Burn the ocean – Come Clean (SlipTrick Records)

Granitici e portentosi a districare la scena grunge rock per darle nuova importanza e nuovi spunti sonori, appigli rigeneranti che consentono all’ascoltatore di entrare dentro ad un vortice di emozioni distorte, un tunnel, un oblio da cui difficile riusciremo ad uscire, per un suono che, nonostante gli anni andati, risulta alquanto attuale, tra incrociatori sonori e una semplicità di esecuzione, nonché una scioltezza nella pronuncia che grida al mondo una rabbia nascosta, canzone dopo canzone convince e come moto perpetuo intasca energia da regalare partendo con la notevole Days in November per arrivare a quella strumentale Gone away che vuole essere, vuole dare un senso maggiore alla partenza, in un crescendo sonoro, lungo tutto il disco, che strizza l’occhio a produzioni ben più blasonate.

Una band che si affaccia sul mare, loro vengono da Genova, sono i Burn the ocean, hanno appreso la lezione del tempo e con sostanza ce la spiegano in questo Come Clean, dal sapore di polvere e jeans strappati a segnare una nuova era.

Mab – Grungers and lovers (Autoproduzione)

Quattro tracce e la storia del grunge rielaborata con piglio indie rock e arrangiamenti mai banali che si perpetuano lungo questo EP fatto di sudore e rabbia, ma al contempo da malinconia vissuta e grande duttilità musicale, capace di perpetuare con rigore interessato gran parte degli anni ’90, confezionando un album fatto di amore per la musica e amori di un’altra epoca vissuti, inglobati e lasciati al tempo che verrà.

Disco fulmineo, ma completo, un giusto sapore rivolto a quei giorni, Weightless, Short message script, Nectarine e Rayuela compongono un quadro fatto di ricerca e ambizione, passione e profondità, mescolando le carte in tavola e concentrando le sonorità su di un piano ben definito; un album non solo per nostalgici.

Marrano – Marrano Ep (Autoproduzione)

Sfrontati, duri e diretti, ma soprattutto veri, i Marrano si presentano così, con attitudine molto punk e suoni grunge fino a farti scoppiare il midollo, fino a farti giungere all’essenza, un vortice che rapisce fin dalle prime note, sorregge una buona impalcatura di base e conquista grazie ad un suono molto sporco, aperto e di sicuro impatto.

Per descrivere questi quattro pezzi al fulmicotone non abbiamo bisogno di molte parole, c’è un misto vibrante di suoni anni ’80 intersecati alla scena di Seattle del primo decennio successivo, un mood eccellente per stabilire una ripresa del tempo, uno spirito interiore che ammalia e disintegra, ma soprattutto arriva diritto al sodo.

In attesa di un disco completo, un full length dal sapore distruttivo, i nostri intascano una prova di coraggio e pronta a segnare il loro cammino.

 

Kayseren – Il gioco della Regina (Autoproduzione)

La regina colpisce ancora, la regina vuole impadronirsi di un mondo e dall’alto della sua grandezza gioca a scacchi con la vita, gioca la partita di ognuno di noi, un’imposizione dall’alto che senza compromessi ci obbliga a costruire una realtà fittizia e puramente assoggettata ad un qualsivoglia ordine prestabilito.

Sovvertiamo questo ordine dicono i Kayseren, alternando la schiettezza dello stoner con l’ammorbidirsi della melodia in divenire che fa strada e ci conduce nella tana del bianconiglio, lo fa nel fitto del bosco, lo fa abbracciando la musica cara agli anni ’90 passando per Pearl Jam, Nirvana, Soundgarden senza scordare le ruvidità nostrane dei primi album di Verdena e Marlene Kuntz.

Tre canzoni che non passano inosservate, cantate rigorosamente in italiano, capaci di intessere concetti filosofici di ampio respiro domandandosi quale sia l’alternativa utile per un domani migliore.

Buona prova questa, che oltre a nutrire una forte componente fiabesca, si affaccia alla realtà disintegrandola e cercando sempre e costantemente nuove vie di fuga.

