Lamansarda – Foreign Bodies (IMakeRecords)

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Atmosfere cantautorali in bilico e composte per l’occasione in un folk di matrice americana impreziosito da inserti sonori in divenire, cesellati a dovere e pieni di rimandi ad una scena di qualche decennio fa legata indissolubilmente alla modernità di questi ultimi tempi. Il disco dei napoletani Lamansarda è un tessuto sonoro davvero importante che mescola al proprio interno strutture che ricordano Iron & Wine, Fleet Foxes, The Barr Brothers e qualcosa di Nick Drake e Jeff Buckley, un album intenso e convincente che si esprime al meglio nei legami che intercorrono in un’aperta territorialità che fa del confine qualcosa da abbattere, qualcosa da cambiare oltre le nostre aspettative di corpi estranei sempre pronti a ricucire il nostro di dentro partendo dai legami, partendo dal cuore. L’album dei nostri scava nel profondo già dalla traccia d’apertura Cuckoo fino al gran finale penetrante lasciato a Drunk Meridian, un album davvero maturo e a tratti inquieto, merito di un’orchestrazione che nella sua essenzialità trova un punto di sfogo, un punto di contatto con le cose più belle che portiamo dentro di noi. 


Universal Sex Arena – Abdita (La Tempesta International/Kowloon)

album Abdita - Universal Sex Arena

Viaggio psichedelico sonoro in grado di attraversare pianeti e universi lontani grazie a spazi lisergici aperti che nella dimensione onirica e sognante trovano un punto di sfogo, una valvola necessaria per capire tendenze e comprendere questioni criptiche, sovrapposte riuscendo, attraverso le architetture di questa super band, ad immagazzinare il vuoto e a risputarlo al suolo con energia da primi della classe. Il terzo disco degli Universal Sex Arena conturba e destabilizza quanto basta, è acido abbastanza per farci trasportare da un capo all’altro del mondo, così lontani da non volere tornare più o perlomeno così lontani da poter comprendere a fondo culture studiate svogliatamente solo nei libri di storia. Ci sono elementi latineggianti in Abdita per arrivare fino a movenze dichiaratamente medio orientali, un micromondo di dodici tracce che rende la proposta eterogenea e che assapora collaborazioni di livello come quelle con Luca Ferrari dei Verdena o con Elli de Mon a dare valore aggiunto a costruzioni viscerali di mondi lontanissimi. Abdita è un disco pieno di mistero celato, da scoprire ascolto dopo ascolto, un magazzino di ricordi pronti a viaggiare oltre la linea del nostro tempo. 


Alcesti – Monumenti (Dischi Soviet Studio/SISMA MVMT)

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Torna la band veneta con un EP affilato quanto basta per discernere composizioni di strumentazioni maniacali attanagliate da costrutti emozionali che sposano alla perfezione le regole improvvise del post rock, della ricerca inusuale della parola suono e nel contempo di un indie sostanziale in quattro pezzi che compongono Monumenti, il loro primo ufficiale EP. Gli Alcesti mettono su musica la parola poesia, un ampio spazio dilatato pronto a fornire di contrapposizioni e ossimori un cantato che convince integrando elementi onirici con pugni allo stomaco alla realtà il tutto condito con fare sapiente dalla produzione di Martino Cuman dei Non voglio che Clara a segnare la direzione di una band già di per sé matura. I pezzi di Monumenti sono omogenei e convincono l’ascoltatore seguendo un percorso mai banalizzato, da Placenta si parte, il luogo delle origini, della nostra vita, passando per la title track fino a scorgere gli ultimi bagliori di sole in pezzi come Talamo e Nostri Mostri a dare prosecuzione ad un cammino interiore che sedimenta e costruisce, consuma e acceca. 


