Kiwibalboa – Tre buoni motivi (LaClinicaDischi)

Bene trattenete il respiro e tuffatevi con me nell’oceano di queste canzoni, che racchiudono un mondo da raccontare, racchiudono un’esigenza di vita che va oltre il già sentito e si ripromette di essere faro per una cultura indie pop che sta virando sempre più verso il rock e le stagioni degli anni ’90, quando le sonorità in minore racchiudevano melodie bellissime e impresse nella mente, dischi che non si dovevano lasciare scappare, a segnare la scena, a ricoprire il bagliore per trasformarlo in qualcosa di diverso, qualcosa che fosse diviso nel tempo per essere appreso totalmente.

I Kiwibalboa sono tutto questo e intascano una prova da primi della classe, cinque pezzi belli tirati che raccontano di disagi di vita e bisogno di cambiare, lo fanno passando direttamente dai loro vissuti, tre buoni motivi per essere se stessi, tre buoni motivi che muovono le idee e i bisogni umani, un album che apre una nuova stagione e ricerca nella propria indipendenza attimi di aria per non affogare.

Braski Lacasse – So afraid to be alone (Autoproduzione)

Band mascherata all’insegna del divertimento in una commistione di generi rock che si fonde con gli inizi degli anni ’70 fino ad arrivare ai giorni nostri, passando per Kiss, Turbonegro e Muse e dando vita ad uno spettacolo danzereccio che fa uso di proiezioni di filmati d’epoca e linguaggio teatrale all’insegna di un’impostazione sopra le righe e di sicuro impatto in chiave live.

Un disco mutevole e cangiante che lascia spazio a momenti di respiro e melodia sonora per passare repentinamente a ritmi martellanti e testi disinvolti che parlano di rapporti d’amicizia che finiscono male, tra opportunismo e lealtà mancata, una ricerca costante del proprio posto nel mondo, tra musica scanzonata e testi diretti ben impostati, dove il sapore dell’amaro in bocca scivola velocemente per lasciare spazio ad un sorriso, quel sorriso che ci accompagna già dalle prime note di I loved you so fino alla Wild and lost che chiude il cerchio e muta i sogni in qualcosa di concreto, con la testa alta e gli occhi protesi al futuro attraverso quel viaggio chiamato vita senza fine e dalle grandi aspettative.

Infrared – Infrared (Autoproduzione)

Un salto indietro negli anni ’90, un salto fatto con l’elastico, da altezze vertiginose, suoni rock in bilico tra Skunk Anansie e Guano Apes per un Ep che brilla per voracità e voglia di creare melodia nel rumore, la potenza e la quiete, la calma apparente e quella sensazione umana avvolgente e penetrante di dare un senso alla forma canzone, di dare un senso al viaggio mentale con paradigmi semplice e ben strutturati, capaci di dar vita a pezzi di impatto improvviso e immediato.

Gli Infrared intascano una buona prova, cinque brani che non passano inosservati e con le carte in regola per entrare a pieno diritto nel mondo del rock internazionale, forse osando un po’ di più, ma certamente con una base solida e sicuramente rodata; un disco che fa scorrere rapida la memoria a più di vent’anni fa, dove l’energia era parte vitale del nostro vivere quotidiano.

Nubohemien – La nostra piccola guerra quotidiana (Woodworm)

Disco strutturalmente indie pop che si affaccia al mondo dei sintetizzatori e dell’elettronica ben calibrata per racconti di vita e di inquietudine che si fanno sonorità ben congegnata e dove lo stare al mondo è esso stesso esigenza primaria per costruire, giorno dopo giorno, esperienze e improvvisazioni che sono alla base degli approcci presenti e futuri.

La band veneta colpisce a fondo e sfodera un nuovo album fatto di canzoni dotate di una solida impalcatura di base dove i testi si fanno racconto di vita e dove la ricerca di una propria forma canzone, di un proprio stile diventa necessità, tra sonorità  indie rock d’oltremanica e il cantautorato gentile degli ultimi tempi, tra i Thegiornalisti e gli altri romani Bosco, in un vortice emozionale che alle volte si trasforma in pugno allo stomaco, raccontando ciò che ci circonda, la nostra realtà.

Un gruppo che ha intrapreso il proprio cammino, che conosce i propri limiti e le proprie capacità di sperimentazione, una band che traccia una linea netta con il passato, sin dalle prime battute del singolo Tua sorella per arrivare alla Title track composta e quasi perfetta; un album che ascolteremo ancora e una band che è solo agli inizi del proprio processo di rinnovamento ed esplosione. Buon big bang.

