempre accompagnata da una cura maniacale per il dettaglio in vista della buona riuscita del tutto.

Un disco che ci farà compagnia per molto tempo questo omonimo della band Monzese, un album così ricco di energia da far invidia a band più blasonate, un ascolto obbligato quest’estate da poter sorseggiare lungo una strada infinita.

Evacalls – Seasons (Autoproduzione)

Avete presente i Placebo che suonano seduti attorno al fuoco in una spiaggia a metà Luglio? Ecco questi sono gli Evacalls.

Melodie raffinate in lingua inglese, che si lasciano dietro il pop degli anni ’90 per trasformalo con grande stile e concretezza in un buon mix tra indie e brit-pop.

Un album che racconta l’incedere delle stagioni con piglio genuino e scanzonato, con un uso sapiente si synth e con la capacità di chi da tempo ha nel cassetto una manciata di pezzi e vuole farne un disco da lasciare come traccia del proprio passaggio.

Ecco allora che Giuseppe Guidotti ricerca gli altri musicisti da aggiungere al suo progetto e in breve tempo la squadra si amplia con l’ingresso di Vincenzo Augello alla voce, Alessandro Martinetti alla batteria, Alessandro Ghiotto alla chitarra e Matteo Borla al basso.

Ne esce un suono puro, raffinato e al contempo ricercato; il tutto si denota da pezzi come “Give me a reason”  e “Away from her(e)” che ricorda i defunti “Zwan”.

Bellissime poi le parti strumentali di “Monday” e “The man who lives on the moon”.

Ecco allora che le finestre si aprono per lasciare spazio ad una ventata di aria fresca , in attesa della primavera che deve arrivare, come fosse un rito continuo, essenziale e esistenziale quello di correre nei prati vicino alle farfalle, quello di seminare buoni frutti, quello di ascoltare buona musica.

Gli Evacalls sono tutto questo e con un suono così non si può aver paura nemmeno del temporale

War Children – The rolling funerals (Mia Cameretta Records)

Testi diretti, concisi, un coltello che taglia la nebbia e si prende il suo giusto posto tra la ruggine e l’affilatoio, tra l’olio lubrificante e la catarsi ipnotica di corde che sfregano pick-up placati oro e argento; maliziosi quanto basta per fare un rumore inconcepibile e sinistro, maniacale e profetico, un trambusto di grida inascoltate che si dipanano e lasciano il momento catartico alla pura improvvisazione.

Non c’è voce, non c’è orchestra, solo tamburi nell’oscurità che accompagnano grida di trapassati per accompagnarli nel loro giusto posto dove stare per l’eternità, un’eternità  che è di tutti, ma che non è concepita da tutti.

La melodia non esiste per i “War children” ma non esiste nemmeno il minimo concetto di decenza in “The rolling funerals”  forse ad indicare sapientemente che tutto ci sta portando a un finale apocalittico, in declino perenne, verso mondi lontani e nascosti: un triste finale per un macabro inizio.

Non un disco quindi, ma uno sviscerale bisogno di sfogo verso il nulla che ci appartiene e scusate se è poco.

Medulla – Camera Oscura (Autoproduzione)

copertina album  Medulla - Musica  Camera Oscura

Entrare in una camera oscura dopo un flash poderoso e introspettivo, dove a pagare il riscatto per l’uscita di scena è il tempo  inesorabile che sbaraglia la concorrenza e relega il possibile all’impossibile.

Una fotografia impressa nella mente, una pellicola che conosce il profumo del tempo e come buon vino maturato al sole  i “Medulla” confezionano un degno secondo album dai tempi di “Introspettri”, acquisendo un suono più maturo e al tempo stesso elegante, contaminato dalla miglior scena italiana in primis fra tutti “Teatro degli orrori”, “Baustelle” e “Paolo Benvegnù”.

I quattro di provenienza “periferia Milano Ovest” sembrano voler racchiudere all’interno delle dodici tracce di “Camera oscura” tutta la rabbia che si respira tra il cemento e il degrado, tra le macerie e gli eco-mostri che non si differenziano dal cielo grigio, una rabbia che deve essere il punto di svolta per un miglior domani, un punto di svolta per fuggire da un cubo di piombo che distrugge senza comporre; quasi ad essere un puzzle legato da tasselli mancanti.

Ecco allora che il suono prende forma tra le chitarre di Michele Scalzo, quest’ultimo anche alla voce, coadiuvato dai synth di Carlotta Divitini e il basso di Marco Piconese, con la solidità ritmica di Giuseppe Brambilla alla batteria.

Un suono in continua ricerca ed espansione, che si permette incursioni parlate in pezzi come “Il nulla” e nelle finali “Il coniglio” e “La tenebra”.

Un disco ricco di chiaro-scuri esistenziali, di bianchi e neri che inesorabilmente cercano una propria via d’uscita: quasi ad essere come dispersi in un labirinto, quasi ad essere sostanza aggregante che congiunge molecole diverse, per far spuntare, tra il cemento, sempre e comunque  un po’ di vita.