Requiem for Paola P. – Sangue del tuo sangue (Nulla officine discografiche/Imbecillity Kills)

Dopo sei anni il ritorno come un pugno allo stomaco negli anfratti crepuscolari della nostra coscienza in sostanziosa ricerca immaginifica di canzoni hardcore rivoluzionate a dovere con il piglio di chi non ha nulla da perdere e mescolando la lezione del cantautorato degli anni ’90 per testi che parlano di natura e per la natura, non mera convinzione di appartenenza al nostro ambiente quotidiano, ma piuttosto un’esigenza di calpestare un mondo concreto e talvolta generoso, un mondo da esplorare che per l’occasione si proietta in canzoni al fulmicotone, dense e pregne di sostanza da dover rilasciarle piano piano per poi riprenderle, assaporarle fino in fondo, sedimentarle nel nostro animo per racconti di un mondo in rovina e appigli ancora sostenibili; esigenze quasi estemporanee di ritornare con un soffio alle proprie radici, le proprie origini, concentrando le spiegazioni nel momento giusto e lasciando scorrere prepotentemente il fiume di parole che penetra e ci costringe ad ascoltare questa volutamente criptica prosa che è nostra carne, nostro tempo, nostra inevitabile vita, perché i Requiem for Paola P. sono tornati, dopo una trasformazione sofferta, ma naturale, una crisalide pronta a bucare il proprio tiepido nido, tra allegorie e figure astratte, ma sedimentate in costante ambizione di ricerca musicale che calpesta gli errori del tempo e si immola ad essere nuovo inizio futuro.

Michele Gazich – La via del sale (fonoBisanzio)

E’ il suono del tempo e dell’oscurità che avanza, del racconto di popoli al confine, di un lembo di terra baciato dal mare e da sassi a comporre case che come pensieri infrangono le barriere e irrompono prepotentemente le nostre vite in un fiume continuo, un’energia di ricerca che spazia e si ricompone, canzone dopo canzone, attimo dopo attimo, perduto amore in nome di un’era che non esiste più e che si ammira con malinconia lontana e con sentore comune di un mite e necessario risveglio da dove poter riaffiorare, da dove poter annusare l’essenza di un fiore tra le rovine, le biblioteche annegate dall’ignoranza quotidiana, il sentirsi appartenenti ad un qualcosa e non riuscire a darne il giusto significato.

Michele Gazich continua la sua ammirevole battaglia raccontando di generazioni ormai perdute nell’illusione delle sovrastrutture alienanti, un settimo disco che odora di rivoluzione silenziosa, capace di penetrare piano piano, come polvere bianca nell’acqua calda fino a mescolarsi, alla ricerca di un’essenzialità commovente che si muove tra ballate introspettive come la title track d’apertura a spiegare il concetto portante, arrampicando aspirazioni al crepuscolo in Viaggio al centro della notte, per inondare il Mediterraneo con la geografica Barcellona, Sicilia fino al finale di Fontanaingorda, strumentale per violino dedicata al poeta Giorgio Caproni.

Un disco nomade che abbraccia gli strumenti del folclore italiano e non, la tradizione e l’attualità sempre ben pesata ed espressa attraverso un essere caratterialmente errante in grado di fotografare perfettamente un’esigenza di ritorno alle origini prima che sia troppo tardi.