Intercity – Amur. (Orso Polare Dischi)

Amur è un disco che tutti vorrebbero fare, è un disco sul pensiero di ognuno di Noi, quell’abbraccio su cui si può contare, girando il mondo, vedendo cose, costruendo insieme.

Gli Intercity fanno ancora centro con questo nuovo album e dopo i cambi di formazione, acquisendo una maturità stilistica davvero invidiabile, che folgorante come un fuoco vivo d’inverno, ci trasporta verso terre lontane; il tema portante l’amore, quell’amore a cui non possiamo rinunciare, quell’amore che converge al centro di ogni cosa e non lascia scampo, il fiato al cielo e gli occhi al mare.

Dall’Himalaya all’infinità, dall’Australia mi penserai, fino agli Urali mi troverai canta Fabio in cerca di una forma di riscatto, in cerca di occasioni perse, ma mai abbandonate: un substrato di coscienze sottili, uno strato di ghiaccio polare che ci fa capire Come siamo lontani anche se vicini, a volte silenziosi, a volte premurosi, luoghi dove Qui convive il silenzio e non si parla più e ancora l’esigenza di incontrarsi in Teatro sociale, i ricordi dispersi lungo strade senza uscita di Indiani Apache e poi le atmosfere di Kyoto e gli addii di Kill Bill per chiudere il cerchio, un percorso senza fine che riparte con Le avanguardie: Da qui io partirò.

Malinconia di fondo che abbraccia Amor Fou e Baustelle, immaginarsi una terra desolata di frontiera dove un bambino corre con il suo aquilone in cerca di una meta senza trovarla, è un disco prettamente indie rock con venature pop, dodici pezzi che fanno il giro attorno al globo, innescano vortici letterari e di citazionismo e si concentrano su di un tema apparentemente banale, ma in questo caso affrontato con forte capacità visionaria e coscienza, il descrivere attraverso immagini istantanee una poetica di vita vissuta dove i ricordi e i momenti reali sono ancora vivi; immaginarsi il nuovo che avanza osservando le città in rovina.

Si chiude il cerchio, il sipario cala sulla scena e ancora quella nostalgia ci assale per un disco che sa di perfezione da qui all’infinità.

Shapeless Void – Oberheim (Autoproduzione)

Copertina che sembra uscita direttamente da un artwork di Stanley Donwood, disegnatore e scrittore che ricordiamo per la collaborazione con Yorke dei Radiohead, nella creazione delle opere d’arte a cui siamo abituati, packaging essenziale, ma elegante, tonalità fortemente cupe segno dei tempi, carta riciclata e leggermente ruvida che ti fa percepire il passaggio tra passato e presente e un nome, Oberheim, che fa presagire qualcosa di incontrollabile e privo di certezze.

Il disco però, all’ascolto, crea un diverso effetto, ci muoviamo in spazi meno angusti, che si concentrano sull’impatto sonoro, tra chitarre pesanti e distorte che accompagnano un cantato velato di malinconia e sottoposto al continuo incedere di ritornelli ammiccanti che si concedono e lasciano presagire una strada aperta per il futuro.

Stiamo parlando dei Shapless Void, band nuova nuova, formata ad inizi 2014, dedita da subito alla creazione di canzoni inedite, nell’ottica di un’autoproduzione consapevole e ragionata e dando alla luce a un piccolo disco di quattro pezzi, tutta sostanza e caratterizzato da piccoli rimpianti per l’alternative degli anni ’90 spruzzato qua e la da un garage rock che strizza l’occhio a White Stripes  del primo periodo.

Incisivi in primo luogo, i nostri bresciani si lasciano trasportare tra le profondità dei mari con A drop in the ocean, per passare alla concretezza di Stuck in the Queue e al basso dominante di Assassin, finendo con il cantato in primo piano di Reckless.

Un buon esordio capace di intrappolare in una fotografia formato polaroid il nostro tempo, senza forzamenti e senza chiedersi troppo, con la mente legata al presente e i sogni protesi al futuro.

MIWOOK – IN SANA MENTE (DgRecords)

Elettronica a creare atmosfere post grunge che colpiscono grazie all’efficacia di cori in dissoluzione che rapiscono, trasportano e conquistano, relegando il tutto, inglobandolo in un incedere sonoro dalla forte personalità.

Rabbia gridata e voluta tra sintetizzatori che inebriano parti scandite da una batteria carica di sincope e precisa nell’abbattere il muro del suono, a ricreare geometrie di esistenze perdute, buttate al suolo e volutamente atte al pensiero supremo, al pensiero che indica la via prima di tutto e sopra ogni cosa.

Vengono da Brescia, questo è il loro primo Ep e i Miwook, nonostante la giovane età, hanno una forte dose di coraggio nell’assemblare e nel dare nuova forma al rock defunto, grazie a quattro pezzi, i centrali strumentali, capaci di infondere energia e nuova linfa vitale nel raccontarsi.

Disco carico di adrenalina, capace di conquistare al primo ascolto, che non lascia giudizi a metà, ma che promuove a pieni voti questa band che suona da internazionale, pur vivendo in casa nostra, una band da valorizzare e da accudire come fosse fiore in via di estinzione.

