Penelope sulla luna – Superhumans (I Dischi del minollo)

Questa recensione arriva minollodopo 6 mesi dall’uscita di “Superhumans”, ma di certo non può non stupire l’ascolto di questi 8 brani che sono la prosecuzione di un percorso iniziato dai Penelope sulla luna ancora 7 anni fa; toccando picchi di cieli stellati e andirivieni cosmici che non possono lasciare indifferente chi li ascolta anche solo per la prima volta.

Il terzo album in studio dopo il fortunato “Enjoy the little things” possiede intrinseca la colonna sonora del quotidiano condita in salsa post rock da uno strumentale distorto: colonna portante di un film dalle ambiziose aspirazioni.

I 5 emozionano e lo sanno fare egregiamente, perché nella loro musica nulla è affidato al caso e ogni nota è associata ad un ritorno progressivo alle origini di Mars Volta, Mogwai e Don Caballero che penetrando in profondità regalano fiori recisi di uno splendore unico da riporre su di un tavolo per la propria amata.

Pezzi adrenalici come “Superhuman” ricordano il Corgan di Machina che intrattiene ad un party i QOTSA, i passaggi poi tra le varie canzoni sono colpi al cuore dove la tastiera fraseggia in intro eleganti come in “Feathers cry in pillow wars”.

“Rainbow club” con melodie chitarristiche ascendenti sembra essere la canzone più solare del disco mentre “Vendetta” è sussurro gridato e quasi incomprensibile ai più che si dilata fino a scoppiare come mine in defrag.

“Goblin” conta i passi che la portano a “That’s not how the story endes” per un finale delicato che non vuole essere condotto/ricondotto al capolinea.

Bella prova davvero, un concentrato di melodia rumorosa da veri intenditori che affiancando un suono a tratti meditativo ricostruisce con minuziosa precisione i secondi che ci separano dall’esistere.

The Hollyhocks – Pop culture (TDMC Records)

Cover accattivante e simbolica che lascia dietro di sé tutti gli anni 80 ripresi però con puntiglioso savoir faire e mistica energia dai 4 torinesi “The Hollyhocks”.

Conosciuti in rete, dal 20pop-culture-the-hollyhocks09 fanno della rielaborazione new wave la loro nuova strada e il loro punto di svolta.

Una commistione di romanticismo decadente abbracciato da chitarre pazze e velocissime coronate da spunti vivi e roboanti, non catalogabili per genere e fascia d’utenza.

Tutta la musica è uguale e nessuna musica è uguale potrei dire, si perché la giovane band etichettata dai più come seguace troppo diretta di un filone ormai scomparso, a mio avviso proprio in questa prova affila gli artigli per arrivare alla meta.

Canzoni accattivanti dai ritornelli orecchiabili, parti di sintetizzatori molto calibrate e sinceramente un mood che suona superiore alla media di gran parte dei gruppi di genere.

C’è del nostalgico nella voce di Mattia Pafundi, quell’insostenibile voglia di creare nell’incompleta assurdità della vita.

Una capacità degna di nota è la spensieratezza e l’istintività di tutti e 9 i brani che in meno di mezz’ora fanno battere il ritmo e perdere la testa.

Già il singolo “Drowning Boulevard”  ne è l’esempio fino alla bellissima “Ocean” che chiude un degno esordio.

Non è da tutti comporre musica e ancora più difficile è far ballare, rimanendo indipendenti, con la propria musica, questo però è il caso dei torinesi “The Hollyhocks” che miscelano un suono esplosivo con la leggerezza della giovinezza.

Io non sono Bogte – La discografia è morta e io non vedevo l’ora (LabelPot records)

Daniele Coluzzi assieme a Carlotta Benedetti, Federico Petitto, Dario Masani forma la band romana dei “Io non sono Bogte”.

Si fanno conoscere al pubblico nell’autunno 2011 con il singolo“La musica italiana e altre stragi”, uscito in contemporanea con il libro “Rock in Progress – Promuovere, distribuire, far conoscere la vostra musica” scritto da Daniele, nonché piccolo e prezioso vademecum per band emergenti.

Una prima particolarità di questo inno alla decadenza della musica in Italia si scopre dal formato: una chiave usb a forma di cassetta, un ritorno alle origini con lo sguardo al futuro, un invito quasi a comprare l’album a prescindere dal contenuto.

La musica dei “Io non sono Bogte” è abbastanza uniforme per genere al filone di cantautori cosiddetti degli anni zero “Vasco Brondi, Colapesce, Di Martino ecc…” anche se qui la dialettica si fa vivace e più visionaria.