LtG – LeadtoGold – I (Weapons of love Records)

I è un disco complesso e stratificato, un album che crea dei parallelismi necessari e indubitabili con la società in cui viviamo attraversando sensazioni disturbanti e provocanti in grado di interagire con il nostro essere più profondo con il nostro vivere all’interno di situazioni molteplici e perverse, noi gettati al suolo e trasformati, cambiati e nel contempo rigenerati in costrutti necessari che fanno di un’elettronica minimal e di suoni sempre in completa trasformazione un punto di contatto con le atmosfere create, con l’ambizione precisa di stupire attraverso sonorità oscure, cupe, interessanti. La voce di Giulia si alterna a quella di Sebastiano e la comunione d’intenti rende la proposta folgorante. Tra pezzi strumentali e visioni pop notturne di abbandoni e riprese, di aperture e introspezioni che non lasciano scampo, i nostri siciliani dipingono l’abito di un colore cangiante, pronto a stupire e ad emozionare, un abito che spogliato di tutti gli orpelli circonda la nostra visuale di ampi spaccati alterni, spaccati di amore e morte, di felicità cercata e di previsioni concentriche di vita amara da osservare attraverso diverse angolature. 


Erio – Inesse (Kowloon Records)

Erio stratifica l’elettronica pur mantenendo un’introspezione di fondo davvero esemplare che si inerpica su territori minimali sfumando in misura importante le condizioni vitali che fanno di questo disco un punto di luce discostante nel panorama della musica italiana. Inesse è la descrizione di un hip hop mescolato all’ R’n’B che trova matrice essenziale in pezzi capaci di creare una struttura portante associando facilmente interpretazioni dell’ultimo Bon Iver o di James Blake per parallelismi azzardati, ma calamitati verso forme desuete e cariche di atmosfera, verso forme che incanalano il buio dentro di noi estraendo opportunità sempre nuove ad ogni ascolto previsto. C’è della sofferenza nelle canzoni proposte, c’è il reale bisogno di contribuire a creare qualcosa di importante e in un certo qual modo il nostro riesce nell’impresa di incamerare la bellezza di pezzi come The biggest of hearts, Limerence, Kill it!Kill it!, Attic in sodalizi esemplari con una canzone moderna, con una via contemporanea all’ascolto capace, seppur nella quiete di fondo, di schiodarti dalla sedia per farti vivere di nuovo. 


Winter dies in June – Penelope, Sebastian (Autoproduzione)

Diario aperto agli sfoghi dell’amore narrante storie di vita e di cuori infranti con una certa capacità intrinseca di colpire il bersaglio, di colpire il nocciolo della questione in sodalizi cosmici con una musica indie pop che strizza l’occhio e fa da ponte inusuale dall’oltreoceano all’oltremanica in condizioni esemplari che permettono di incanalare un’energia impreziosita da perle mutevoli, cristalli multisfaccettati e ambiziosi. I Winter dies in June sono una super band costruita per emozionare e grazie a questo disco riescono ad intrappolare gli umori di una generazione appesa al filo dei legami facilmente scivolosi e qui rimarcati con una certa aurea di leggerezza impreziosita da un’importante elettronica che non si fa preponderante, ma è aiuto intrinseco per un risultato che dire eccellente è dire poco. Penelope, Sebastian è un disco complesso, ma che nel contempo si fa ascoltare più e più volte, un album che raccoglie bellezza ad ogni secondo trascorso e che diventa necessario ogni qualvolta si voglia percepire il soffio del vento che precede l’estate. 


Sloan – 12 (YepRocRecords)

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Disco bomba che corre alla velocità del suono intrappolando gli anni ’90 in un cubetto di ghiaccio e facendolo sciogliere pian piano in una costante ricerca-suono che diventa immediata, rappresentando, al dodicesimo album della band, una certezza per i patiti di genere. Gli Sloan sono un super gruppo canadese che oramai, da più di vent’anni, contamina la scena con un rock indipendente spruzzato di rimandi al passato. Nella loro musica si possono sentire echi dei Beatles fino ad arrivare a suoni compressi e miranti al grunge di Seattle, suoni in evoluzione che danno eterogeneità ad un album orecchiabile conquistando al primo ascolto. Un disco questo che non si chiede troppo, ma che nel contempo permette incursioni davvero importanti e intriganti e dove un puzzle rarefatto e mai ostinato si compone di elementi come l’apertura Spin our Wheels, Gone for good, Year Zero, Have Faith e la finale 44 Teenagers per un rock spruzzato punk davvero convincente e sostanzioso, ricercato, costruito e che continua a dare certezze nonostante il lungo cammino intrapreso. 