Il vuoto elettrico – Virale (Banksville Records/DGRecords)

Trattenete il fiato, non respirate, fate finta che qualcosa sia rimasto di Voi laggiù nel baratro tra il vuoto più totale, dove l’assenza di punti fermi e singolari ci porta in un abisso di disperazione, grida e schiaffi da una realtà che fa male, ingloba e sputa ogni nostra colpa, ogni nostro errore fino a condensarci in goccia di niente.

Il vuoto elettrico crea sostanze multiformi di rock incrociato all’hardcore e allo stoner di quel rock borderline innestato ad una scena straripante di parole e significati che si incastonano miracolosamente nella mente di chi ascolta senza mai lasciarli andare via.

L’esempio si trova già in Il ruolo del perdono, quando la voce si staglia incontrollabile gridando Perché parlare equivale a non parlare.

In queste parole è rinchiusa tutta la poetica ermetica e fatta di ossimori che racconta il nostro Paese e ciò che ormai non c’è più della nostra Italia, sfiorando i Marlene di Catartica, Massimo Volume, ElettroFandango e Teatro degli Orrori su tutti.

La poesia gridata del Il Vuoto elettrico si concede, osa e non demorde: E’ solo quello che non vedi che ti fa paura? canta una voce lacerante in Le lacrime di Dio oppure ancora Sei sdraiato per terra, immobile, non riesci a muovere un muscolo e il letto è ad un passo da te in Asso di spade; sono solo piccoli esempi di un qualcosa di più ampio e generoso, di naturale bellezza e inevitabile  abbandono.

Un gruppo da tenere sott’occhio, perché in pochi come loro sanno ancora comunicare uno stato di disorientamento totale così accentuato e volutamente reale da dove partire per essere protagonisti della storia in cui viviamo, la nostra storia e non semplici burattini apatici disillusi.

NewDress – Legami di luce (Kandinsky Records )

Legàmi di luce cover artTrame elettroniche che si infittiscono fino a diventare un’unica cosa, un’unica sinfonia pronta a regalarti sempre il meglio per un inizio inaspettato.

I NewDress confezionano un album che è matrice fondamentale di elettronica legata in stato di grazia da una voce potente e comunicativa, chitarre che tessono tele su tele fino a coprire quei refrain che ammicano ad un sound extraitalico legato in primis a Editors di “In this light or in this evening” e ai Joy Divison.

Un disco costruito attorno ad atmosfere rarefatte, quasi cupo e oscuro dove vengono raccontati amori lontani, onirici, quasi inconsistenti dove ogni persona che ascolta può immedesimarsi nelle parole di Stefano Marzoli.

La batteria di Jordano Vianello si mescola perfettamente alle intromissioni puntuali di sintetizzatori e chitarre, quest’ultime suonate interamente da Andrea Mambretti.

Importante inoltre la presenza di Lele Battista ai sintetizzatori, al rodhes e ai cori mentre in “Bisogna passare il tempo” il sax di Andy ex “BlueVertigo” si staglia su tappeti elettronici di pregevole fattura.

Pezzi come al “Tatto nel buio”o il singolo “Dissolve” sono vere e proprio perle da nascondere e ascoltare solo quando i nostri pensieri lo chiederanno.

I tre bresciani hanno raggiunto un notevole livello di maturazione e questo album è il risultato più splendente.

La luce che ora li avvolge potrà farlo in eterno? Certamente si finche qualcuno avrà gli occhi per sentirla.

 

 

 

4 Axid Butchers – Villa Gasuli (Audioglobe)

Indefinibili, a tratti eterei a tratti fondamentalmente punk.

Questi sono i 4 Axid Butchers, intro prolungate e cambi di ritmo repentino toccando Clash, Ramones e Police incoronati da batteria e basso che fanno il loro dovere, puntuali e precisi ricordando Editors e Interpol.

8 le tracce che compongono Villa Gasuli e altrettante sono le sperimentazioni che possiamo ascoltare in questo album.

Si passa dal punk rock alla new wave, dal reggae al pop raffinato.

Punto fondamentale del loro lavoro sono le voci: tutti i componenti cantano, intrecciando le loro doti canore in cori e stacchi temporali molto gradevoli e originali dimostrando capacità compositive e leggendo nella loro musica passaggi brillanti e lucenti.

Il loro mondo è un insieme di suoni coinvolgenti e chiari, netti, ma allo stesso tempo pronti a lasciarsi andare a ricercatezze indie.

Praticamente quasi sconosciuti in Italia, ma italiani di Brescia, hanno suonato più di 300 volte in giro per il mondo e sono stati i primi in Italia a fare un tour completo in Sud Africa.

Le canzoni sono un misto di acido e organico, potente e discostante, frutto di un lavoro e di una ricerca portata avanti fino ad oggi, al terzo album.

Si parte con Gasuli e i passaggi si fanno subsonichiani, ma l’organetto è una grande trovata quasi miracolosa che in un attimo ci porta alle atmosfere più dense di phatos e reggaeggianti di A globetrottersong fino alle chiare intenzioni di Let it burn che precede di due la bellissima e dialetteggiante El zogadur.

Forse questo è un disco per emigranti musicali, una scelta, una presa di posizione l’ essere stranieri anche nella musica che sicuramente paga; dimostrando qualità e ingegno invidiabili da qualsiasi band d’oltreoceano.