Tales of Unexpected – Sciame di Vanesse (Autoproduzione)

Inclassificabili se non per la capacità di creare una musica priva di confini e priva di qualsivoglia forma di incasellamento, quasi un quadro post moderno che innesta al proprio interno sfumature variabili che ambiscono a manipolare i suoni e a renderli partecipi di un fine più grande, di un partecipare alla trasformazione dell’animale solitario, le vanesse che incantano per colori, ma allo stesso tempo sono anche il sunto di un arcobaleno naturale, mai ingabbiato, ma animale libero di volare.

Il giorno come spunto di riflessione e punto da cui partire, dieci canzoni divise in cinque capitoli, partendo dal mattino fino a conglobare la notte in testi di pensieri delicati e vissuti, nostalgica appartenenza ad un mondo in divenire che si fa fine e principio del tutto in un cerchio concentrico sfumato meravigliosamente.

Canzoni rock che sfiorano il post passando per il grunge, il pop, condite da buon gusto per un concept ragionato, una musica inaspettata e prolifica, una sostanziale ricerca estetica ricca di citazionismo non solo sonoro, ma anche letterario, un gruppo che non si ferma alle apparenze, ma ricerca la propria identità, anche un poco nelle identità degli altri, un vedere con altri occhi quello che in parte ci rende ciechi.

Kaos India – Stay (Autoproduzione)

Ep di sole 3 canzoni, bruciante, ammaliante che si ispira melodicamente all’eredità del grunge per trasformare il costrutto essenziale in nuovo racconto, in nuova densa capacità di stupire e collaborare alla creazione di una solida e proclamata autocombustione.

I Kaos India sono una di quelle band che fanno le cose per bene e si sente, curando i minimi dettagli, i minimi particolari e dando vita ad una forma canzone che rimane in equilibrio levitando tra gli anfratti della coscienza, levitando fra mare e cielo con potenza dosata che non fa mai male, anzi il trucco è proprio usare la propria forza sapendo di averla.

Vengono da Modena, iniziano quasi per gioco dando forma e concretezza ad un progetto di respiro internazionale che avrà come punto di svolta un album The distance between, preceduto da Kaos India ep e consolidato ora con le 3 tracce che compongono Stay, tra post grunge e alternative rock d’oltremanica, un suono personale e curato, vissuto dichiaratamente e incanalato in fantasie senza tempo.

Monolith – EvenMore (Autoproduzione)

Disco granitico e melodico che si staglia  all’orizzonte come un cielo da imparare, attingendo con forza e capacità ad un substrato culturale musicale che si innesta prepotentemente tra overdrive e compressori che intersecano la barriera del suono e si lasciano andare a qualsivoglia nuvola di polvere che sta per arrivare.

Quello dei Monolith è un rock tutto d’un pezzo che si stringe e strizza l’occhio ai compiacimenti eterei senza fronzoli del post grunge fine ’90 per raccogliere eredità del dopo e traendo beneficio da una formula che viene rivista e confezionata per l’occasione scavando gli anfratti della coscienza e cercando dentro di noi il modo per sopravvivere al domani.

La band modenese vede alla voce e alla chitarra Andrea Marzoli, Massimiliano Codeluppi all’altra chitarra, Enrico Busi al basso e Riccardo Cocetti alla batteria, una formula classica per far esplodere il necessario, per arrivare diretti al punto senza mezze misure.

Ecco allora che le canzoni scivolano via, grazie ad un approccio immediato che non guasta, nove pezzi condensati, in un viaggio fatto di sensazioni partendo con Overload e abbracciando nel finale Orange Moon.

Un disco dal sapore leggermente retrò, che raccoglie i fausti di una grande giovinezza, la nostra, che al solo pensiero ci riporta la mente, ancora là, quando il necessario non era altro che una speranza per un futuro diverso.

Siren – The Row (Red Cat Records)

Rock band dal sapore ’90 che include una passione per il ritmo ad altre introspezioni sonore dove lasciarsi andare, inglobati dal suono di riferimento e portati a raggiungere il benessere attraverso sferzate di post grunge e incursioni dosate al punto da essere caratterizzanti in un  equilibrio esistenziale.

Questi sono i Siren, rock band di Pesaro, con il loro nuovo e primo album The Row capace di amalgamare melodia e buon gusto ad un alternative non spiccato, ma pronto a sfociare quando meno te lo aspetti.

