Magar – Capolinea (Alka Record Label)

Quello dei Magar è un disco intenso, una piccola perla del panorama indie italiano, una perla fatta di quattro pezzi sostanziosi in grado di entrare prepotentemente nella testa dell’ascoltatore con sonorità decise e divincolate dal moderno che avanza inarcando la testa al passato e valorizzando panorami creati da musicisti come il Buckley migliore in un cantato in italiano che grazie a ritornelli bisognosi di sapere si rende intellegibile ad ogni latitudine. Pezzi atmosferici come l’apertura affidata a Gratitudine fanno comprendere la caratura e il livello emozionale della band sarda che prosegue il proprio percorso con le cavalcate sinuose di Non è semplice e Vorrei fossi qui fino ad arrivare alla finale Le mie orge in un compendio elettrico e delizioso che nonostante la brevità della proposta si fa ascoltare tutto d’un fiato e rende assolutamente bene l’ideale centrato di questo gruppo in evoluzione. 


I fiory di Mandy – Radici (Autoproduzione)

Il piccolo EP de I fiori di Mandy è un lavoro intenso e crepuscolare, dove la poesia e il lirismo sono parte centrale del tutto e dove la stesura metrica dei pezzi proposti si sposa alquanto bene con una musica cantautorale che strizza l’occhio all’alternative diffuso ricordando per certi versi musicisti indie della penisola come Bugo. I fiori di Mandy vengono dalla Sardegna e dopo aver girato l’isola a suon di rock si concentrano su questa prova, Radici che è l’emblema di un attaccamento alla propria terra che non ha il sapore del confine, ma piuttosto è un intenso vivere con tutto ciò che li circonda tra la sofferenza e il disagio, tra le promesse e le speranze da mantenere. Solo tre canzoni Afrodite, Jourande e Radici per Edoardo, Luigi e Raffaele, tre pezzi per un power trio, tre canzoni che sanno di rivalsa e portano con sé il sapore delle cose migliori, da custodire, ma nel contempo da far esplodere in tutta la loro vera essenza.

Fujima – Fujima (Hopetone Records)

Ep denso di interventi musicali, capace di scavare nelle viscere e dimenarsi tra chitarre in arpeggi e rifacimenti collettivi che attanagliano, attraverso un ritmo ben serrato e concettuale la musica di fine anni ’80, inizio, ’90 quel rock contaminato e underground senza pregiudizi e in grado di convincere attraverso forme di sperimentazioni oltre i confini del pop più nudo e crudo, assicurando bellezza variopinta, ma nel contempo legata ad un filo rosso che rende omogenee le tracce proposte in un sostanziale abbandono della forma per valorizzare sostanza e costruzioni sonore impacchettate a dovere, dalla prima Spaceship Girl passando con voracità nella riuscita Goodtimes fino al finale di Outside the cold storage per una manciata di brani di senso compiuto che operano oltre gli orizzonti sonori, tra dinamiche convincenti, indie rock non clamoroso, ma vissuto e tanta, tanta capacità di amalgamare la costanza con le esplosioni sonore che in questo album si alternano come mare cullato da tempesta costante.

Pasquale Demis Posadinu – S/t (Desvelos)

Cantautore atipico sardo che estrapola la tradizione e la proietta nei nostri anni, aggiungendo un’elettronica che concilia e riempie, un utilizzo cospicuo di sintetizzatori che si innestano immancabilmente in testi che parlano di Noi, che parlano delle nostre speranze e aspettative, che parlano dei giorni che prima o poi cambieranno.

Il colore del mare a farla da padrone, si perché i testi sono delicati, ma sanno trasformarsi in parole impetuose capaci di cambiare in profondità gli abissi delle nostre coscienze e farci comprendere che tutto poi non è come sembra, è un cantautore che ci allena a guardare oltre, in cerca di speranza, in cerca di nuove attracchi nei porti dei nostri sogni, senza però dimenticare di porci davanti la realtà, quella dura realtà che ci fa tenere in vita.

L’approccio diretto è coadiuvato dalla produzione artistica di Giovanni Ferrario opportunatamente dispensatore di idee e capacità conoscitive fuori dal comune che rendono l’ascolto ancora più intrigante e capace di suscitare stati emozionali vivi e sinceri.

Dieci pezzi quindi che mescolano la realtà alla ribellione, notevoli brani quali musica TV passando per Michela o Più vecchi di Guccini a disegnare una dimensione in cui le nuove leve musicali crescono tra una bellezza omologata, senza più apporto originale, perdendo quella linfa vitale di protesta che caratterizzava i grandi degli anni passati.

La bellezza quindi che si perde e con la luce dobbiamo ritrovarla, un disco che affonda le proprie unghie dentro al substrato culturale di ognuno di Noi e cerca con inossidabile tenacia di trovarci qualcosa di buono e autentico.

