Lush Rimbaud è il suono della poesia elettronica, quel salire sul palco e immaginarlo ricoperto di luci crepuscolari che ci sommergono e ci indicano la via da seguire, un paesaggio buio e qualche fascio perpendicolare alla nostra testa che ci porta verso il cielo, verso l’ignoto; evocazione sonora di un tempo criptico e introspettivo, dal sapore martellante della new wave e dalla sincope continua che caratterizza produzioni più moderne.
I marchigiani si rinnovano e si concentrano sulla formula less is more, partendo dalle cose semplici, quasi togliendo l’inutile e dilatando i tempi verso concetti che si fanno via via sempre più ampi e divulgativi: Massive Attack che incontrano i Portishead lanciando sguardi glaciali verso la poesia islandese anche se a fare da tema portante del tutto è l’oscurità con i propri sogni e i propri incubi.
Incubazione quindi perfetta, gestazione e cambio in divenire di stile e sostanza che parte con Marmite per raggiungere alte vette sonore con il finale Dark Side Call in un perpetuo atollo solitario che si domanda e racconta nei testi ciò che si vede nell’aldilà, dopo la fase rem, un dipinto di De Chirico che si muove tra chiaro scuri esistenziali e concentrici.
Ecco allora che il vuoto viene riempito dalla spazio circostante e l’atterraggio versò ciò che non conosciamo sta per avvenire, le mutazioni sono dietro l’angolo e ciò che ci aspetta oltre il sonno si racconta e si fa raccontare quasi rendendoci partecipi di questa meraviglia a occhi aperti.