Fuzz Orchestra – Uccideteli tutti!Dio riconoscerà i suoi (WoodWorm)

Partiture di musica contemporanea assemblate con cura da Enrico Gabrielli che si fondono in modo egregio con le ascensioni sonore, verso un’apocalisse immediata, dei Fuzz Orchestra che in questo loro nuovo disco permettono all’ascoltatore di entrare in un mondo musicale che fa da contorno ad un film, intrecciando Morricone, Joe Hisaishi e il rock più oscuro e personale dei Black Sabbath e le parabole funamboliche dei Can per un’associazione alquanto originale di generi e proposta.

Percorsi di espiazione, rivelazione e giudizio, un affrontare le insidie quotidiane guardandoci un po’ dentro, guardando al passato e al futuro, la paura di svanire e non lasciare traccia e quel buio inconfondibile che fa da tramite per le produzioni migliori; tra stanze chiuse e sofferenti c’è il desiderio di tornare, oltre ogni aspettativa e oltre ogni possibilità, un viaggio che parla di morte e caparbietà: si pensi alle atmosfere desolate della bellissima apertura affidata a Nel nome del padre per scorrere poi sempre più verso una strutturazione che lascia segno del proprio passaggio in The heart will weep.

Un disco oscuro e di difficile comprensione nell’immediato, che necessita di numerosi ascolti prima di essere assimilato, otto tracce che però lasciano il segno per originalità e significato, un significato che si fa desiderio di tornare oltre ogni mondo e oltre ogni spazio conosciuto in un ciclo continuo per secoli ancora.

La notte – La notte (TirrenoDischi)

Ammantati dalla sola oscurità che riesce nell’intento di sovrastare qualsivoglia forma di luce, questo primo Lp costringe l’ascoltatore ad abbottonarsi per bene il cappotto per andare incontro ad un qualcosa che a fatica sappiamo interpretare.

Suoni psichedelici di matrice ’70 che incontrano molte chitarre di Gish e di Mellon Collie dei compianti Pumpkins per dare sfoggio reale di un costrutto che tiene conto di un cantato italiano che delinea maggiormente un’indole di carattere credibile e sincera dove l’improvvisazione e la sperimentazione si fondono con grande stile e sicurezza nel creare strutture sonore mature e acide, a tratti spigolose, a tratti sviscerali ed emozionali, quasi a completare il senso di impotenza interiore che ci accomuna.

Testi taglienti di forte connotazione tangibile e verista, che ti sbattono in faccia la realtà così com’è, senza mezzi termini e mezze misure.

Addentrarsi nella notte significa fare i conti con noi stessi, con quello che siamo e con quello che siamo stati, a ricercare i colori dove il nero prevale, tra le scale di grigi importanti e quella paura, quasi mistica, nel riscoprire traccia dopo traccia, che anche Noi siamo parte di un qualcosa di più grande, lontano, inesplorato, ma sempre acceso nei nostri cuori.

Fratelli Calafuria – Prove Complesse (Woodworm/Audioglobe)

Non ci sono confini e nemmeno regole per questo disco dei Fratelli Calafuria, un’espansione sonora di colori che portati all’ennesima potenza lasciano scorrere immagini sfocate direttamente alle radici del rock, trasformati poi con il tempo in susseguirsi di vicende che si nutrono di garage punk ‘d’annata inglobato a proprio piacimento in un caleidoscopio unico.

Mix inusuale per Prove Complesse, meritato approdo dopo i numerosi successi del tempo, pur restando band di nicchia, dal sapore terreno e coltivando un substrato di energia che basterebbe a metà dei gruppi presenti nella penisola per dire qualcosa.

Sono tredici canzoni che si spostano tra testi surreali in bilico tra poesia neorealista e verismo mai conclamato, dove i testi che abbracciano le poesie di Gaetano sono catapultati ai giorni nostri, nel vivere quotidiano, tra i problemi che affrontiamo ogni santo giorno.

Pensiamo ad House in affitto, passando per Meraviglia o E’ stata estate, parole che non hanno bisogno di classificazioni, ma sono un tutt’uno con il suono, testi a volte verbosi, ma essenziali per delineare un concetto che alla fine del tutto offre numerosi punti di vista.

A livello musicale scopriamo una maturità generosa, conseguita e sbocciata in linea con la scuola americana toccando At the drive in per passare alla sfrontatezza degli inglesi The Who.

Non siamo qui per definire però queste prodezze, possiamo a malapena delinearle, tra stupore e assoluta meraviglia, esplorando il nostro cervello che assume le fattezze di un labirinto da cui non vorremmo mai uscire.

 

Sycamore Age – Perfect Laughter (Santeria/Woodworm/Audioglobe)

Inclassificabili è forse la parola che gira nella mia testa ascoltando il secondo album di una delle band più interessanti del panorama italiano odierno i Sycamore Age.