Herbert Stencil – I Gelati alla moda (Autoproduzione)

Chitarra acustica strampalata in mano che si condensa e si fa liquefatta in elettriche d’abbandono punk rock che si distendono e lasciano entrare violentemente batterie e suoni in suspense che si alternano ai colori dell’improvvisazioni tanto questo disco è marchiato a fuoco da generi che prevalentemente spaziano dallo psycho al beat, dal rock d’oltre oceano al punk gridato a squarciagola che si consuma indifferente alle mode quasi fosse un’esigenza quella di contemplare ancora a fondo un attimo di orizzonte.

Herbert Stencil è un cantautore nato in Sardegna, dopo innumerevoli lavori più o meno rinfrancanti il nostro si concede alla vita da ingegnere, ma nello stesso tempo compone musica stralunata che non vuole rientrare in un determinato genere, ma che si esprime come esigenza essenziale di vita, senza risparmiare nulla e nessuno.

Affiancato nei live da una band e nel disco da una forte dose di sintetizzatori Herbert Stencil si concede senza problemi, abbandona il superfluo per far dell’introspezione nonsense un cavallo per entrare nella ricca città e attraverso un dissacrante uso dei termini, poter penetrare a fondo e non risparmiare nessuno e nessuna.

Meno tasse e più donne naif questo è il suo slogan, in onore di una spontaneità che deve essere ritrovata per poter fare del mondo un qualcosa di migliore; pensiamo a pezzi come Ci ho pensato domani o Quando andavo al conservatorio, per passare dalla title track fino a Il cervello è scaduto: richiami da Gaetano suonato dagli Exploited, Zen Circus e Tre Allegri in un mix di musica sudata fino all’ultima nota.

Un disco che merita attenzione perché risulta essere una prova in stato di grazia, capace di rischiarare il cielo dalle giornate grigie, tra il ritorno delle cose semplici ed essenziali e una maturità raggiunta e tangibile.

Perry Frank – Soundscape box I (Tranquillo Records)

Discostante e di una bellezza quasi irraggiungibile che si perde negli anfratti della coscienza per colpire un’altra volta al centro del pensiero, al centro di ciò che siamo dentro, per renderci migliori forse, per riflettere ancora una volta, per segnare nella propria agenda persona il tentativo non facile di rendere emozione ciò che si ascolta, regalando vissuti e abbracci solitari, sempre raccolti dalla malinconia di un pomeriggio assolato, ma leggermente velato, dove il terso del cielo viene sovrastato qua e la da nuvole minacciose.

Perry Frank in questa nuova prova regala chitarre ancora più morbide e meditative dove il sovrapporsi continuo di suoni sintetizzati e manipolati ci porta alla conoscenza di nuovi mondi da scoprire: finzione o realtà? Questo sta a noi scoprirlo lungo i sette brani che compongono Soundscape box I, un disco di melodie sonore in divenire calde quanto una coperta invernale, ma taglienti quanto basta per dimostrare all’intera penisola che la capacità espressiva può svilupparsi, in un tutt’uno narrativo, anche in un ambient post rock che trae direttamente linfa guardando il futuro.

Non scomodiamo paragoni, potrebbero essere tanti, fra tutti GCCIGF, anche se il nostro riesce a conquistare per novità della proposta e continui cambi di scena, quasi fosse un film da cui non vorremmo mai staccarci e noi con la punta del naso incollato allo schermo seguiremo il viaggio a Barcelona landscape, tra Le vent et les Nuages e poi torneremo a casa tra rimpianti forse, Regrets, in compagnia però di una dolce musica che non ha mai fine.

 

The heart and the void – Like a dancer (Autoproduzione)

Ci sono artisti che è sempre un piacere recensire perchè creano quella comunione con l’ascoltatore che, a dispetto del genere che possa piacere o meno, fanno dell’alchimia musicale una ragione di vita.

Questo moto perpetuo spesso accade con in cantautori e qui ci troviamo a varcare territori in bilico tra un primo Dylan e il più recente The Tallest Man on heart.

La voce del sardo Enrico Spanu convince perchè riesce a raccontare storie malinconiche e velate quasi inattese con arrangiamenti minimal, ma calibrati, dove l’acustica prende il sopravvento in tutti  e quattro i brani del mini ep.

“For the little while” parte con grancassa sostenuta a dare il tempo alla dolce zuccherata “The morning after”, “Empty house” porta appresso arrangiamenti ricchi di phatos mentre “When winter ends” è una canzone per l’inverno che deve finire.

Un album che  sprigiona vento come foglie di alberi che mutano al cambiare delle stagioni.

4 pezzi per il tempo quindi che ci attende, un svegliarsi improvviso accarezzati dal futuro: questo è The heart and the void.