CRNG – 542 Giorni (New Model Label)

La band fiorentina entra con gran merito, dopo 542 giorni di gestazione, nel grande e immenso panorama della musica italiana alternativa e soprattutto underground, confezionando un disco che sa di terra e umanità, che sa parlare e conquistare al primo ascolto, con suoni duri e diversificati che si aprono a sostanze ultraterrene nella ricerca del mood giusto che comprime qualsivoglia necessità e si espande caratteristicamente in una prova dal sapore deciso e convincente.

Sono 11 pezzi che sembrano quassi affrontare il disgusto per la società e la continua ricerca di un modo diverso di combattere l’altalenante vivere di ognuno noi, poco compreso alle volte, ma che si fa forma canzone abbracciando testi di puro impatto metafisico, che si lasciano si ad elucubrazioni in divenire, ma che ci narrano vissuti che ci accomunano; estese rimembranze di un volere terreno.

Il loro è un alternative rock che si affaccia all’atlantico, mantenendo una componente italiota che non guasta, tra Muse e Ministri, tra tocchi di wave ottanta e pre grunge con disinvoltura abbracciati dal migliore rock anni’90.

Un disco fatto di rabbia e abbandono, un disco che sa cullarti e come mare in tempesta sa mostrare la parte più minacciosa e misteriosa, quasi fosse una tormenta in cui ci troviamo investiti ogni giorno.

Boskovic – A temporary Lapse of Heaven (Autoproduzione)

Luca Bonini stupisce per scelte stilistiche che ammiccano al passato, ma che fanno sfoggio di uno stile che prende il sopravvento nella ricerca di un’unicità uscita a dismisura lungo le tracce di questo nuovo e primo disco d’esordio A temporary Lapse of Heaven.

Un disco dall’immaginario vivace che rievoca in modo naturale i fasti e le bellezze degli anni ’60 approdando ai ’70 toccando Pink Floyd e Beatles influenzando il tutto con un tocco personale e deciso già nell’apertura affidata alla strumentale Just in Town che segna l’approdo lisergico e psichedelico di Shine on you crazy diamond e della discografia più recente di Gilmour, echi di Deep Purple e The Who per far quadrare il cerchio e non concedere nessuna distrazione all’ascoltatore.

Un album che sa di storia, dieci tracce che aprono la via al cantautorato più sentito e in un certo qual modo si differenziano per grande maestria nel comporre sezioni ritmiche e arrangiamenti che danno un senso di maturità e completezza al tutto.

Un mix voluto e studiato di passato e presente, una reazione ben più grande nei confronti della vita e un senso dato alla natura che ci attrae e allo stesso tempo ci comanda, disinibita madre di tutti noi in costante cambiamento, tra un rispetto non sempre avuto e un futuro che la vuole ancora protagonista; non un disco naturalista, ma un disco che vuole bene all’umanità e per l’umanità.

I Carnival – Se non mi tengo volo (La clinica dischi)

Atmosfere meno cupe ed energia accessibile  e fruibile ad un pubblico più vasto, questo è il nuovo marchio di fabbrica de I Carnival, band nata a La Spezia nel 2013 e che porta con se gli albori di un passato notevole, che li ha visti condividere palchi prestigiosi con Gualazzi, Capovilla ed Ex Otago fra gli altri e che in qualche modo questo rincorrere un sogno li ha spinti a cercare di definirsi prima per poi ritrovare, grazie alla musica, essenza vitale, un modo semplice e più vicino, quasi pop, di arrivare alle orecchie di un pubblico sempre più ampio.

Partendo da una matrice di puro stampo rock cantato in italiano i nostri si domandano l’essenza del volo, intesa come capacità di straniarsi dalla realtà, immedesimandosi in un qualcosa che si chiama vita e invitando tutti ad aprire il proprio cuore a fare esperienze per non morire di rimpianti, per non morire ancora una volta dopo giorni passati coinvolti e lacerati da una società che ci opprime, un disco che è anche spaccato di realtà, dove qualsiasi persona nel bene o nel male può riconoscersi e dove la neutralità non esiste, anzi esiste un forte di desiderio di schierarsi prima che sia troppo tardi.

Un disco eccentrico, dalle parole mai soppesate, schiette e dirette, un album che riconferma la bravura di questa band nell’intessere trame profonde, vivendo e sperando nel quotidiano divenire umano.

Oh Lazarus – Good Times (Off Label Records)

Il corvo colpisce con il becco la tomba di un passato che non c’è più e non si spaventa davanti a queste macabre danze che vanno oltre la concezione di gotico, ma si lasciano rapire dai suoni di matrice americana, immaginando un horror western d’annata, tra le nebbie de L’insaziabile e le sconfinate praterie attorniate da ostili rocce di Ritorno a Cold Mountain, per un disco che sa di un’altra epoca, un album oscuro, nero, nel senso più cupo del termine, dove tutto non è come sembra e dove i pericoli si celano dietro l’angolo.