Joe Lovano & Dave Douglas Sound Prints – Scandal (Greenleaf Music)

Joe Lovano, Dave Douglas: Scandal

Successioni sonore implicite che non armonizzano le convinzioni, ma piuttosto si fanno trascinare in situazioni jazzistiche che ammirano tramonti incostanti pronti a stupire e ad ammaliare come le note di questo Scandal che vede per protagonista la forza interiore di gente del calibro di Joe Levano e Dave Douglas con il quintetto Sound Prints per un suono d’eccezione disturbante a tratti, nel senso positivo del termine e pieno di rimandi ad una tradizione che sembra trovare nella parola libertà un gesto importante capace di coronare e valutare situazioni ammirevoli e divincolate da ciò che ogni giorno tentiamo di ascoltare. Ammirare Scandal è aguzzare l’udito, è un disco che non lascia scampo e trova nelle architetture tutt’altro che geometriche il proprio punto di forza in sodalizi centrati tra Monk e Coltrane per contrappunti davvero eccitanti in una rielaborazione che prima di tutto è culturale con prospettive centrate a raccogliere qualcosa che parte direttamente dal nostro cuore. 


Josh Rouse – Love in the modern age (YepRocRecords)

Josh Rouse: <i>Love In The Modern Age</i> Review

Josh Rouse ci fa compagnia da una botta di anni, direi decenni e il suo suono risulta sempre essere al passo con i tempi, influenzato, scaraventato al suolo e imbrigliato in un’elettronica che diventa evoluzione continua, si fa carne, la puoi toccare nel suo essere minimale e ci fa entrare in una costante emozionale davvero gradevole e quasi disincantata pur restando ancorata a soluzione dal forte appeal e dal forte fascino intrinseco. Love in modern age assume i costrutti riportati sopra e racconta del nostro venire al mondo e del nostro vegetare in questa era moderna, dello svuotamento continuo del nostro essere e di una ricerca maturata e da tenere soprattutto in considerazione per comprendere le esigenze di ciò che verrà, di ciò che deve ancora accadere. I sintetizzatori presenti diventano un modo nuovo per parlare di ciò che ci circonda e afferrano con rara capacità la sincronia dei nostri movimenti in canzoni capaci di creare un’omogeneità di fondo che ci permette di riascoltare il disco senza fatica e con quel desiderio in più di carpirne sfumature e nuovi significati interni. 


Laish – Time Elastic (Talitres)

Daniel Green è cresciuto e con questo rimembrare costante al folk introspettivo del passato è diventato una delle voci in narrazione più interessanti della scena internazionale. Laish con il suo Time Elastic si trasforma in creatura performante e altamente interessante che ammira con profondità commovente substrati culturali che si fanno impronta sempre viva, intensa, rassicurante anche quando si tratta di osare, anche quando spuntano le elettriche a dare tono su tono, forza su forza. Ecco allora che Time Elsatic diventa un disco autunnale, umorale, bellissimo nella sua interezza perché rapisce sin dal primo ascolto senza però tradire e deludere mai, senza dimenticare le proprie origini e quella forza interiore che permette la creazione di canzoni come Love is growing, Listening for god, la stessa title track, la finale The fox il tutto in un contorno che ha il profumo della natura e delle cose più genuine, più pure, senza abbandonare mai il sentiero quindi, ma aumentando il distacco, concependo sonorità in musica che vanno oltre il tempo appena passato.