Cantano in inglese e sanno molto di internazionalità, anche perché il loro suono è una continua sperimentazione tra folk psichedelico e lisergico, contaminato da cori che ricordano il celebrato bianco album dei quattro di Liverpool per un approccio al tutto condito da eleganza di sintetizzatori che vogliono costruire, in un incedere melodrammatico, un’opera dai contorni segmentati, una ricongiunzione con una divinità astratta, il metafisico punto d’incontro con il me stesso nell’aldilà.

Il disco suona però concreto e i nostri ne escono i vincitori anche perché la commistione di generi provoca nell’ascoltatore un senso di stordimento iniziale che già al secondo ascolto riesce a inquadrarsi per essere maggiormente definito.

Non che questo sia facile, ma la ricerca porta il gruppo a varcare territori cari alla sperimentazione sonora tra MGMT e Pink Floyd, delicatezze alla Nick Drake passando per velate introspezioni Reznoriane a tentare di definire un concetto che implode tranquillamente in un Hail to the Thief più intimo e meditato.

Un album che sa di perfezione, altisonante e imperioso, colpisce e affonda, annienta l’inutile e si concentra sul raggiungimento di un qualcosa che non è percepibile, su tutte la meraviglia eterea Drizzling Sand.

Un gruppo che regala sorprese a non finire e stupisce per la qualità musicale proposta, un ricreare l’ambiente circostante tra acustiche sintetizzate e folk legnoso, tra pianoforti che sanno di boschi e batterie cadenzate, un ricreare perpetuo di un concetto arcano, ma così vicino a Noi, puro ed essenziale, fresco e dirompente.

 

Fast Animals and Slow Kids – Alaska (Woodworm)

Opera sonora variegata che si caratterizza da una maturità compressa e pronta a scoppiare ad ogni secondo.

Il terzo album dei FAASK è un fiume in piena di emozioni sonore, dal caratteristico sapore glaciale, un misto di strade da percorrere e punti di svolta da cui ripartire, angoli ciechi in una strada ricoperta da grattacieli in cui la via di fuga non è proprio a portata di mano, ma si nasconde nel posto più vicino alla nostra anima.

Il cuore, quindi, in questo disco più di tutti gli altri si sente il cuore energizzante che strappa e lacera, che si contorce in grida di dolore e squarcia orpelli aerei in voli silenziosi, dall’azzurro cielo all’azzurro mare, un po’ come quando si torna bambini guardando l’immensità del mondo.

Un album immenso quindi, circolare, essenziale, mai banale, che stupisce per cariche sonore e sprazzi di inquietudine quotidiana pronta a ritagliarsi un nuovo terreno per ripartire.

Sono dieci pezzi, gridati a squarciagola, per non sentire più tutto l’universo intorno, canzoni che non prevalgono, ma che tutte fanno parte di un percorso ben preciso, che i nostri sanno di poter realizzare: titoli azzeccati e rumori che si impadroniscono di noi in un continuo e lungo atto infinito.

Un album che a priori, regala attimi di luce nel buio e ti fa, anche solo per un po’, essere migliore.

The Rust and the Fury – See the colors through the rain (WoodWorm)

 

I perugini non scherzano e non sono frasi da relegare ai bigliettini dei famosi cioccolatini, anzi, questi ragazzi sono uno spaccato di cultura che dimostra sempre più la ricerca e il contatto con le generazioni e le persone che li circondano.

I cinque uniscono e stupiscono bene, facendo un bel pop, dalle venature britanniche, sfatando i luoghi comuni e facendosi innestare in modo preponderante da suoni ’90 contornati da incroci Baustelliani, che si fanno ecco in tutte e undici le tracce.

Canzoni scanzonate e scanzonate canzoni si ritrovano in modo semplice a stupire con un mood e con ritornelli che si fanno presto ricordare, quasi fossero una piccola colonna sonora da custodire all’interno delle nostre orecchie e da accendere quando abbiamo freddo.

Ricchi di atmosfere corali, grazie anche alla complicità della voce femminile di Francesca Lisetto, i nostri aggrovigliano suoni in arpeggi e presenze degne di una grande pop-rock band.

Mollati gli ormeggi ecco allora che l’album si amplia, si completa e si deforma in un arcobaleno di colori che parte blando con May the sun hit your eyes, passando velocemente ai ritmi sostenuti di Amanda e incalzando l’acustica nel folk di The seconds in between; in un attimo poi si fa strada la riuscita Lived e la sincopata finale Tomorrow’s rains.

11 tracce a completare un personale cammino, un piccolo, grande anticipo per il nostro compleanno, perché si IndiePerCui festeggia 2 anni di vita e quale regalo migliore di questo per passare l’Agosto in attesa del 19 settembre data di uscita di questo essenziale disco?

