Green green Artichokes – Treasure Hunt (Indiemood)

13162402_1094776287256386_1714717622_nLa caccia al tesoro è partita, pronta a riservarci nuove e gustose sorprese, in cerca di nuove sperimentazioni ed esperienze, in cerca di un motivo e un’esigenza che ci permette di far musica, senza chiedersi troppo e soprattutto custodendo l’ideale di libertà che caratterizza questo pazzo duo, i Green green Artichokes di Padova, che per l’occasione ci regalano un disco fatto principalmente di sostanza sonora, non legata tanto agli orpelli, ma all’essenziale, che si denota già nella ridotta formazione a duo, chitarra e batteria, per un indie rock da scoprire e amare.

Non serve altro, come dicono loro, la forza è racchiusa nelle canzoni e in questo album  non mancano di certo, è un’essenzialità che scava nell’indie pop ben congegnato, che unisci con un filo sottile Blur, Travis e Starsailor per pezzi che si dipanano tra cantautorato intimista e aperture chitarristiche più brillanti, partendo con Be an alien fino a A bottle in the sea, un messaggio forse di speranza o forse un pezzo del nostro tempo racchiuso dentro ad una bottiglia trascinata dalla corrente?

Paolo e Stefano confezionano una prova che ha il sapore degli anni ’90 e la capacità di restare reali, nell’essenzialità della proposta, la strada è ancora lunga, ma iniziare il cammino è necessario, tra le insidie del tempo e la luce di domani.

Officina della camomilla – Palazzina Liberty (Garrincha Dischi/Panico Dischi)

Disco che disorienta e spazia in maniera del tutto improvvisata da sonorità lisergiche e quasi psichedeliche verso sostanziose ballate chitarristiche quasi live che in primo piano si fanno racconto di un mondo in decadenza, di un’istantanea accesa dal colore del mare e pronta a sconfiggere l’inutilità per arrivare al succo comprensibile solo da pochi; questo disco è un salto nel vuoto, il vuoto del tempo da colmare, il passaggio segreto, osando e ripetendo, evitando la caduta e magari costruendo nuove forme di società reale, vera, grazie ad occhi sempre aperti, fatti per vedere, fatti per respirare.

Sgangheratezza cosmica che si lascia espandere con intro infinite, dilatate, orchestrali, arrangiamenti studiati per creare tappeti addobbanti foreste, tra Swing, Valzer, Industrial da rave e quell’approccio tanto caro al passato che vede ancora quella tastiera a comporre melodie di facile presa e giusta ambizione, i Beatles e i Verdena, spruzzate di Pink Floyd, Sycamore Age e la cover simil Closer dei compianti Division per un album che è pura transizione per i giorni che verranno, uno studio di un concetto, di un qualcosa che era e che ora si fa ombra, un corridoio oscuro, una porta in fondo alla notte e poi la luce, tanto bella ed essenziale che ti viene voglia di baciarla.

Mom Blaster – Reset (Ridens Records)

Dal suono primitivo che incanala dub e reggae cantato in inglese si approda a lidi più conosciuti, italiani, ma di nuovo approccio che spaziano dal rock all’elettronica grintosa, con synth sparati a mille e quella necessità sbarazzina di creare melodie che si intercorrono lungo tutto il disco, senza tralasciare la componente poetica, senza tralasciare l’importanza di dare un messaggio unico e soprattutto sentito.

Loro sono i Mom Blaster e grazie a questo nuovo lavoro: Reset, si propongono di resettare per l’appunto tutto ciò che è stato il passato per percorrere una nuova strada, più battuta, ma non per questo meno impervia, portando con se una forte preparazione che permette loro di superare a pieni voti la fatica intascando la lezione dagli anni ’90 per poi donare freschezza e genuinità in pezzi dolce amari e quell’inequivocabile bisogno di comunicare senza mezze misure e senza mezzi termini.

Un disco quindi diretto, per certi versi innovativo, che non stanca di ricercare la propria anima nei percorsi della vita stessa.

Kiwibalboa – Tre buoni motivi (LaClinicaDischi)

Bene trattenete il respiro e tuffatevi con me nell’oceano di queste canzoni, che racchiudono un mondo da raccontare, racchiudono un’esigenza di vita che va oltre il già sentito e si ripromette di essere faro per una cultura indie pop che sta virando sempre più verso il rock e le stagioni degli anni ’90, quando le sonorità in minore racchiudevano melodie bellissime e impresse nella mente, dischi che non si dovevano lasciare scappare, a segnare la scena, a ricoprire il bagliore per trasformarlo in qualcosa di diverso, qualcosa che fosse diviso nel tempo per essere appreso totalmente.

