-FUMETTO- Diario segreto di Pasolini – Elettra Stamboulis/Gianluca Costantini (BeccoGiallo)

Diario segreto di Pasolini

Titolo: Diario segreto di Pasolini

Autori: Elettra Stamboulis/Gianluca Costantini

Casa Editrice: BeccoGiallo

Caratteristiche: Brossura con alette, 15×21 cm, 208 pp colore

Prezzo: 17,50€

ISBN: 9788899016203

Un diario che racconta una vita e una vita racchiusa in un diario, piccoli aneddoti, pensieri che occupano poco più che una facciata, sensazioni del tempo andato che esplodono per far comprendere al lettore le caratteristiche di uno dei più grandi pensatori che l’Italia abbia mai avuto, un insieme di pagine volute e cercate, ricucite passo dopo passo grazie al contributo del tempo e dall’aiuto di lettere, interviste e poi dagli stessi film, capaci di infondere una sensazione di attualità e luminosità, nella loro cupezza interiore, anche dopo molti anni.

In queste pagine si evidenziano i passaggi e i cambi geografici, i luoghi dell’infanzia, qui accennati a far da sfondo, come fossero ricordi nebulosi: Belluno, Conegliano, Bologna, per citarne alcuni e poi la tanto amata Casarsa in cui l’autore ricrea una simbiosi in cui si rispecchia, la stessa simbiosi che riscopriamo nel rapporto tra lui e la madre, immaginata come un Socrate che amorevolmente insegna a vivere, la stessa cosa non si può dire però del padre, tenente di fanteria, autoritario e distaccato, giocatore d’azzardo, pronto a partire in guerra e raccontato attraverso sentimenti di netto contrasto rispetto alla madre; un padre senza volto e una madre piena di speranza: due identità che segneranno profondamente le scelte di vita future del poeta.

A segnare poi, in modo indelebile la vita di Pasolini sono i racconti sul fratello Guido, divenuto partigiano e morto a Porzus, un ricordo vivido caratterizzato da una storia che nel finale del libro acquisisce toni drammatici e sempre più veritieri, la drammaticità e l’orrore della guerra qui raccontata in un istante famigliare e intimo e poi ancora gli amici di scuola, le prime poesie e le letture di Dostoevskij e Tolstoj, i ricordi più personali nell’osservare l’incavo delle ginocchia dei ragazzini che giocano a calcio e la passione per lo sport, una doppia anima dal sapore d’altri tempi.

La coppia rodata Elettra Stamboulis e Gianluca Costantini, già ideatori delle biografie , Arrivederci Berlinguer, Cena con Gramsci e Pertini fra le nuvole editi anch’essi da BeccoGiallo, riesce nell’intento di attraversare in modo vivido una realtà esistita e immortale, carica di una capacità espressiva che grazie a testi lineari e compressi e disegni – collage evocativi, tecnicamente multiformi e frutto di una ricerca del tutto personale, permette al lettore di infrangere il confine tra reale e immaginato stabilendo un senso che acquisisce il suo significato più profondo nelle esperienze di gioventù, rendendo infinito un pensiero perpetuo.

 

Verdiana Raw – Whales know the route (Pippola Music)

Incrociatori sonori che in modo ampio assecondano il moto ondoso della nostra anima per divincolarsi egregiamente dalle produzioni italiane dell’ultimo periodo e intascando una prova che sa di internazionalità vissuta e soprattutto pensata, ricca di atmosfere eteree e suggestive, capaci di creare una suggestione univoca carica di sorprese e lontana da qualsivoglia incasellamento per un disco ammaliante di bellezza e di luce.

Verdiana Raw fa sua la prova del tempo, una gestazione che da vita percependo gli anfratti della nostra coscienza in modo silenzioso, del tutto personale e immedesimandosi in ciò che verrà; ascoltare Verdiana Raw è sentire in lontananza gli echi degli Ours e del suo Jimmi Gnecco intrappolato nella mente di Tom Mcrae, abbracciando le sofisticazioni di Anohni e intessendo trame fondamentali per gli sviluppi di un disco tendente all’etereo e al sognante.