La band riesce a cogliere le sfumature di una catastrofe con parole semplici, ma sapientemente utilizzate, cori perfetti e segni di cinismo esistenziale che legano ricordi al futuro incerto, lontano, senza vie di fuga.

Sembra di ascoltare un frullato punk rock di sogni adolescenziali post fine mondo.

“Io non sono Bogte” intro tagliente per gli addetti del settore.

Scambio di prosa elettrica in “La musica italiana e altre stragi” cantando “Lavoro precario portami via…”.

“Il mercato delle ostie” pezzo con cavalcate alla CSI e pause di frammenti interiori.

“Papillon” la canzone più incisiva del disco, ci si chiede: che cosa potevo fare ancora di più di quello che ho fatto?

“Cinque e mezzo” apre il disco verso un’altra via, più introspettiva e malinconica.

Simbolo di questa malinconia la si trova in “La cosa più importante è che tu stia male” e in “Margaret nella testa”.

Canzone legata invece al filo del ricordo indelebile è “Ti ho confessato tutto il mio amore” che lascia posto alla sperimentale “Sette anni di prudenza”.

L’album chiude la sua circolarità con “L’aridità sentimentale e altre cose che ti appartengono”.

Annientamento, illusione, malinconia, senso di fallimento e risalita: perchè non sempre è facile racchiudere in mezzora un concetto che può sembrare ormai sfruttato e abusato.

“Io non sono Bogte” invece dalle ceneri dello zero regalano emozioni a lunga conservazione per rinascere, ancora una volta.

Maria Devigili – Motori e Introspezioni (Autoproduzione)

Nell’idea risiede il seme che si farà grande germoglio nutrito dal tempo: e qui ci sono moltissime buone idee.
Maria Devigili regala un album confezionato a puntino, in tutti i sensi, dove i suoni sono curati e legati assieme dal filo della passione per la musica e allo stesso tempo per gli strumenti.
La cantautrice infatti oltre a suonare la chitarra si immedesima molto bene anche con il glockenspiel, mentre le parti affidate all’elettronica sono di Andrea Sologni e alle percussioni e alla batteria, oltre che a curare la copertina e l’artwork troviamo Stefano Orzes.
“Motori e Introspezioni”è un disco al primo ascolto che ti riporta alla Donà nazionale, per intenderci quella del primo periodo molto più ricercata che melodica.
La voce è incisiva e direi comunicativa, come i testi del resto ben legati tra loro dal filo del viaggio dentro se stessi.
Musicalmente ci sono echi della miglior musica leggera degli anni ’60 e ’70 assemblata da Carnival of Fools e dal Grunge sporco e immediato della scena di Seattle.
Le melodie sono ricercate considerando che la stessa cantautrice deve usare lo strumento della voce e quindi pochi accordi, anche con l’acustica in “L’istante”, e molti riff.
Il viaggio ha inizio con “DNA” il nostro essere da dove tutto parte passando per la bellissima e quasi utopica “Iperuranio”, “Il Paese” è un blues maledetto che più in là trova un omaggio a Battiato con “Aria di Rivoluzione” e “L’albatros” ricordando i versi del “maledetto” Baudelaire.
“Sulla via” è una ballata molto efficace: chitarra e batteria con leggera elettronica di sottofondo a …”rincorrere il riso che fugge dagli occhi”.
“Kadhy blues” ricorda De Andrè sia per temi trattati sia per quel cantautorato un po’ in levare un po’  allevato sulle sponde del Missisipi.
Mentre la scanzonata “Etre Vivant” chiude il disco con un sorriso di speranza.
Maria riesce a racchiudere e a far fuoriuscire tanti suoi sentimenti non comunicati, con questo album, regalando a chi ascolta qualcosa di non immediato, ma sicuramente incisivo dopo ulteriori ascolti.
Un lembo di terra baciato dal sole in una mattina di rosso Novembre.

Non violentate Jennifer – Non violentate Jennifer (Autoproduzione)

Non violentate Jennifer è il titolo della vivace autoproduzione dell’omonimo gruppo .

4 sono le canzoni, tratteggiate da un rock alternativo molto curato e ben cantato, mai banale.

I testi parlano di una civiltà decadente dove mancano istituzioni a garantire dignità in un paese diviso.

“Terza persona” ha l’onore di aprire le pagine di questa musica, anticipando la suadente “Nel paese degli umani” dove le campane suonano sempre un po’ per tutti. Il pianoforte un po’ clavicembalo fa la sua immensa figura con un basso gradevolmente tosto e calibrato.

