Nervovago – Il clan Rocket (Autoproduzione)

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Esplosioni in rabbia sonora tra chitarre elettriche super distorte e capacità di dare un senso all’esistenzialismo servendosi di citazioni che danno un valore alquanto verista alla nuova prova dei Nervovago, power duo dirompente che intasca i successi degli esordi per lasciarci un disco fatto di pezzi al fulmicotone che mirano all’essenza e creano una catarsi intellettiva pronta a sfuggirci tra le mani, in un ambizioso testa a testa con ciò che ci sta attorno, passando da Laura Palmer di Twin Peaks fino a Breaking Bad, inglobando Scarface e Gola Profonda, tra Fight Club e innumerevoli costruzioni parallele che fanno da centrale esistenziale per nuovi e radiosi futuri.

Qui però vince la tenebra che si apre a canzoni di pochi minuti che vogliono dare un senso all’apatia di ogni giorno, tanta voglia di emanciparsi e il bisogno costante di essere qualcuno nel panorama della musica italiana; i Nervovago riescono nell’intento unendo la forza sonora all’importanza dei testi, mai tralasciati, mai lasciati al caso in una poesia post moderna che dona luce nel cuore di tenebra.

The Shoplifters – Junkie Business (LaClinicaDischi)

Tuffarsi con pieno diritto negli anni’70 e autotrasportarsi con una DeLorean ai giorni nostri, intascando la prova del tempo per esplodere di energia e sudore con la musica di Rolling stones, Smiths, i più moderni Strokes passando per Clash e Stooges in un vortice che sa di polvere e stivali che calcano i palchi del mondo, tra un sapore di un tempo passato e il bisogno di definirsi in un periodo di vita che deva ancora concludersi, tra i soliti ritornelli che il rock è morto e un esigenza che si fa accoppiata vincente nel rendere l’immediatezza e l’appeal ancora di tendenza per costruire e costruirsi in un ep veloce di quattro pezzi che parte con Life is so Cynical passando per Nothing in common, I know you’re somewhere e finendo con I’m not scared to die.

Pezzi veloci e sentiti, pezzi che non lasciano scampo e fanno miracoli nella loro orecchiabilità, dando un senso maggiore al riportare in auge un genere che sembrava morto, ma che ancora può vivere grazie alle speranze dei The Shoplifters.

 

Società per l’industria del freddo – L’attesa di Rimbaud (LaClinicaDischi)

Spleen sonori che inarcano l’anima e concedono costrutti esistenziali che irrorano la mente di possibilità e lasciano spazio a deflagrazioni sonore in divenire, malinconiche composizioni in appigli dark che caratterizzano di base un’esigenza di convincere e assurdamente incidere la propria esistenza, dando un senso al quotidiano e riprendendosi l’abbandonato in pezzi che non sono propriamente freddi, ma che abbagliano di quella rara luce che si apprezza alle alte latitudini, quella luce quasi bianca, quasi eterna che non possiamo fare a meno di ammirare, tra la poesia decadente e un bisogno di fuggire da un sistema che non ci vuole protagonisti, ma relegati ai bordi, tra i ricordi del tempo che fu, costretti ad un’emancipazione che mai a nulla ci porterà.

Esigenze quindi di essere diversi, maturando quell’eternità che tanto ci manca, quell’eternità che non è raggiungimento di un mondo mistico e ideale, ma sostanza che ci libera dai mali dell’anima; in questo la Società per l’industria del freddo riesce nell’intento, tra chiaro scuri esistenziali e tanta passione per la ricerca che non finisce all’apparenza.

 

Nectarines – Maledizione (LaClinicaDischi)

Groove maledetti di rock di denuncia contaminati dal folk e stabiliti in un mondo che è teatro di innumerevoli soprusi che si fanno involontari racconti per produzioni che ci legano alla vita di tutti i giorni, tra testi diretti miranti alla sostanza e quella capacità di entrare con poesie veriste nel bisogno che possediamo di far parte di un qualcosa di più grande chiamato mondo.