Il tutto si evince ascoltando la commistione con strumenti inusuali per il genere come violini e violoncelli, trombe e fisarmoniche a creare e a sancire dico io, un’unione emblematica che vede l’inusuale appunto con il voler creare qualcosa che va ben oltre il già sentito, spiccando per coraggio e originalità.

Un disco che parla dei paradossi della vita a cui ognuno può dare la propria interpretazione e dove ognuno di noi è la chiave, a sua volta, per comprendere il mistero, incasellarlo e rigettarlo al suolo con nuovi significati tra ombre oscure e spirito di rassegnazione.

Un disco ben composto che si avvale, per la registrazione, dello studio Waves di Paolo Rossi a Pesaro, un album intenso e ricco di suggestioni, capace di raccontarsi e vivere.

I giardini di Chernobyl – Cella Zero (Zeta Factory)

Un pugno lacerante allo stomaco, li avevamo conosciuti qualche mese fa con il singolo Un infinito inverno, ma qui parliamo della completezza che incarna rumore, un misto di rabbia e abbandono, sudore e coscienziosa reminiscenza verso il passato, quel grunge abbandonato negli anni ’90 che si intreccia in modo maniacalmente perfetto con il nu metal del post 2000 fino a coprire territori di sospensione sonora che incalzano e relegano il tutto in modo da far scoppiare solo ciò che è veramente importante.

Un cantato in italiano condensato  che convince, ha il sapore della pioggia d’autunno, un misto tra il ricoprire spazi infiniti e la certezza sicura di arrivare diritti ad un bersaglio, alla sostanza del rock che è fatto si di rumore duro e puro, ma anche di emozioni.

Si perché i nostri sanno anche emozionare, sanno colpire basso quando meno te lo aspetti e soprattutto lo sanno fare bene, immaginifica meraviglia che si scopre traccia dopo traccia, canzone dopo canzone partendo da Noir e finendo con Iago in un vortice che è sodalizio tra passato e futuro, tracciando una nuova strada.

Se parliamo di  influenze italiane ci sono i primi Afterhours, ci sono i Verdena più introspettivi e anche gli Orrori, quelli del teatro, si, infatti il disco è stato prodotto anche dal Ragno, quello del teatro appunto, quello che con dimestichezza da veterano passa da One Dimensional Man a Non voglio che Clara, suoni così totalmente diversi che si fanno stimoli essenziali di vita.

Costrutti e geometrie schematiche che colpiscono al cuore.

Questi sono i Giardini di Chernobyl e di certo non potete perderveli.

Country Corpses – Protozoan in love (Gufo Records/Scatti vorticosi Records)

Evoluzione del post grunge quasi fosse un’incarnazione sonora di quel rock d’oltreoceano che negli anni ’90 aveva cambiato le regole del gioco in fatto di musica, snocciolando idee per futuri radiosi e preparando la strada ad un’apertura sonora come mai prima.

I Country Corpses nascono a La Spezia nel 2008 e colgono tutta l’eredità delle band di due dacadi fa per concentrarle in un disco che se fosse uscito nel ’93 sarebbe stato di certo un successo a livello internazionale.

Nascono per scherzo questi ragazzi, nascono facendo garage punk e trovano poi una propria evoluzione sonora nella continua ricerca atta a condensare e a divincolarsi a generi prestabiliti per fare dell’originalità un proprio marchio di fabbrica.

Ammaliati dalla bellezza in divenire di band come Dinosaur Jr., Melvins e Mudhoney i nostri si concedono ad ampi sprazzi di improvvisazione sonora dove la voce di Daniele Sanguinetti si amalgama in modo esemplare e sicuro, acceso quanto basta per emozionare e intrappolando l’hardcore in mille sfumature diverse.

Ecco allora che i battenti si aprono con Healthcare finendo con Worthless in un tunnel sperimentale e contagioso, diretto come un pugno allo stomaco e compresso fino ad entrarti nella mente.

Album pieno quindi e scintillante che si può scaricare gratuitamente sulla pagina bandcamp del gruppo e scusate se è poco.