Latente – Monte Meru (IndieBox)

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Rock emozionale che si inerpica sulle pendici del Monte Meru ad aspettare l’esplosione vulcanica, ad aspettare che tutto ciò che ci portiamo dentro possa passare attraverso i secoli per lasciare qualche particella infinitesimale di noi nell’etere che ci circonda. I Latente ritornano di gran carriera con un disco immediato di rock alternativo che lascia le aperture shoegaze iniziali a canzoni e ballate più incisive e meno sognanti sempre però affidate ad ampiezze che nei ritornelli raggiungono l’immaginazione valorizzando l’uso della parola che conturba e capace di creare immagini in costante cambiamento e alquanto visionarie. Tratti di psichedelia si contorcono dunque ricordando i primi Verdena, pezzi come La mia stanza buia, Nervi, Brace ed Everest ne sono emblema fino a chiudere un disco carico di una naturalezza e forte capacità espressiva difficili da trovare ai nostri giorni. Un album che suona già sopra di un palcoscenico illuminato, un disco catapultato di gran carriera nella nostra quotidianità ed è lì, forse che i Latente vogliamo trovare.

Gold miners night club – Gold miners night club (IndieBox)

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Riff geografici che si attestano negli States di un tempo passato, inglobano carne, sudore ed energia per prorompenti paesaggi che delineano le caratteristiche di una musica immediata che ben si sposa, attraverso un ponte orbitale, rotante con i suoni dei Led Zeppelin, Black Sabbath fino ai più recenti White Stripes e Arctic Monkeys in un susseguirsi di immagini prive di ogni fronzolo e assiepate in formule mai lineari e mai aggressive, ma piuttosto incanalando attenzione per bisogni che comprimono, bisogni che si fanno sentire oggi più che mai. I Gold Miners Night Club sono un duo esplosivo dalla provincia di Brescia che grazie a questa prova riesce a dare vita ad un piccolo sunto a suon di rock impattante di uno stato d’animo che forse ci coinvolge da vicino, un hard  rock sostanzioso che prende le distanze dalle impomatature moderne per concedere una vitalità che sa si di già sentito, ma anche e soprattutto di nuova e genuina freschezza. Ad attestare tutto ciò ci sono pezzi come l’apertura affidata a Gummy eyeballs per poi passare e scivolare in pezzi come I live my life o Rock’n’roll song fino al finale lasciato a Funeral Party. Ironia quindi, ribellione e contrasti rendono questa prova piacevole e ben strutturata, capace di rispolverare appieno un genere di qualche decade fa, senza strafare, con le dovute cautele.

LaJovenc – MATER (SonicaBotanica/Atmosphere)

Macchine che riscrivono partiture cosmiche di musica medioevale attraverso un progetto altamente contagioso e alquanto stravagante dove echi di un tempo passato si fondono con l’eccentricità e l’elettronica del momento in un disco che passa attraverso l’indissolubile movimento dell’essere di Da Palestrina, De Press, Encina, Lemlin in un vortice sostanziale di forme asettiche installate ad arte per un’originalità che vive e si nutre per poi essere scaraventata al suolo e cambiata radicalmente grazie a suoni che ricoprono idee di ambiente circostante che nella sua forma più minimale guadagna e racchiude intrinsecamente una bellezza pura. Giovanni Dal Monte attraverso la sua creatura LaJovenc porta l’avanguardia ad uno scalino di indubbia qualità, un bisogno di imprimere nella pietra una condizione di vita essenziale che si fa movimento continuo, alterità e soppesata metafisica di trasporto e di passaggio. Non sono solo suoni, ma accostamenti verosimili di un mondo che collima in sostanziale attesa verso ciò che cerchiamo nel nostro di dentro più nascosto.

Kaufman – Belmondo (INRI)

Omaggio a Jean Paul e alla Nouvelle Vague, alla bellezza da cogliere nell’attimo, all’istante che cattura sguardi e polaroid di un tempo andato pur proiettandosi in un futuro complesso, stratificato e ottenuto in una sostanziale ricerca musicale che fa della perfezione edulcorata un marchio di fabbrica davvero interessante e ricercato. I Kaufman sono tornati, sono tornati grazie a quella forza musicale che li aveva caratterizzati nel precedente e già recensito in queste pagine Le tempeste che abbiamo, i Kaufman sono tornati con un album meno oscuro, in parte più solare, ma comunque intriso di quella velata malinconia di fondo che racchiude gli anni migliori della nostra vita, del nostro essere vivi e ci conduce simultaneamente a scoprire le parti più nascoste di noi, le parti che non sapevamo di conoscere e che ora possiamo affrontare. 38 minuti di musica scritta con il sempre presente Alessandro Raina dei compianti Amor Fou, poco più di mezz’ora di canzoni che si inerpicano tra i singoli L’età difficile e Robert Smith fino ad attendere passioni in pezzi importanti come Senza Fiato, la bellissima Alpha Centauri o Ragazzi di vita. Citazionismo eclettico che assapora il momento, pop ben congegnato in un meccanismo che odora di emozioni per una produzione dal gusto cinematografico da osservare attraverso l’esplosione colorata di un caleidoscopio in divenire.

Metropol Parasol – Farabola (Autoproduzione)

Disco variegato che parte con il botto attraverso il distorsore acceso di una chitarra impazzita per disegnare a passi sicuri parabole di elettronica e musica d’atmosfera che intercorrono tra le nostre vene e rendono l’attesa una significativa essenzialità di fondo che raggruppa e intensifica questioni musicali e non lascia scampo tanto la proposta è variegata e inusuale. Sono in tre, vengono da Viareggio e il loro rock, il rock dei Metropol Parasol è intriso di testi criptici e introspettivi che lasciano al velato citazionismo un punto di sfogo  eclettico e riuscito nell’entrare in punta di piedi in universi fatti di bellezza da respirare nell’intera concezione di questo Farabola, nome di un fosso, acqua che irrompe, quiete che disturba e accende facoltà mentali che ci fanno vedere da vicino un suono che mescola l’importanza degli anni ’90 con tutto quello che nell’indietronica attuale percepisce le difficoltà di un tempo, l’importanza del richiamo. Farabola è un disco in parte complesso e in parte immediato che merita più ascolti per essere assimilato a dovere, un disco che nella sua accezione pop rende l’idea di un multistrato credere senza fine.