Un disco che ingloba numerosi elementi e partendo dall’insoddisfazione di base, spennella dieci pezzi che sono puro compiacimento per le orecchie, tra velata ironia e pungente necessità di dare un senso alla nostra vita; noi esseri di certo non eterni alla ricerca di un’infondata benevolenza che se non parte da noi non arriverà mai.

Canzoni che danno importanza ai testi, senza però tralasciare la musicalità tra il rock dei Vampire weekend, Jesus and Mary chain passando per il nostro Gaetano e le classicità sperimentali dei Beatles, in una accozzaglia strampalata di generi che dona senso e compiutezza alla proposta, lasciando il tempo ai sogni e i sogni alla nostra mente, capace di scovare quei bisogni di condivisione che ci fanno diventare esseri umani.

Ru Fus – Ru Fus (Autoproduzione)

Assaporare il mare lontano e gridare agli dei tutta la propria furia distruttiva, in grado di alzare le maree e agitare una tempesta che permetterà solo a pochi di sopravvivere in mulinelli cadenzati e compressi, delineati e formalmente complessi, in un continuo salto temporale e piegamenti sonori che lasciano morire il giorno, lasciando posto ad una notte quieta e solitaria.

I Ru Fus sono stoner e grunge, sono ciò che è uscito dopo la maturazione dei ’90 e i primi 2000 e sono soprattutto voglia di combattere il sistema, bisogno essenziale di rivincita e rivalsa in un disco che è il concentrato di quegli anni, di un’adolescenza finita e soprattutto durata il tempo di una fiamma, lasciando alle proprie spalle strascichi di esistenzialismi e vita rubata.

I nostri intascano una prova ben suonata e ricca di atmosfera, capace di infondere coraggio e speranza, maturità allo stato cubico e potenza espressiva incamerata in undici pezzi del tutto inglobati, tra onde e affinità in grado di segnare la strada.

BabyScreamers – Voodoo Songs (Blackhouse xp)

Musica rock multiforme e sfaccettata, grande e immensa, capace di stupire per obliquità raggiunte, senza essere incasellata e condotta, stupendo e facendo stupire, portentosa sonorità che non trova mezze misure e da sprazzi di originalità non riconducibile, ma in grado di cambiare forma lungo le quattro tracce che compongono il nuovo EP della band di Ancona che dopo l’omonimo degli esordi consegna agli ascoltatori un disco di ruvido rock’n’roll sudato ed emancipato, capace di coinvolgere e allo stesso tempo di dar vita e senso ad una nuova direzione sonora.

Roberto Quercetti, Nicola Paggi e Simone Sabini frullano stili sonori in continuo divenire tra At the drive in e Stooges, tra il punk e la musica funky, dando vita ad un disco tribale di percezioni sonore completamente a proprio agio in una dimensione che va ben oltre il già sentito e si assicura un posto di inusuale veridicità nel vasto panorama della musica italiana.

Emily Sporting Club – Emily Sporting Club (NewModelLabel)

Emily Sporting Club

Tondelli, il poeta mai dimenticato, quella campagna emiliana che fa da sfondo, ma allo stesso ingloba, fagocita e rende necessaria la scoperta di nuove forme e sostanze di aggregazione, nuove forme per riuscire a dar vita alla fuga, un fuggire lontano tentando di abbattere l’ordine precostituito delle cose e concedendo nuova voce a chi la voce non l’ha avuta mai.

Un disco carico di significato questo debutto degli Emily Sporting Club, che sviscerano appieno chitarre rock con la new wave degli anni’80 tentando di far da tramite tra passato e moderno, toccando Cure, Joy Division e Area in un vortice di sensazioni che sanno molto da Offlaga per approccio e capacità espressiva; poesie crepuscolari che abbandonano il perbenismo e fanno dell’immediatezza naturale una nuova chiave per comprendere nuove e alquanto interessanti forme di sperimentazione.

Un album cupo quindi, che si fa assaporare già dalle prime note di Postoristoro fino al grande finale di Più di così (non se ne può), un lavoro che è pura emozione postmoderna che lascia da parte tutti i vezzi legati al caso concentrandosi sulla qualità raggiungibile e sulla speranza che questa musica non sia relegata e riposta soltanto sopra ad uno stereo polveroso.