Ecco allora che le canzoni si fanno strada, partendo dalle trame circolari di Time is circular per concludere il viaggio con una title track di un’efficacia disarmante.

Le balene ci portano a seguire la strada giusta, ci portano sempre un po’ più là, oltre il conosciuto e oltre le formule dei preconcetti, un album personale, intimo e raccontato, una vita che esplode e noi pronti attorno, ad accoglierla nuovamente.

Marco Bugatti – Romantico (Autoproduzione)

Marco Bugatti, già voce dei conosciuti Grenouille, confeziona una prova ben suonata e vissuta, caratterizzata da suoni abrasivi contrapposti a suoni più lucidi e reali capaci di penetrare in profondità e dando senso a refrain che entrano in testa facilmente e valorizzano questa prova mescolando sapientemente generi come il cantautorato al pop fino allo stoner rock passando per le introspezioni di pezzi intimi che raccontano attimi vissuti e giorni da ricordare.

Romantico è il disco d’esordio del monzese Bugatti, capace di trasferire rabbia e malinconia grazie ad una voce raffinata e coinvolgente, una voce difficile da trovare nel panorama della musica italiana che riesce con un sussurro come attraverso un grido lacerante, a dipingere in modo sostanziale e non sommario, le vicissitudini del tempo, le armonie che non esistono più, l’istante da cogliere che si fa esso stesso racconto di vita e passione senza dimenticare la sottile chiave ironica che contraddistingue questo lavoro.

Un album veramente variegato e multi forme, sette pezzi che racchiudono un mondo di stile e di coraggio, abbandonare il passato per guardare al futuro, forse questa è l’unica strada da seguire.

 

Persian Pelican – Sleeping beauty (Trovarobato/Malintenti Dischi/Bomba Dischi)

La bellezza sta dormendo, ma non in questo caso, racchiusa da capogiri esistenziali dove il vortice emozionale è importante quanto la valorizzazione del sogno e del suo farne parte, in una realtà che è possibilità tangibile di ricreare l’onirico nel quotidiano, dando forma e speranza alle situazioni del domani.

Persian Pelican, all’anagrafe Andrea Pulcini, è tornato, confezionando un terzo disco di purezza cristallina che abbandona le esigenze più introspettive e malinconiche del precedente How to prevent a cold per dare un senso maggiore alla bellezza che si cela nell’elettricità e nelle melodia, divincolata dal suono acustico che lo caratterizzava, per compiere un salto ancora più luminoso nel mare delle produzioni nostrane.

Il carattere e lo stile che lo contraddistingueva, legato al desiderio di sperimentare, non manca e in qualche modo il nostro regala vita ad un concept reale sull’irrealtà e il linguaggio dei sogni, non mascherando le illusioni del vivere, ma riuscendo ad attingere direttamente dai vissuti un senso maggiore che completa il tutto.

Sono tredici pezzi di una bellezza disarmante, difficile sceglierne uno, gli episodi appartengono ad un tutto inscindibile e importante; esempio ne è l’apporto del cantautore statunitense Tom Brosseau che grazie alla sua voce rende l’idea di Orphan ancora più reale, in un disco che sa di maree e di sogni lucidi, ad occhi aperti, senza la paura di scoprire, qualcosa di più, dentro noi.

Clowns from other space – Zeng (BoleskineHouseRecords)

Vengono dallo spazio profondo, dalla storia di fine ’80 e inizi ’90, dove il grunge era ancora distante e dove l’uscita di scena della new wave portava l’ingegnosità e la scoperta di un rock fatto d’atmosfere crepuscolari, malinconiche e di sicuro effetto.

I nostri clowns hanno raccolto l’eredità del tempo e per l’occasione si vestono di nuova linfa facendo della loro musica un veicolo introspettivo che parla proprio di quei tempi andati incrociando fedelmente i primi U2, i The Smiths e i Radiohead di Pablo Honey in un eterno passaggio concentrico di luci e ombre, di possibilità mancate e di rabbia repressa pronta ad uscire e convogliare  in distorsioni che anticipano il post rock e le lisergiche gradazioni di colore che riempiono il nero che vive attorno a noi.

