Luigi Turra – Alea (Line)

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Abbandonando i flutti della ragione il vicentino Luigi Turra compone un quadro iperbolico di un colore rosso sfumato in divenire capace di compenetrare e stabilire un legame complesso e simbiotico con “L’amante della Cina del Nord” di Marguerite Duras rielaborandone suggestive impressioni che ammaliano e ridanno spessore ad un noise ricreato con strumenti naturali e brevi incursioni parlate, pezzi di testo in francese, pezzi di voci che alternano i silenzi alle note di piano discostanti, in quel gioco sulfureo di attesa e arrivo, di partenza e manierismo sonoro in grado di ottenebrare il velo oscuro della ragione e lasciandoci trasportare nell’impotenza dell’abbandono, nell’impossibilità di essere qualcosa per qualcuno, mantenendo una forte idea di conquista anche quando la stessa conquista si allontana, un primo amore raccontato nell’errare dell’essenza stessa che grazie all’uso di pause ad effetto ricrea momenti di intimità elastica, che si lancia nel vuoto del cuore e ritorna nell’antro della ragione.

In un processo nostalgico questo viaggio è in grado di approfondire una parte di noi celata e segreta, giustamente riscoperta grazie ad un comparto emozionale davvero notevole in un excursus fuorviante e a tratti allucinogeno per un racconto nel racconto; un’unica traccia di poco più di quaranta minuti imbottita a dovere di sogni sinistri rosso amore.

Wander – Kat gat sea (Wounded knife)

WANDER, Kat Gat Sea

Cassettina che racchiude i desideri di un nostalgico come il sottoscritto, per la seconda prova degli sperimentalismi assurdamente belli di Vincenzo De Luce e di Matteo Tranchesi, in arte Wander, che fanno della dissonanza in chiave desertica una matrice composita di luce notturna da improvvisazioni folk, quello vero e una caparbietà divincolata nel mantenere uno standard indipendente, già dal supporto dell’album che convince a dismisura.

Grazie anche ad una grafica che lascia molto all’immaginazione il duo ci trasporta laggiù oltre i confini inesistenti della nostra coscienza, ricordando i primi Gatto ciliegia contro il grande freddo e intersecando atmosfere da film horror con colonne sonore di rara apertura e sonorità ammaliante, capaci di creare un tutt’uno con l’ascoltatore in una immedesimazione che si apre proprio con la bellezza discostante dei discorsi di Unfinished departures, per coinvolgerci tra gli scheletri e le carcasse di For the time remaining fino a giungere alle profondità della bellissima Faded memories e nel vortice complesso di Black Powder, in un disco che si allontana di prepotenza da tutto ciò che potrebbe essere definito commerciale in nome di una passione e di un credo che si può percepire tra le stridenti melodie di corde metalliche abbandonate al tempo che verrà.

Palmer Generator – Discipline (Astio Collettivo/Torango)

Disco in famiglia che abbraccia i tempi migliori in lisergiche ambientazioni di paesaggi marini pronti a subentrare ad una terra in grado di cambiare ad ogni movimento e soprattutto in grado di comprendere le costruzioni del tempo tanto da valorizzarle in attimi elettrici e fotovoltaici attraverso una psichedelia stratosferica che si rispecchia molto nel post rock degli Explosions in the sky per un disco completamente strumentale che abbandona territori conosciuti per farci addentrare in un mondo inquieto e capovolto dove l’uomo deve uscire dal legame con la macchina per auto costruirsi un’identità fondante e autonoma in grado di comprendere i meccanismi che vanno oltre l’ingranaggio e si affacciano al pensiero con costanza e forza cangiante, da Persona fino a Domain, in mezzo abbiamo l’evoluzione di una società in un concept atmosferico in grado di sottolineare, ancora una volta, l’importanza dell’impatto emozionale su tutto il resto, intensificando un lavoro che si esprime soprattutto in chiave live, tra sudore e intensità, tra speranza e decandentismo evolutivo.

Legni vecchi – Legni vecchi (DreaminGorilla Records/Stay Home records)

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Duo meraviglia che intasa l’aria di sostanze sonore in grado di provocare nel corpo umano un’energia dirompente capace di sfondare gli orpelli post hardcore per incentrare la scrittura in una musicalità che si fa tenebra e luce, innescando soffitti cosmici da gettare al suolo con forza magnetica, imprigionando la realtà attraverso note che si susseguono in accordi emozionali, siglando il bisogno di esistere attraverso sei tracce che si muovono bene tra Gazebo Penguins e Menrovescio in uno stile affinato e pronto a trovare una propria dimensione in chiave live, su di un palco polveroso da dove non poter scendere finché l’ultima goccia di sudore non sarà stata versata, La Pace è il pezzo più introspettivo del disco passando per La distruzione e l’ottima Marcione, lasciando qualche suono vocale a riempire Ratti fino al gran finale di Sgomito, per un disco, quello dei Legni Vecchi che trasuda resina ancora e per sempre.