Babbutzi Orkestar – Babbutzi Orkestar (Autoproduzione)

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Suoni contagiosi e irruenti capaci di far alzare i piedi per poter ballare fino a notte inoltrata, un connubio inesauribile di stile che direttamente dalla penisola balcanica prende la giusta linfa vitale per portare sulle nostre tavole piatti sonori di vivace allegria contagiosa mai banale, ma piuttosto ragionata e servita con classe da vendere. La Babbutzi Orkestar è tornata abbastanza carica direi, con un suono definito da loro stessi Crossover da osteria perché riesce in qualche mondo ad unire in un’unica commistione vivacità e folclore combattivo in un vortice dall’approccio punk inesauribile e preponderante. Importanti pezzi come ChikyChiky e Tony Makkeroni non passano di certo inosservati, anzi consegnano all’ascoltatore una prova densa e irriverente per cinque brani in totale che si lasciano trangugiare come otre di vino. Il risultato è un suono avvolgente che ambisce a diventare un punto fermo, ma nel contempo in evoluzione per la band milanese che sa di continuo reinventarsi affacciandosi sul mare delle produzioni odierne con giusta arguzia e con una formula sensibile, divertente e ampiamente collaudata. 


Bruno Belissimo – Ghetto Falsetto (La Tempesta/Stradischi)

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Musica da terrazze ricostituite e rinvigorite per l’occasione, approccio elegante, sofisticato, malizioso e mai banale per un concentrato di house sporcata dai beat elettronici in secondo piano che in questa nuova prova sedimentano chitarrine funk oserei dire geniali e capaci di spruzzare l’etere di risveglio post’ 70 in una bellissima e avvolgente lezione di stile che ricopre a dismisura i canali delle nostre convinzioni. Con Ghetto Falsetto Bruno Belissimo ritorna a far ballare a manetta. Dopo più di cento date in Italia e all’estero il nostro prosegue una propria ricerca stilistica che non ha eguali concedendosi sprazzi alternativi veicolati dal suono, dalle impressioni che sentono il desiderio di uscire, dall’intrinseca visione atmosferica di procedure analogiche in loop alquanto digitale e altamente contagioso. C’è un potente marchio di fabbrica in tutto questo, c’è la profonda convinzione di aver fatto qualcosa di veramente essenziale, di veramente unico e strabiliante, ma nel contempo c’è di fondo la semplicità di una persona che attraverso impulsi sonori riesce a smuovere qualcosa dal di dentro che non ha confini. Bravo davvero. 


Rappresaglia – Neurotik (Rocketman Records)

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Tornano i Rappresaglia, tornano con il loro chissenefrega impegnato, con le loro chitarre esplosive intrecciate a trame di vita che parlano di questo mondo in fase andante di decomposizione, musica che parla vicino all’ascoltatore e che nella sua velocità d’insieme risulta ancora attuale e sedimentata. Questo Neurotik è un viaggio al fulmicotone, una molotov inesplosa pronta ad accendersi quando inseriamo il disco nel lettore per suoni granitici e aperti che sanno costruire muri sonori fatti di rabbia, abbandono, vita da ricucire e da riprendere facendola nostra ancora una volta, per sempre. Il suono è coinvolgente e la punk band milanese lo sa alla perfezione in quanto l’omogeneità di fondo della proposta si sposa con i testi, si sposa con valori essenziali da perpetuare nel corso del tempo. Da Buried alive fino a Uncontrollable urge i nostri riempiono l’etere di significati e convinzioni e grazie a questa nuova prova si confermano pionieri di un genere che in Italia li vede protagonisti da oltre trent’anni.   


Tita – Andare oltre (Prismopaco Records)

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Il senso del viaggio e della lontananza da raggiungere, delle strade raccolte al filo rosso della memoria, al filo che ingloba e ci conduce verso un’altra realtà fatta di sogni, paure e speranze, fatta di substrati di ricordi e vita da vivere in tutta la sua importante ragione d’essere; momenti quindi inconfutabili, istantanee, raccolte, visioni. Il disco di Tita, all’anagrafe Cristina Malvestiti è un concentrato emozionale che intesse chitarre gitane in arpeggi preponderanti che fanno scattare scintille di intersezioni con un pop cantautorale raffinato e davvero mai urlato, ma piuttosto incamerato in un suono energico, ma nel contempo introspettivo, denso. Una musica piena che nella voce trova un’intimità avvolgente disintegrando al suolo qualsiasi forma di banalità per ritrovare un proprio stile in una manciata di brani, in un insieme concreto di avventure che sono vita e costruzione, ossatura stabile e fragilità in bilico. Pezzi come I nomi delle cose, Bambina, Sono nati fiori a volte, Io sono io fanno da collante fondamentale in questo viaggio nel contemporaneo, apprendendo al meglio la lezione del less is more e consegnando all’ascoltatore un gusto d’insieme che nella sua interezza raggiunge l’inaspettata eleganza. 


TrèHùs – When you’re anything but ok (Cabezon Records)

album When you're anything but OK - TrèHùs

C’è un cuore oscuro pulsante nella musica enigmatica e compatta dei TrèHùs, c’è una musica apribile allo scibile umano per combattere indifferenza e convogliare energie in substrati cosmici, elettronici, dove il benessere passa per l’elettricità di un pop alternativo che si fa apprezzare per incursioni in territori da esplorare, in dinamiche che diventano isole e affrontano la realtà circostante in simbiosi con il proprio essere, con il proprio gestire la vita moderna, da Bon Iver a James Blake passando per qualcosa di più movimentato che incastra le atmosfere degli ultimi Arcade Fire concedendo egregiamente la possibilità di tentare di comprendere a fondo la bellezza di questa musica. E proprio nella formula dell’ossimoro, della contrapposizione i nostri ne escono vincitori, segnando un confine che non è mai netto, ma piuttosto interagendo su più piani grazie ad una musica d’insieme che non si accontenta di chiedere, ma piuttosto regala, dona, convince, dalla splendida apertura Ocean fino a Black Tide, passando per le essenziali Orfeo e Captivity. I TrèHùs tirano fuori dal cilindro un disco magnetico e a tratti inquietante dove l’internazionalità di fondo esplode in una purezza che non attende, ma colpisce a fondo, nell’immediato.