Un disco pieno e misterioso che si fa ascoltare più volte e forse per nostalgia verso quel mondo ricrea sentimenti di voracità e solitudine, di fame musicale e di costante ricerca di sovra strutture da interpretare costantemente, tra l’apertura di Shifted fino al finale obliquo e portentoso di Scenes, fatto di cambi di tempo e continue aperture, un album per nostalgici che si proietta egregiamente in questi anni aperti all’indefinito.

 

Ilaria Pastore – Il faro la tempesta la quiete (Tiktalik / Rollover Production)

Un disco leggero, ma non per questo superficiale, capace di scandagliare i sentimenti dell’animo umano e gettarli nel racconto della vita, lasciando alle emozioni il sopravvento del tutto e dando un senso maggiore alla proposta ascoltata.

Ilaria da un pezzo non si faceva sentire, l’avevamo lasciata con Nel mio disordine ad arrovellarsi in manierismi apprezzati e introspettivi, ora la ritroviamo, dopo qualche anno, più matura e convinta, quasi più libera nel raccontarsi, facendosi essa stessa veicolo per emozionare grazie ad una musica che si muove tra territori pop e cantautorali, tra il detto e il pensato, il tutto ben confezionato, con l’aggiunta di pianoforti, fiati e archi a dare un senso maggiore al nostro divenire, creando una comunione d’intenti con l’ascoltatore che fa da perno a tutta la sua produzione.

Un disco di una sensibilità rara, che si esprime al femminile, ma che non disdegna di guardare oltre, oltre le apparenze e oltre il quotidiano, tra vissuti in prima persona come in i Ricordi Migliori e la narrazione del conosciuto in Jole, l’introspezione di Buio Pesto e Va tutto bene fino a Decifrato a chiudere una perla di rara bellezza.

Un album sulle consuetudini e la quotidianità, un disco che parla di noi e di ciò che forse un giorno saremo, senza dimenticare la strada percorsa che come un faro illumina la notte, tra il chiarore e l’oscurità, tra ciò che abbiamo lasciato e ciò che raccoglieremo.

Barachetti / Ruggeri – White Out (Ribéss Records/DGRecords)

Lo spazio inteso come luogo dove vivere non è mai stato così ben definito, l’idea, il concetto di ambientazione sonora qui travalica il senso del già sentito per inglobare un’idea di musica, che musica non è, ma è narrazione lacerante di un racconto post futurista e egregiamente colpito fino al midollo, nella sua imperscrutabile essenzialità, maturata nel tempo, maturata negli anni.

Il duo Barachetti/Ruggeri intasca una prova innovativa che si fa prima di tutto interrogazione sul tempo che abbiamo davanti e su quello che è appena passato, una prova fluida e scarna, quasi malata, sintomo di un qualcosa che ci rende prigionieri, che non ci rendi liberi, ma è ossessione fanciullesca narrata, è abbandono e accoglienza in un moto perpetuo assordante, nel bianco e fuori di esso.

C’è del colore però nella narrazione, c’è il Ferretti del post CSI e tanto desiderio nel ricreare qualcosa che va oltre gli schemi precostituiti, abbattendo le tre dimensioni che conosciamo e facendo dell’elettronica una costante gravitazionale che annienta le produzioni odierne e si fa veicolo e funzione della stessa storia, dello stesso racconto sonoro.

Il bianco che fa da sfondo e l’oscurità che avanza già dal primo pezzo fino a convogliare le energie in quel fiume verticale di mirata desolazione; i nostri, con questo disco hanno saputo raccontare di luoghi inospitali, così vicini alla nostra anima dannata e capaci di infondere l’esigenza di uscire dalla scatola che ci tiene prigionieri.