 

Wu Ming Contingent – Bioscop (Woodworm)

Ci sta l’abbandono e la crisi generazionale che investe il proletario succube del potere.

Ci sta una mossa che ne vale almeno cinque in quanto pretende di essere quello che effettivamente è veramente.

Ci stanno i Wu Ming Contingent che snocciolano canzoni come fossero attimi di incorposa e sinuosa crudeltà verso un mondo polverso fatto di strade tra alti palazzi dove il fumo si alza in cielo nascondendo il reale, il vero e tutto ciò che può sembrare tale.

Un gridato che abbraccia la new wave e il post rock and roll toccando Lindo Ferretti quando ancora aveva qualcosa da dire e quando ancora il sudario era un pezzo di straccio pieno zeppo di pioggia dopo una performance da urlo.

I nostri scarnificano la massa e dicono che così il mondo non va bene, non funziona e si intravedono spiragli di luce solo nel seguire una determinata via racchiusa da confini immaginari.

Vapore e nuovole stridenti che si ascoltano in pezzi come Soladato Manning o in Italia mistero kosmiko lasciando tracce di lati B in Dio Vulcano! e Socrates.

Un disco di protesta e congiunzione, di rabbia e ricongiungimento verso un orizzonte che stenta ad arrivare, verso un’alba ancora priva di colore; per fortuna ci sono gruppi come i Wu Ming Contingent ad illuminare la via e a dare un senso a tutto questo.

Ashram Equinox – Julie’s haircut (Woodworm, Santeria)

A un anno di distanza dal precedente ep gli emiliani Julie’s Haircut tornano alla grande firmando un disco di atmosfere metropolitane denso di significati e altrettante pretese che vengono soddisfatte lungo i 40 minuti in una sola e unica sinfonia d’autore.

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Una suite di post rock strumentale dove l’avant  viene mescolato all’Oldfield d’annata creando una trance di pura improvvisazione e ricerca sonora difficile da trovare, difficile da sentire oggi.

I 5 ragazzi entrano a far parte così di una schiera ricercata e amata per l’ambizione di donare al panorama musicale sempre qualcosa di nuovo e di vero.

I meandri tendono alla luce quando Ashram si impone vorticosa partecipando all’Elfman indiavolato di Tarazed; sentori orientali si ascoltano in Johin tra i fumi dei Narghilè e i tappetti sonori a ricoprire il tempo dilatato e oltremodo disperso, mentre Taarna è una cavalcata circoscritta al fulmine che verrà, al rullante in primo piano a preannunciare scariche elettroniche di synth in tremolo.

Equinox è puro ambient che preannuncia la semi Morning-Bell Sator e qui entra in gioco il piano che squarcia le profondità con bassi poderosi nel viaggio Floydiano di Taotie, a finire la speranzosa Han.

Un disco fatto di immagini suggestive, di racconti che vanno oltre il definito, un viaggio di ricerca continua e mutevole capacità di esprimere energia composta e psichedelica maestria.

Fast animals and slow kids – Hybris (Woodworm)

Il progetto Fast imagesAnimals and slow kids è un concentrato di bravura e talento legato dal filo sottile, ma percettibile dell’armonia e del rumore, del suono pesante, ma allo stesso tempo delicato; con stile, i 4, confezionano una prova sopra ogni aspettattiva toccando vertici altissimi di vera poesia, sia nei testi che negli arrangiamenti, questi ultimi mai banali e accomunati per certi versi alle distorsioni di Gionata Mirai del Teatro degli orrori.

Un album molto maturo quindi, che raccoglie il lato migliore della prosa rock degli ultimi anni miscelando uno stile che si dava per morto, ma che con capacità rinasce nelle mani di Alessandro, Alessio, Aimone e Jacopo.

Il suono concentra il punk dei Nofx con l’indie distorto dei Sonic Youth e i testi dei Zen Circus.

La voce risulta graffiante e irriverente come in “Fammi domande”, mentre raggiunge picchi decadenti in canzoni come “Combattere per l’incertezza” e nella splendida “Maria Antonietta” dove un perdono serve a poco quando siamo già grandi.

E’ un album, questo, che si interroga sulla morte delle relazioni e sulla capacità introspettiva di vedere il proprio mondo riflesso in una società immobile e inerte.

Come Capovilla si interroga in “E’ colpa mia” qui Aimone in “Canzoni per un abete parte II” si interroga sulla colpa di non avere colpe in quanto ciò che ci circonda ha distrutto molto di buono del costruito: rendendo a pagamento anche l’aria che respiriamo, rendendo meno facile il vivere normale.

Per questo i 4 ragazzi umbri riferiscono un’urgenza nel loro esistere, un’inquietudine resa più che mai dalla cover del disco: la desolazione di una città lontana, mentre noi formiche bruciamo al sole sopra una terra che, con quel poco che ci assomiglia, ha smesso di far nascere fiori.