Ilaria Pastore – Il faro la tempesta la quiete (Tiktalik / Rollover Production)

Un disco leggero, ma non per questo superficiale, capace di scandagliare i sentimenti dell’animo umano e gettarli nel racconto della vita, lasciando alle emozioni il sopravvento del tutto e dando un senso maggiore alla proposta ascoltata.

Ilaria da un pezzo non si faceva sentire, l’avevamo lasciata con Nel mio disordine ad arrovellarsi in manierismi apprezzati e introspettivi, ora la ritroviamo, dopo qualche anno, più matura e convinta, quasi più libera nel raccontarsi, facendosi essa stessa veicolo per emozionare grazie ad una musica che si muove tra territori pop e cantautorali, tra il detto e il pensato, il tutto ben confezionato, con l’aggiunta di pianoforti, fiati e archi a dare un senso maggiore al nostro divenire, creando una comunione d’intenti con l’ascoltatore che fa da perno a tutta la sua produzione.

Un disco di una sensibilità rara, che si esprime al femminile, ma che non disdegna di guardare oltre, oltre le apparenze e oltre il quotidiano, tra vissuti in prima persona come in i Ricordi Migliori e la narrazione del conosciuto in Jole, l’introspezione di Buio Pesto e Va tutto bene fino a Decifrato a chiudere una perla di rara bellezza.

Un album sulle consuetudini e la quotidianità, un disco che parla di noi e di ciò che forse un giorno saremo, senza dimenticare la strada percorsa che come un faro illumina la notte, tra il chiarore e l’oscurità, tra ciò che abbiamo lasciato e ciò che raccoglieremo.

Barachetti / Ruggeri – White Out (Ribéss Records/DGRecords)

Lo spazio inteso come luogo dove vivere non è mai stato così ben definito, l’idea, il concetto di ambientazione sonora qui travalica il senso del già sentito per inglobare un’idea di musica, che musica non è, ma è narrazione lacerante di un racconto post futurista e egregiamente colpito fino al midollo, nella sua imperscrutabile essenzialità, maturata nel tempo, maturata negli anni.

Il duo Barachetti/Ruggeri intasca una prova innovativa che si fa prima di tutto interrogazione sul tempo che abbiamo davanti e su quello che è appena passato, una prova fluida e scarna, quasi malata, sintomo di un qualcosa che ci rende prigionieri, che non ci rendi liberi, ma è ossessione fanciullesca narrata, è abbandono e accoglienza in un moto perpetuo assordante, nel bianco e fuori di esso.

C’è del colore però nella narrazione, c’è il Ferretti del post CSI e tanto desiderio nel ricreare qualcosa che va oltre gli schemi precostituiti, abbattendo le tre dimensioni che conosciamo e facendo dell’elettronica una costante gravitazionale che annienta le produzioni odierne e si fa veicolo e funzione della stessa storia, dello stesso racconto sonoro.

Il bianco che fa da sfondo e l’oscurità che avanza già dal primo pezzo fino a convogliare le energie in quel fiume verticale di mirata desolazione; i nostri, con questo disco hanno saputo raccontare di luoghi inospitali, così vicini alla nostra anima dannata e capaci di infondere l’esigenza di uscire dalla scatola che ci tiene prigionieri.

Bioscrape – Psychologram (OverDubRecordings)

L’idea di collegare il nostro mondo, la nostra comunicabilità con esseri che vivono in un’altra terra, in un altro pianeta è un’idea alquanto innovativa, una capacità, che si fa volere prima di tutto, di dare un senso alla comunicazione, alla nuova comunicazione, oltre le barriere conosciute e intersecando lo spazio psicologico e dell’intelletto con il desiderio di gridare al mondo e non solo, la propria presenza.

Loro sono i Bioscrape e grazie ad un suono violento e diretto tendono all’infinito, alla ricerca di una coscienza nuova e impenetrabile, capace di mettere in contatto mondi lontani e allineare sonorità del passato con l’elettronica del domani, un concentrato che si fa spartiacque nell’incedere che è sostanza di fondo, che è materiale fondamentale per comprendere questo quartetto che non si fa ingannare dagli orpelli del già sentito, ma ricrea esso stesso un genere che sa di invenzione sonora non sempre immediata, ma di sicuro effetto.

Dieci tracce divise in quattro capitoli, una manciata di canzoni pronte a farci partire verso mondi lontanissimi e concentrici, verso ciò che non conosciamo, verso il lato oscuro della nostra stessa Terra.

Deathwood – …And if it were true? (OverdubRecordings)

Entrare nel bosco delle proprie paure e respirare la certezza che qualcosa succederà, tra l’ossigeno in decomposizione e il bisogno di correre, devastando tutto ciò che ci troviamo davanti o sotto i piedi nell’attesa di vedere una luce che mai arriverà, un corridoio, un antro color tempesta e temporale che travalica le nostre coscienze e si nutra della nostra voracità nell’essere umani.

Questo punk rock si fa racconto terrificante e sospeso, ricco di atmosfera e coinvolgente già in partenza, mitigato qua e là da sonorità già conosciute, ma capaci di penetrare in profondità come storia attorno al fuoco, come ricordo di fantasmi dentro di noi e ovviamente come fondo di verità, perché dentro ad ogni leggenda possiamo comprendere l’incomprensibile e questo ce lo spiegano i nostri Deathwood che per l’occasione registrano un disco che è esso stesso concept orrorifico carico di significato, che mescola vissuti personali con storie abruzzesi di altri giorni, ma che ritroviamo in questo disco sporco di punk rock scuola americana in un concentrato di narrazione ultraterrena sempre sopra le righe e ricco di sostanza.

Nove pezzi che attingono direttamente dall’immaginario horror targato anni ’80 condito da un punk ben lavorato e capace di dare un senso all’ascolto, capace di rendere la paura ancora tangibile; una colonna sonora per lo Scream del domani.