 

Giorgio Canali e Rosso Fuoco – Perle per porci (Woodworm)

Suoni sporchi e lacerati che invadono l’anima e aprono ad estratti di linfa vitale che ci appartiene, appartiene a quel substrato di cultura indie di questi tempi malati, piccoli uccelli di carta che grazie ad una forma nuova e tangibile si fanno conoscere ad un pubblico ancora più vasto ed eterogeneo, o almeno si spera, prendendo il volo, prendendo le distanze dalle forme originarie, sfoggiando una livrea del tutto nuova e personale.

Perle per porci è il bisogno di Giorgio Canali e soci di scovare nel baule della nonna gli abiti migliori, quelli portati poco e ancora perfetti, da lasciare senza fiato, è un intento più che preciso di suonare canzoni che vorrebbe avere lui stesso creato e che in questo caso si prestano a cover di rara bellezza e profondità; tutte alquanto diverse, tutte alquanto simili per approccio e costruzione interna, tanto da sembrare un disco appena uscito che rimescola i suoni degli anni ’90 per concentrarli in elettricità sospirata e attesa.

C’è Vasco Brondi, Finardi, De Gregori, Angela Baraldi, Fausto Rossi, i Macromeo di Aiuola, L’Upo, Luc Orient, Plasticost, i francesci Corman & Tuscadu, i Mary June e non dimentichiamo i tanto cari Frigidaire Tango, pionieri della scena new wave italiana degli anni ’80.

Un disco che si fa ascoltare, ricco di prodezze e sentimenti in divenire, capace di muoverti dentro ancora una volta, capace di farti ammirare l’essenza della canzone stessa, con una nuova veste e con nuovi colori, ma intangibile nel cuore di chi l’ha fatta propria.

Fuzz Orchestra – Uccideteli tutti!Dio riconoscerà i suoi (WoodWorm)

Partiture di musica contemporanea assemblate con cura da Enrico Gabrielli che si fondono in modo egregio con le ascensioni sonore, verso un’apocalisse immediata, dei Fuzz Orchestra che in questo loro nuovo disco permettono all’ascoltatore di entrare in un mondo musicale che fa da contorno ad un film, intrecciando Morricone, Joe Hisaishi e il rock più oscuro e personale dei Black Sabbath e le parabole funamboliche dei Can per un’associazione alquanto originale di generi e proposta.

Percorsi di espiazione, rivelazione e giudizio, un affrontare le insidie quotidiane guardandoci un po’ dentro, guardando al passato e al futuro, la paura di svanire e non lasciare traccia e quel buio inconfondibile che fa da tramite per le produzioni migliori; tra stanze chiuse e sofferenti c’è il desiderio di tornare, oltre ogni aspettativa e oltre ogni possibilità, un viaggio che parla di morte e caparbietà: si pensi alle atmosfere desolate della bellissima apertura affidata a Nel nome del padre per scorrere poi sempre più verso una strutturazione che lascia segno del proprio passaggio in The heart will weep.

Un disco oscuro e di difficile comprensione nell’immediato, che necessita di numerosi ascolti prima di essere assimilato, otto tracce che però lasciano il segno per originalità e significato, un significato che si fa desiderio di tornare oltre ogni mondo e oltre ogni spazio conosciuto in un ciclo continuo per secoli ancora.

Sorge – La guerra di domani (La Tempesta Dischi)

Sorge l’alba oltre l’oscurità e scuote l’uragano che ormai inesorabile si sta avvicinando verso noi che viviamo di calma piatta, di una calma che non si fa sentire se non nelle quotidiane noie popolari, di quella calma che adombra e confessa l’importante inutilità.

Chiaro scuri emozionali per il disco di Sorge, duo elettronico/pianistico formato da Emidio Clementi e Marco Caldera, un album cupo e rassomigliante per certi versi ad una colonna sonora per un film americano ambientato nella grande depressione; poesie crepuscolari, che si nascondono dentro alle grotte dell’anima e si considerano parte di un tutto che risiede nelle nostre vite, nelle nostre abitudini di umani alquanto pretenziosi e incapaci di ascoltare.

Sono racconti, dieci racconti che collimano su di una poesia esistenzialista e a tratti verista, che racchiude il mal di vivere e forti rimpianti per un tempo che non c’è più, raccontando della sostanza di cui siamo fatti, raccontando il risveglio e la pioggia sui vetri, raccontando di sogni gettati più volte al suolo e di quell’eterno camminare senza meta verso gli ambienti pluridimensionali della nostra mente, dove una volta, forse, ridevamo ancora.