Bioscrape – Psychologram (OverDubRecordings)

L’idea di collegare il nostro mondo, la nostra comunicabilità con esseri che vivono in un’altra terra, in un altro pianeta è un’idea alquanto innovativa, una capacità, che si fa volere prima di tutto, di dare un senso alla comunicazione, alla nuova comunicazione, oltre le barriere conosciute e intersecando lo spazio psicologico e dell’intelletto con il desiderio di gridare al mondo e non solo, la propria presenza.

Loro sono i Bioscrape e grazie ad un suono violento e diretto tendono all’infinito, alla ricerca di una coscienza nuova e impenetrabile, capace di mettere in contatto mondi lontani e allineare sonorità del passato con l’elettronica del domani, un concentrato che si fa spartiacque nell’incedere che è sostanza di fondo, che è materiale fondamentale per comprendere questo quartetto che non si fa ingannare dagli orpelli del già sentito, ma ricrea esso stesso un genere che sa di invenzione sonora non sempre immediata, ma di sicuro effetto.

Dieci tracce divise in quattro capitoli, una manciata di canzoni pronte a farci partire verso mondi lontanissimi e concentrici, verso ciò che non conosciamo, verso il lato oscuro della nostra stessa Terra.

Deathwood – …And if it were true? (OverdubRecordings)

Entrare nel bosco delle proprie paure e respirare la certezza che qualcosa succederà, tra l’ossigeno in decomposizione e il bisogno di correre, devastando tutto ciò che ci troviamo davanti o sotto i piedi nell’attesa di vedere una luce che mai arriverà, un corridoio, un antro color tempesta e temporale che travalica le nostre coscienze e si nutra della nostra voracità nell’essere umani.

Questo punk rock si fa racconto terrificante e sospeso, ricco di atmosfera e coinvolgente già in partenza, mitigato qua e là da sonorità già conosciute, ma capaci di penetrare in profondità come storia attorno al fuoco, come ricordo di fantasmi dentro di noi e ovviamente come fondo di verità, perché dentro ad ogni leggenda possiamo comprendere l’incomprensibile e questo ce lo spiegano i nostri Deathwood che per l’occasione registrano un disco che è esso stesso concept orrorifico carico di significato, che mescola vissuti personali con storie abruzzesi di altri giorni, ma che ritroviamo in questo disco sporco di punk rock scuola americana in un concentrato di narrazione ultraterrena sempre sopra le righe e ricco di sostanza.

Nove pezzi che attingono direttamente dall’immaginario horror targato anni ’80 condito da un punk ben lavorato e capace di dare un senso all’ascolto, capace di rendere la paura ancora tangibile; una colonna sonora per lo Scream del domani.

Clemente – Canzoni nel cassetto (Contro Records)

Clemente è un cantautore vecchia scuola, di quelli polverosi, avvolti nella nebbia, seduti su di una sedia di paglia e con la classica in mano a raccontare storie di ogni giorno di fronte a poche persone, ad una manciata di uomini e donne venuti apposta per lui e con fare disinvolto, lui stesso, sceglie dalla pila di libri che ha davanti il testo per la sua prossima canzone, un’ispirazione da far ascoltare, intima esigenza di uscire allo scoperto.

Canzoni nel cassetto è tutto questo, uno scrutare profondo dentro le rapide della nostra anima, in una malinconia di fondo che sa di purezza ben amalgamata e concentrata per accogliere le esigenze di un mondo lontano, forse lontanissimo, dove l’essenzialità è di casa e dove l’efficacia nell’uso di strumenti come violino, pianoforte e fisarmoniche rende il disco ancor di più anacronistico, fuori dal tempo, da questo tempo; un’essenzialità che si fa silenzio e voce vera.

Il nostro racconta i ricordi in modo lucido, pensiamo all’iniziale L’essenziale fino a scorrere via via con Stupida canzone, a fotografare l’attimo, a disegnare per un momento una speranza per domani, quella speranza che si trasforma in viaggio, una valigia sempre pronta e un orizzonte da inseguire, come in un sogno da cui non vorremmo mai svegliarci.