Lupo – To the moon Ep (Riff Records/Grand Tree House Records)

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Musica d’autore impressa nella mente di un folk d’annata proiettato per l’occasione a riscoprire e a dare un senso a questa nostra velocità. To the moon è un album spaziale, un richiamo notturno alla luna, un richiamo che segna e incanta, mescola e non reprime, ma piuttosto si concede a questo nostro tempo. Sei canzoni introspettive registrate in solitaria in uno studio di Tokyo. Sei pezzi creati per l’occasione dall’ex AmpRive Chicco Bedogni. Canzoni pensate per riempire il vuoto di stanze scarsamente arredate. Pezzi che si snocciolano a dovere in un folk che si guarda dentro, fino in fondo, fino alle radici. Nei pezzi di lupo c’è Glen Hansard, Iron & Wine, Bon Iver, ma anche Neil Young in un cerchio fatto di passione e coraggio, voglia di cambiare e desiderio incontrastato di suonare ancora l’ultima canzone. To the moon è un disco intimissimo, uno di quegli album che si fanno sfiorare e ritornano sempre e comunque vicino a noi, anche nei momenti di abbandono, anche quando sembra non ci sia più nulla da fare. 


Johnny Casini – Port Louis (Autoproduzione)

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Primo EP del musicista di Correggio che per l’occasione sfodera dalla manica assi portentosi come Phil Manzanera alla produzione artistica già con David Gilmour, David Byrne e Roxy Music mentre strumentisti del calibro di Gus Robertson con i Razorlight, Javier Weyler con Stereophonics, Michael Boddy già con Bryan Ferry & Roxy Music, Paddy Milner con Todd Sharpville e Yaron Stavi già con Richard Galliano, Robert Wyatt, David Gilmour costruiscono una struttura sonora portante che richiama indissolubilmente un rock contemporaneo che attinge dal passato una forma cantautorale d’impronta pop davvero importante. I Beatles che incontrano gli Arctic Monkeys, gli Oasis che intersecano i loro suoni con qualcosa di più introspettivo e nel contempo fruibile e leggero per un disco che abbraccia sonorità internazionali pur sedimentando radici in un’italianità espressa. Port Louis è un insieme ragionato di pezzi racchiusi in una bolla di classicità e capaci di costruire qualcosa di personale pur rimanendo all’interno di schemi ben precisi. 


Nevica – Tengo (Area 51 Records)

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Disco oscuro e in qualche modo ovattato che costringe l’ascoltatore ad entrare all’interno di un mondo che si ispira all’opera di Murakami 1Q84, già similare per alcuni aspetti all’orwelliana 1984, per un album intellegibile e pronto a stupire ascolto su ascolto. Il progetto Nevica di Gianluca Lo Presti è un pugno allo stomaco al perbenismo da salotto e di certo non consola prima di andare a dormire, ma piuttosto si muove tra un’alterata percezione della realtà e un bisogno di comunicare un futuro distopico e spaventoso, un futuro fatto di generazioni affondate per sempre nell’ineluttabilità costante. La terribile bellezza dei temi trattati si sposa con una musica d’insieme ragionata ed eterogenea nella sua complessità. Tengo si muove tra territori che ricordano il miglior rock alternativo degli anni ’90 fino ad approdare ad un uso contemporaneo di sintetizzatori e costruzioni mentali che ben si amalgamano con questa proposta. Gianluca Lo Presti costruisce un mondo dentro ad un altro mondo, riesce a dare spazio all’immaginazione creando un concept di rara intensità.


Diana – And you can’t build the night (Dischirotti)

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Disco notturno che ricorda un camminare lento e sospeso su strade avvolte da oscurità e notte a rinfrancare gli animi, a celare dietro la maschera dei cliché un punto di svolta e una personalità in definizione. Il disco di Diana è strutturalmente ineccepibile, le canzoni colpiscono con suoni architettonicamente mossi da un’elettronica mai esagerata, ma piuttosto ponderata e silenziosa che ricorda le ambientazioni sonore di gruppi come gli Amy Can Be. And you can’t build the night è un esordio convincente sotto molti punti di vista. Belle le interpretazioni di un mood metropolitano e introspettivo, bella e notevole la scelta di alternare brani in inglese con quelli cantati in italiano a creare una commistione di genere essenziale nella sua meraviglia più profonda. Da Lost fino a Festival la nostra riesce nell’intento di creare un disco circolare e anche un po’ ambizioso, un album concentrico che guarda oltre i confini nazionali, ispirandosi ad un’internazionalità sospesa e invidiabile. 


Banana Joe – Supervintage (Pioggia Rossa Dischi)

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Suoni incontrollati superstiti di un abbandono ad incasellare attimi di vita a profusione atomica dove la potenza deflagrante di chitarre in sospensione si sposa alla grande con testi affilati quanto basta per dare senso maggiore e probabilmente valore aggiunto alla produzione. Il disco dei Banana Joe arriva come pugno allo stomaco, senza fare male, è un pugno di conflitti interiori che si sposano ad arte con la quotidianità, tra un rock anni’90 è una radice punk che non smette di urlare e gridare la propria appartenenza attraverso sensazioni non sempre delineate, ma sicuramente convincenti. I brani si sciolgono come aspirina nell’acqua e sono un toccasana di questi tempi. Da Tara a Omertse passando per Polvere, Queen dei cofani i nostri fanno dell’ironia e del menefreghismo una parte centrale e riuscita di questo Supervintage dal sapore maledettamente attuale e carico di narrazioni che non si chiedono troppo, ma che piuttosto centrano sempre un obiettivo.