I Kiwibalboa sono tutto questo e intascano una prova da primi della classe, cinque pezzi belli tirati che raccontano di disagi di vita e bisogno di cambiare, lo fanno passando direttamente dai loro vissuti, tre buoni motivi per essere se stessi, tre buoni motivi che muovono le idee e i bisogni umani, un album che apre una nuova stagione e ricerca nella propria indipendenza attimi di aria per non affogare.

Majakovich – Elefante (v4v records)

album Elefante - Majakovich

Si respira fuoco e un’aria di novità, lacerante idea di un giorno che mai sorgerà ancora di nuovo e scoppiettante flusso di pensieri errabondi che trovano un canale di sfogo dopo giornate spese male, dopo l’eterna lotta tra bene e male, dopo l’insaziabile ira per una luce migliore.

I Majakovich sono tornati e lasciano il segno, lo fanno con testi spiazzanti coperti dal fragore delle chitarre elettriche e da quell’insaziabile bisogno di comunicare, di lasciare una traccia indissolubile nell’eco poetica che ci rappresenta, parole tormentate che si spiegano e vanno oltre, parole di rimando e testi che, in modo dirompente, lasciano presagire futuri memorabili per la scena indie rock italiana.

Paragonarli ai FASK sarebbe troppo semplice, i nostri cercano di trovare una propria via di approdo, un’illusione che svanisce, alla ricerca di un sentiero tangibile, partendo dalle origini ed estrapolando una carica dirompente capace di immagazzinare una forza che in chiave live si fa veicolo per raccontare e raccontarsi.

Da Elefante fino a Salvati il viaggio è una spirale, ricco di attese e sacrifici, la testa tra le nuvole, ma con i piedi sempre per terra, quelle parole poi che arrivano diritte al cuore e non ti lasciano più, questi sono i Majakovich e questo è il loro Elefante.

 

Bosco – Era (Autoproduzione)

Raccontare e raccontarsi, nudi allo specchio in un continuo nascondersi e celarsi attraverso i sogni che ci hanno costruiti, quei sogni che ci hanno fatto sperare di essere migliori, un continuo cercare il palazzo immaginario dalle enormi vetrate azzurre che in un attimo è pronto a crollare sopra di noi e sopra le nostre speranze.

I romani Bosco al loro esordio confezionano un disco fatto di sguardi alle finestre in una giornata di pioggia, una ragazza dai capelli lunghi che fissa il vuoto, là, oltra la brughiera, oltre il castello nel cielo, oltre l’immaginazione del tempo passato, un cercare luoghi migliori in cui stare grazie alla musica.

Una musica che fa ecco al pop sintetizzato dei primi Baustelle e notevole è l’avvicendarsi della voce maschile e femminile a rendere omogeneo quel tutto carico di significato profondo, quasi fosse una melodia proveniente da lontano dove le tastiere non predominano, ma fanno da sfondo autunnale al bel tempo che verrà.

Un album quindi fatto si sogni perduti e amori lasciati, dove il raccontare la vita di periferia è un modo raffinato e sincero per chiudere il proprio spirito dentro a un cuore solitario che si sta ancora cercando, remore del vuoto che gira attorno e dove il domandarsi è costrutto necessario per costruire e costruirsi.

Dieci canzoni che parlano di amori e di viaggi Me ne andrò a Berlino, perché così mi piace chiamarla, anche se il vero titolo è Il disertore, parte sulla scia dell’abbandono per concedersi poi aperture nel meraviglioso singolo La mia armata, via via Amòr e il Tempo per la dolce timidezza di Il susseguirsi degli eventi e poi ancora il viaggio, le vacanze estive con Malaga, passando per Se e finendo con l’ineluttabile Esedra.

Parlare di raffinatezza non è sempre facile ai giorni nostri, anche perché con i potenti mezzi che abbiamo per fare un buon disco ora più che mai contano le idee e l’idea di eleganza non strillata in questo album ricopre gran parte delle tracce e lascia quel senso di appartenenza simile a un ricordo lontano, a un’immagine di un tempo passato, dove le giornate duravano una vita.

Montauk – Montauk (Autoproduzione)

montaukUna voce che sa essere pulita e sporca allo stesso tempo, una voce che convince fino al tempo massimo in cui ci è concesso di procreare generazioni sfrontate di Post-core; inni generazionali gridati al contrario che di comune accordo accrescono la fame di sapere grondante e di velleità nascoste.

I bolognesi Montauk si avvalgono di 8 ottimi illustratori per raccontare le loro altrettante canzoni presenti nel loro disco, canzoni che affascinano per coerenza di testi e di significato e per suono non banale, ma ricercato nelle viscere del rock stoppato e altre volte narrato in un saliscendi emozionale che dona infinite vertigini.