“Tutto finisce all’alba” ha cadenze new-wave e come in quasi tutto il disco esiste l’esigenza di fare qualcosa di nuovo utilizzando la voce cavernosa e cantautorale. (Offlaga, Massimo Volume)

“Naufragheremo” chiude l’ep in maniera elegante: è come sentire “Il teatro degli orrori” al rallentatore.

Bella prova questa, che certamente attende aperture a un album completo, nell’attesa che queste idee mature confluiscano in un soddisfacente appagamento.

Preti Pedofili – Faust (Autoproduzione)

Segui il detto antico di mio zio serpente; verrà certo un giorno in cui la tua somiglianza con Dio ti farà paura.

Questo è un disco oscuro.

Si entra in un mondo di certo non semplice. I preti pedofili, azzardando già nel nome, nel loro secondo EP Faust si rifanno liberamente al romanzo di Goethe.

Qui però c’è qualcosa in più, i tre foggiani si dedicano a denunciare una realtà molto ostile e spesso mascherata dalle finte preghiere.

Caronte traghetta anime in un universo cupo, suoni lisergici, claustrofobici, granitici, muri di chitarre pronte a distruggere l’apatia.

Morc e Manson che dialogano in queste quattro canzoni senza dimenticare le due strumentali di testa e di coda.

Un tunnel che parte dall’ “Impero” della forza dell’essere onnipotente fino al cambiamento in “La sera del 15 ottobre” passando per essere “Feccia” e accorgendosi di avere un corpo dilaniato dal tempo in “Streben” .

Spegniamo lo stereo e la voglia di reagire a tanta indifferenza persuade l’ascoltatore, che tornato da un mondo lontano riceve speranza per un diverso futuro; quasi un disco di denuncia, di protesta sessanttottina proiettata nel 2012.

Mariposa – Semmai Semiplaya (Trovarobato, Aprile 2012)

 

I Mariposa ritornano. Ritornano con un album esclusivamente in vinile.

Non c’è da stupirsi, una scelta incisiva, contro il mercato, per una band così in controtendenza con qualsivoglia regola imposta, ma che continua a incuriosire gli estimatori del genere.

Un gruppo certamente che non ha bisogno di molte presentazioni: sono un settetto “multietnico”, con elementi provenienti dal Veneto, dall’Emilia, dalla Toscana e dalla Sicilia.

Musicisti professionisti che provengono da diverse formazioni come Afterhours, Zzolchestra e Hobocombo.

Ritornano con suoni più seventy e con una nuova voce: Serena Alessandra Altavilla dei Baby blue.

Dal 2011 la voce storica, Alessandro Fiori, decide di intraprendere una carriera solista (Attento a me stesso) e la band inizia a collaborare con la voce di Alessandra; voce molto particolare e vellutata certamente un cambio drastico, ma non per questo da svalorizzare, anzi questo “bel canto” permette di dare un senso a passaggi più melodiosi e di sicuro impatto.

L’album parte con la rivisitazione in inglese “Pterodactyls” della loro canzone “Pterodattili” presente in coda al disco, un pezzo veramente d’atmosfera: cembalo vibrante, chitarra acustica a 12 corde e batteria in lontananza con una voce quasi arrabbiata che si mescola nel finale all’harmonica indiavolata.

Con “Tre mosse” sembra di stare in un videogioco anni 80 creato da Ian Anderson e da Il genio: fiati di Enrico Gabrielli in primo piano, assieme alle tastierine “Casio” per bambini e batteria elettronica; “ma perchè canto se non ho un cazzo di voglia di cantare?”.

Avete presente Julie Cruise in Twin Peaks che canta Nightingaile?Ecco a voi la rivisitazione più dilatata nel tempo.Con “Pompelmo rosa” sembra di essere seduti ai tavoli di quell’oscuro locale: da brividi.

Frustalo” è una canzone contro la società moderna, “se le cose vanno bene: frustalo!”; ritmi e musiche più vicine alle sonorità di un tempo.

Chambre” canzone in francese che precede “Specchio”: qui sembra di ascoltare i migliori Crosby stills nash & young.

Il disco termina con la poesia musicale di “Pterodattili” qui riarrangiata e cantata in italiano.

Quasi una ninna nanna all’inizio, che prende vita, dopo pochi secondi, nel vortice di colori che i Mariposa sanno creare in ogni secondo del disco.

Il gruppo sa dare lezione di stile, anche con questo album che sembrerebbe suonato con strumentazioni molto lo-fi, in verità racchiudendo melodie ricercate; valorizzate dai singoli componenti.

L’unico neo, aggiungo forse per i molti, il supporto in vinile, ma poi mi fermo e mi chiedo: i molti possono ascoltare e comprendere l’importanza di tutto questo?