Erica Romeo – White Fever (Autoproduzione)

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Elettro rock dalle venature folk impreziosite da gemme artistiche che trasportano volontà e aspirazioni in un contorcersi di vibranti armonie cantate in inglese che si fanno ricordare e accennano all’oltreoceano come fosse pane quotidiano, un incalzare, un innalzarsi di quota  per raggiungere vertiginose altezze.

Un piccolo ep, un concept album che racconta e getta le basi per una solidità da mantenersi in futuro, un ritmo importante, ambientazioni elettroniche che portano a raccontare di un uomo bianco febbricitante nel distruggere tutto il mondo attorno, questo in White Fever per poi passare a Secret nel riscoprire la vita partendo dagli occhi di un bambino, un innocente visione del mondo fatto di ricordi su cui ancora sperare.

Graduate Shadings parla di un amore malato, un amore da cui non ci si può staccare e imperterriti si tenta giorno dopo giorno di creare la vita dove qualcosa di fondo manca ed è assente, via via che il disco si apre lascia spazio alla ballata Bonnie e Clyde e al singolo Little corner dove qui l’amore ritorna sottoforma di albero vitale che da frutti rigogliosi.

Nel finale Secret Reprise: un’infanzia che non vuole finire.

Un disco che è un puzzle emotivo, un album che raccoglie dei vissuti e li consegna all’ascoltatore come fossero petali di un fiore, quel fiore che ci appartiene e che tentiamo giorno dopo giorno di far sopravvivere.

 

Didie Caria – Primo Tempo (MeatBeat Records)

La voce importante, la voce come veicolo di emozioni, la voce che racconta un mondo fantastico e onirico, un mondo dove illusione e realtà si intersecano per creare e generare una fantasia immortale capace di suscitare nell’ascoltatore un universo nuovo dove gli strumenti musicali sono accantonati per immergersi totalmente in un quadro dipinto soltanto da parti vocali e dove i minimali tappeti sonori fanno da sfondo alla storia narrata, al vissuto e all’ispirazione, opere immortali che non passano inosservate: Il piccolo principe, Le città invisibili, Il deserto dei Tartari, L’antigone, Alla ricerca del tempo perduto, il Macbeth in un lungo crescendo di citazioni che abbracciano il teatro, il recitato, quello stare su di un palco e percepire l’odore delle tavole di legno e della polvere che si alza ad ogni nostro passo come in un’istante, come fosse musica quello che vediamo e che percepiamo, la decadenza dei colori e il trionfo della natura, gradazioni colpevoli di un nome da far rimanere nella storia, un’esigenza, questa, di far estrapolare il meglio dal nulla che avanza, in un’alternanza di R&B che colpisce per innovazione, sperimentando qualcosa di raramente ascoltato, maturo e pronto all’apoteosi finale, dove il cielo si fa più oscuro, i fulmini illuminano la notte e in un crescendo sensoriale vediamo la nostra barca, in un quadro di Magritte, lì persa nel mare burrascoso in cerca di un faro, in cerca di una nuova luce che insegni la via.

David Ragghianti – Portland (Caipira Records/Musica Distesa)

David Ragghianti è un cantautore disteso su di un prato notturno ad ascoltare le cicale e a guardare le lucciole addentrarsi nella notte più scura, aspettando l’alba, tra il crepuscolo che ci possiede e scompare vibrante lasciando spazio alla luce, al colore dominante, un ritornare all’essenza partendo dal giorno, l’inizio di tutto, l’inizio nostro che ci appare in una splendida visione giovanile.

Un disco di cantautorato puro, pochi se ne ascoltano ai giorni nostri, di matrice deandreiana, ma allo stesso tempo racchiuso da tesi post moderni che raccontano vie di fuga necessarie, quasi a raccogliere l’eredità di un tempo migliore e lasciarla li perduta a incanalare i semi più pregiati, per migliorarsi e per migliorare la nostra vita.

Portland è un disco sul ricordo, è un disco di racconti, cesellati dalla perfezione musicale di Giuliano Dottori che lo si vede alla produzione artistica e alla cura dei suoni con interventi di chitarre, pianoforte, mandolino, percussioni e batteria, a completare il tutto la presenza di Mattia Pittella, Nico Turner, Mauro Sansone e Neith Pincelli; un gruppo capace di creare piccoli capolavori d’arte senza mai osare troppo, arrangiamenti raffinati, concisi, abbandonando lo sfarzo di una belle époque e abbracciando la tradizione che vive nel contemporaneo.

I prati che cercavo riassume egregiamente il pensiero principale per poi spingerci in cerca di Amsterdam, Dove Conduci il movimento dei brani legati da un filo invisibile che li accomuna e poi via via la bellezza nel Tema del filo che ci accompagna a Pause estive e 300 anni, per concludere con gli applausi di Raffiche di fuga a raccontarci che forse domani ci sarà neve e ci saranno strade da sistemare, cose da riporre al proprio posto, persone da cambiare.

Ecco allora che il suono si fa ancora più accogliente, infantile racconto naif di un’epoca che fu lontana, tra il trascorrere delle giornate, giocando a palla, la semplicità della vita, quel campo lungo cinematografico su distese di prati infiniti.