Tracce della caratura di “Come fossi il tuo cane” si aprono con antiarmoniche e pesano grazie ad un testo efficace e cori precisi, “Il bruco” incontra gli Offlaga, “Da quando non siamo più” invece è debitrice di suoni che ammiccano al brit rock, in chiusura “Piove” che ricorda l’Emidio Clementi più arrabbiato.

Un esordio misterioso e quasi nascosto da contrappunti sonori degni di una formazione navigata, anche se qui ci troviamo di fronte ad un indie rock giovane, ma ben strutturato e legato dal filo nero e cupo che si fa colore portante nella via verso casa.

8 tracce di pure contaminazioni, in cui il giovane gruppo trova aria e spazi in cui muoversi rimanendo sempre a proprio agio e con un pensiero legato a quella striscia di terra che si affaccia al mare, pronta a raccogliere l’acqua salata del quotidiano.

Julie’s Haircut – The Wildlife Variations (Trovarobato e Woodworm)

Ritorno, dopo 3 anni, sui palchi di tutta Italia, per i Julie’s Haircut con l’album “The Wildlife Variations”.

Disco in digitale e in un numero limitato di vinili per collezionisti e fan della prima ora.

Il gruppo, già presente dalla metà degli anni novanta, risulta essere più maturo nelle sonorità e nell’approccio ai testi sia a livello di contenuto che di comunicazione.

L’album è una miscela eterea di suoni alchemici magistralmente fusi in un suono unico e riconoscibile, ep che si accinge a fare da preambolo al disco vero e proprio che uscirà a fine anno.

4 canzoni che parlano dell’uomo alle prese con la natura, del rapporto tra magia e scienza; il tutto condito da numerose citazioni come in “Johannes” dove Keplero è inteso come personaggio emblematico accompagnato dalla teoria della “musica universalis”.

Questo infatti è l’universo dei Julie’s Haircut, parte intrecciata di un mondo diviso dal male e dal bene, dall’uomo e dalla natura appunto.

Nascosto tra gli alberi “Joycuttiani” troviamo Heidegger che assiste al concerto dei Beatles del White Album che per l’occasione sono accompagnati all’elettronica da Jhonny Greenwood.

In rigoroso silenzio si attende il finale, mosso dalla splendida “Bonfire” e dalla degna coda di “The marriage of the sun and the moon”.

Heidegger si alza in piedi e applaude, sorridendo alla luna.

Nova sui prati notturni – L’ultimo giorno era ieri (Dischi obliqui – 2011)

Ed ecco dal silenzio più totale una musica che proviene da lontano e delle voci che si sovrappongono una femminile e una maschile: mai inizio fu più bello per la cover e chiamiamo la cover di “Signore delle cime” del Maestro Bepi De Marzi.

A scalare questa impervia montagna per arrivare fino alla cima sono i vicentini “Nova sui prati notturni”.

La band è all’attivo dal 2011 con Giulio Pastorello e Massimo Fontana che dopo un album completamente strumentale si avvalgono, ampliando l’organico, di Gianfranco Trappolin alle percussioni e Federica Gonzato al basso per l’esordio su “Dischi Obliqui” de “L’ultimo giorno era ieri”.

Canzoni sviscerali che creano atmosfere cupe e oniriche dove si incontrano, chiudendo gli occhi, Mars Volta e Sigur Ros, PGR e Gatto Ciliegia contro il grande freddo.

In “Oggi” poi tutto questo trova un punto d’unione, sembra quasi di ascoltare “Senza Peso” dei MK, tanto il suono è debitore del indie-rock piemontese, ma cosparso di passaggi dilatati.

“86” sembra uno sfogo alla CCCP, con un cantato urlato in lingua albanese, ma ricco di quella nostrana genuinità che ti fa dimenticare presto la band “ferrettiana”.

In “Tempo celeste” Francesco Bianconi sembra cantare questa splendida canzone con Federica, fino all’entrata della chitarra non ancora distorta, non ancora pronta a lacerare l’aria e a lasciare in cielo polvere di stelle o “Cuori di tenebra”.

“Dodiciminutieundicisecondi” è un egregio esempio di rilevazione ambientale per chitarre e bassi, suoni che ti rapiscono mentre ti fanno sudare leggerezza preparando il palato all’immersione canora di “Malkuth (il regno)”.

Con “Nova sui prati notturni” ci accingiamo alla fine di questo disco intenso che preannuncia un epilogo lucente, ma meditato con “L’orto dei veleni” canzone che parla dell’importanza, ai giorni nostri quasi perduta, della terra e dei suoi frutti.

Non è un album per tutti e per fortuna aggiungo io, sicuramente il gruppo va testato in chiave live, magari in un anfiteatro naturale tra gli alberi di una montagna dispersa che incornicia digressioni elettriche e sussurrate.

Una formula originale per una band che regala sempre novità nella ricerca musicale e una felice realtà per una provincia chiusa e poco proponsa a gruppi di questa caratura.