Questo è un disco che esce dagli schemi e gli Oh Lazarus dal classico trio si moltiplicano e danno spazio alle collaborazioni più disparate con membri dei News for Lulu, Jack La Motta, Pocket Chestnut e Dead Shrimp; un aggrovigliarsi di strumenti impolverati dal tempo che ricreano un’era e lasciano convincere l’ascoltatore grazie alle capacità straordinarie del gruppo di fare dell’immedesimazione un punto di forza sui cui scommettere e su cui sperare per un futuro diverso.

Il clarinetto si innesta all’organo e poi via via le percussioni ricreate, la chitarra resofonica, il banjo, il pianoforte: un saloon di scheletri che danzano al ritmo di questa musica che risiede nel più profondo del nostro corpo e nasconde aspirazioni volute, ricercate e mai raggiunte, Edgar Allan Poe e il suo eterno malessere interiore, che incontra la raffinatezza di Antony e la sperimentazione di qualsivoglia grande della musica contemporanea, un disco da avere e da ascoltare.

Massimo Ruberti – Armstrong (Dogana d’acqua produzioni)

Viaggi cosmici e lunari, profondità divelte e nascoste, le stelle lontane e le galassie inarrivabili fino a mutare i sogni e le maree, fino ad impreziosire i cieli con l’oscurità che avanza, che stringe e si assembla, che si deforma e ci fa capire che lassù qualcosa è diverso, qualcosa è in continua evoluzione.

Massimo Ruberti con il suo Armstrong impreziosisce l’aria che respiriamo, calcando un’elettronica di confine degna di colonna sonora bruciata al sole, tra composizioni sonore che vanno oltre gli orizzonti concessi in un mondo fatto solo di luce e buio, ombre ed energia, in un certo qual modo sostanze vitali non approssimative di una desolazione che ci appartiene.

Ascoltare questo disco è fare un viaggio verso l’inaspettato, dove ciò che consideravamo soltanto dalle immagini, si ripropone con energia tutta nuova incanalata e le forze che si oppongono ci fanno vivere, ci fanno sperare.

Infuria, infuria contro il morire della luce, ascoltiamoci dentro per capire cosa fare un giorno, là, negli orizzonti infiniti, insegniamo ai bambini il coraggio di vivere.

Nostress Netlabel

http://www.nostressnetlabel.net/

Download gratuito qui

http://www.nostressnetlabel.net/NN_LP062_10_15.html

 

Little Creatures – Some new species (Riff Records)

Le piccole creature stanno ad ascoltare, stanno ad ascoltare come va il mondo, senza chiedersi troppo, senza uno scopo preciso, ma utilizzando tutta la propria forza ed energia per dare vita a qualcosa di fantastico e insuperabile, ricco di colori e di sfumature, un arcobaleno in musica che si immagina tra cavalcate acustiche e arpeggi infiniti, una sostanza calda e accogliente, portatrice dei giorni e del nostro futuro.

Le piccole creature sono piene di vita quindi e soprattutto amano alla follia la sperimentazione sonora, intrapresa a tal punto da far confluire nuove leve all’interno del progetto: Simone Berrini e Luca Gambacorta.

Un miscuglio omogeneo di world music che abbraccia il folk e il pop generando una sorta di stile difficile da incasellare, anche se nelle otto tracce del disco possiamo incontrate echi e rimandi di Honeybird & The Birdies su tutti e quella sperimentazione così cara a Bjork che rende il tutto imprevedibile e di ampie vedute.

Un disco egregio in tutte le sue forme, spaziale e cosmico e così terreno, che sembra quasi di toccare un qualcosa di così lontano e inarrivabile, senza però chiedersi il dove si andrà, senza chiedersi se quello che ascoltiamo è reale o fantasia e soprattutto senza alzarci dalla terra su cui siamo appoggiati.

Dap – Resonances (Toto Sound Records)

E’ il suono del bosco, il suono delle foglie secche autunnali i colori giallo e arancione che si fondono fino a creare il marrone della terra, alberi come casse di risonanze in una continua ricerca di se stessi e dell’amore, tra poesia crepuscolare e odi cantate a squarciagola dove l’effimero e il vuoto si mettono da parte e come per magia i luoghi in capo al mondo non sono mai stati così vicini.

Questo è folk con la F maiuscola, dentro a questo disco c’è tutto il For Emma di Bon Iver e molto molto altro di più, c’è Bonnie Billy e tutta quell’attitudine intimista e introspettiva che si dipana tra ambiente circostante e nuovi orizzonti da scoprire.

Un disco che già dal packaging nasconde qualcosa di eccezionale, una cover che di per se è anche un portafoto, 8 polaroid all’interno che possono essere scambiate, a fermare un attimo, a raccontare per immagini quando non bastano le parole.