Giacomo Toni – Nafta (Brutture Moderne)

Disco proiettato dagli anni ’80 ai giorni nostri tra le nebbie del sentirsi soli e quell’atmosfera grigia della pianura che non consola, ma annerisce pensieri, li riempie di acquazzoni e li stende a terra senza possibilità di muoversi, senza possibilità di riscatto. Giacomo Toni ingabbia i sentimenti e parla di cruda realtà analitica quasi in stile punk naif, ma di certo con fare prorompente e soprattutto senza niente da perdere il nostro confeziona un disco duro e crudo che non cerca le mezze misure, ma piuttosto qualcosa di nuovo tra le produzioni musicali odierne. Il suo cantautorato non trova appigli nel già sentito, ma piuttosto trova una valvola di sfogo attraverso la vita di strada che si fa narrazione convinta e di indubbia qualità, uno slancio che parla al popolo dello schifo in cui annega giorno dopo giorno e dei bar di provincia che nascondono le lezioni di vita più importanti. Un album eclettico e fuori dal coro, una moderna Antologia di Spoon River in cui ogni storia, ogni persona è un tassello importante per creare costruzioni lontane dal mondo luccicante del chiacchericcio moderno e capaci di entrare nella realtà quotidiana attraverso un sapore astratto di scosse improvvise e vitalità inaspettata.

Luciano Panama – Piramidi (La dura madre dischi)

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Luciano Panama parla di costruzioni che ci attorniano, parla di amori metropolitani e grandi avventure percorse senza attimi di respiro, prove che con coraggio si fanno portatrici di linfa vitale da cui trarre immagini, racconti, vita. Piramidi è il primo disco solista del leader degli Entourage che con grande intraprendenza sceglie la strada solitaria attraverso un disco di rock spruzzato dal pop che veicola i nostri pensieri verso una galassia lontana e riappacificatrice, un album che raccoglie otto tracce che si legano con i vissuti dello stesso autore e ci danno la possibilità di ammirare un quadro d’insieme davvero particolare dove echi d’oltremanica si sposano alla perfezione con il cantato in italiano proposto. Canzoni come L’osservatore, Gente del presente o la bellissima Messina guerra e amore si fanno sostanza da sviscerare per lezioni di stile e capacità diffusa dove il suono d’impatto incoraggiante risulta alquanto incisivo. Piramidi è un disco sulla modernità che avanza, sugli accostamenti stridenti di un mondo in dissoluzione, un album che parla d’amore a cuore aperto e si consuma per questo tra realtà e immaginazione, tra i miraggi di un posto migliore e il bisogno di fare qualcosa per cambiare.

Lebowski – Cura violenta (Area 51 Records)

Lebowski è un tiro lisergico che lascia spazio ad impressioni suburbane e si concede ritmicamente in una psichedelia di fondo intrisa di significato e concezioni minimali che fanno dell’astrattismo musicale un punto di partenza per creare dal nulla materico un bisogno senz’altro di esprimersi e di dare spazi ad una realtà in dissolvenza. I nuovi testi strutturati, carichi di emozioni discostanti, appaiono lontani anni luce dalle produzioni passate, abbondano di introspezione e la capacità che il gruppo raccoglie è direttamente proporzionale alla qualità delle canzoni proposte: pezzi in grado di attraversare un’ondata salvifica di post-punk da incorniciare. Le destrutturazioni dei suoni come in Animali nella notte, Mi sento Uh! o la finale Journal Noir sono attimi convincenti di un percorso complesso e davvero originale, un percorso che al quarto album viene affidato interamente o quasi a Gianluca Lo Presti che ha saputo condividere idee e creatività, suoni e affiatamento per un risultato corale che ha il sapore delle cose migliori, quelle fatte con pazienza e precisione, senza lasciare nulla al caso e soprattutto senza dare nulla per scontato. Per i Lebowski, Cura Violenta, sarà il disco della maturità.

Claudio Lolli – Il grande freddo (La Tempesta Dischi)

Otto anni di assenza che come vento impetuoso hanno accompagnato un silenzio imprevedibile per la musica cantautorale italiana. Otto anni di silenzio ed eccoci con Il grande freddo nuovo disco del grande cantautore bolognese Claudio Lolli. Un album che racconta con velata malinconia ed introspezione un’emarginazione di fondo e mancanza di appigli sicuri per andare avanti, tra una privazione sempre più accentuata di una sinistra credibile e pratica e una sostanziale morte dei sentimenti che ingloba ogni singolo attimo della nostra vita e non ci permette di uscire di petto da schemi prepotentemente precostituiti in nome di una violenza morale perpetuata giorno dopo giorno dal nostro mondo evoluto. Il cantautore militante cristallizza l’attimo in istantanee, piccoli dipinti che fanno parte di un complesso e meraviglioso artwork realizzato da Enzo De Giorgi e che in musica brillano di uno splendore assai raro. C’è un’essenza scarna in tutto questo, un’essenza di desolazione che ricrea amarcord sofisticati e pregnanti veridicità. Già con la title track d’apertura sentiamo come la poesia non scada nella banalità ed è sempre, essa stessa, ricerca di un modo di comunicare attraverso parole quasi desuete ai nostri giorni, parole che hanno un loro peso specifico, un’impronta prima di tutto culturale. Sul retro Claudio e la sua chitarra, una strada ad indicare che “….bisogna andare sempre avanti, anche se noi non siamo in tanti…”, una strada che ci porta a quel Raggio di sole finale che può essere rinascita in ogni angolo del nostro vivere umano conosciuto.