Qui però di parole ce ne sono eccome e c’è tanta capacità espressiva; partendo dalla voce per poi via via ad arrivare fino alla chitarra, nove tracce che sono le istantanee della vita, nove tracce che aprono con Crossroads, l’incrocio di strada, passando per una delle più belle canzoni mai ascoltate Stromboli, per finire con Pearl, eleganza fatta in musica.

Andrea D’Apolito in arte DAP, rende omaggio con questo disco ai grandi cantautori internazionali, ma lo fa in un modo tutto suo, espresso sinceramente, quasi fosse l’ultima parola prima del saluto finale, l’ultimo respiro prima del tramonto del sole.

Slobber Pup – Pole Axe (RareNoiseRecords)

Il cucciolo bavoso è tornato, il cucciolo bavaso ritorna per essere coccolato, il cucciolo bavoso stupisce e disintegra.

I soliti e noti artisti di sempre Jamie Saft all’organo e alle tastiere, Joe Morris alla chitarra, Balazs Pandi alla batteria e Mats Gustafsson al sax.

Free jazz in pillole e indorato, Charles Mingus, Sun Ra pionieri di un genere sempre alla ricerca e alla scoperta, parole in libertà che si trasformano in suoni potenti, eclettici, disturbanti, ti fanno, muovere la testa e non pensare, ti fanno attrarre per poi scomparire di nuovo, in velocità stratosferica, un Marinetti futurista in musica, la lotta della musica alla mercificazione, la lotta della musica alla produzione, di massa, lasciando spazio alle incursioni non dettate dalla logica, ma in mani sapienti trasformate e lontane, le luci della ribalta ottenebrate dalla purezza in divenire.

Un disco che è pieno sfogo personale, è un qualcosa di sincero che si porta dentro, senza se e senza ma, debitori un po’ di un passato, ma in profondità scopritori del futuro.

 

Quiver with Joy – Ghost (Autoproduzione)

Musica nuova e lontana da ogni genere, musica che parla di tenebre e oscurità, musica che parla di presenze e si concentra nel creare un’alternativa tangibile ai suoni conosciuti e disincantati che ci accompagnano ogni giorno, loro sono i Quiver with Joy e grazie al loro fantasma hanno saputo fondere diverse ambientazioni sonore per dare vita al tramonto di una musica per troppo tempo sentita creando sonorità alquanto dilatate e ben distribuite, influenzate da una poetica a tratti minimale e sincera a tratti introspettiva e incanalata verso una precisa direzione.

Il cantautorato di Rufus Wainwright si sposa con le melodie nordiche, incontra Persian Pelican e si concede all’elaborazione di quanto imparato nel corso del tempo, amalgamando, unendo e creando nuove forme di poesia crepuscolare, parafrasando Foscolo, tra ballate funebri e ricordi che si fanno vivi, rimpianti tanti e futuro incerto.

La presenza del polistrumentista Vincenzo Vasi già, tra gli altri, con Vinicio Capossela e Mike Patton, rende maggiore il tocco e l’effetto d’atmosfera creato, sottolineando l’importanza di una band che è alla ricerca di una prova fuori dal coro e allo stesso tempo crocevia di rimandi al passato e alle vibrazioni future.

Ottima disco, generosamente sentito e apprezzato; lungo però è ancora il cammino, anche se con queste premesse il futuro è nelle loro mani.

Uto – AnimaliDaSalvare (Warning Records)

Gli Animali da salvare siamo noi che viviamo la vita, senza farci troppe domande, senza porci un’idea di quesito importante, per essere ogni tanto migliori di quello che siamo; per fortuna ci pensano gli Uto ad avvolgere i nostri ricordi in sogni rock e velleità punk che a dismisura riempiono le loro canzoni con parole mai banali, anzi sentite e vissute, di quei vissuti che non possiamo scordare o tantomeno farne a meno.

Animali da salvare è un disco pieno nel vero senso del termine, è un disco che si apre e ci apre alla realtà e non risparmia nessuno, le canzoni sono una marea continua che ci travolge e ci consente di avere un’idea costante dei cambiamenti umorali in grado di cogliere anche le più piccole sfumature.

Dopo aver lavorato, ad intermittenza, per otto lunghi anni al loro disco, decidono di gettare tutto nel cestino e cambiare, dando un’impronta più diretta al nuovo tutto, senza fronzoli elettronici che li caratterizzavano in partenza per dare vita ad un progetto che per immediatezza si rifà alla migliore musica degli anni ’90 italiana e straniera, dai CCCP ai Radiohead, passando per Marlene Kuntz su tutti.

La band ternana da il meglio di se in queste dieci tracce che si aprono con Squali passando per il capolavoro sonoro, oltre ogni aspettativa di Pittore Minore, passando per la ferrettiana La conta dei danni e poi via via tra Anna è a Berlino e Primavera.

Un disco di cambiamenti, un disco maturo e notevole sotto ogni punto di vista; è qui che le parole acquisiscono importanza, è qui che la poetica in divenire fa la differenza.