The Stash Raiders – Apocalyptipop (Hopeful Monsters)

Un disco folle per una band di folli, un’avventura tra la foresta amazzonica in cerca di tesori lontani e nascosti, capaci di cambiare il corso delle nostre esistenze in modo emblematico e duraturo.

Un disco analogico, che suona d’antico, ma che ha tutte le carte in regola per sfondare e creare una propria via personale di interpretazione musicale, un rincorrersi tra la fitta vegetazione a riscoprire le radici di ognuno di Noi.

Si perché i nostri con questo disco dichiaratamente pop si innestano abbattendo edifici inutili lasciando il verde come colore predominante, a sancire una commistione tra uomo e natura che fa parte di una visione in cui la madre terra gioca un ruolo dominante e dove l’insieme di generi diversi, dato dal background di tutti i musicisti, dona alla prova un sapore d’innovazione e sperimentazione.

Non sono incasellabili in nessun categoria i catanesi The Stash Raiders, anche se strizzano l’occhio a composizioni che si rifanno a Honeybird & The Birdies su tutti, dando un senso maggiore alla prova che si divide tra la scoperta dello spazio e giù giù fino all’interno della nostra terra.

Fresco e genuino questo disco ci accompagnerà lungo l’estate che avanza, abbandonando la superficialità in nome di una qualità che mescola fantasia e grande capacità d’insieme.

 

Alice Tambourine Lover – Like a Rose (GDRecords)

Cantautorato d’altri tempi che si fa respiro internazionale tra gli anfratti dell’isola di Wight, tra la terra dei fiori umani che lanciavano messaggi di pace e comprensioni sonore che si accontentano di rimembranze acustiche, stilisticamente convogliate in un leggiadro passare di petalo in petalo.

Una foto d’altri tempi, una foto in bianco e nero, una cornice e la semplicità nella bellezza, la bellezza nella semplicità, che ha segnato un’epoca, che ha segnato il cammino lungo scoscese opere di misericordia e naturalezza conclamata, ma non esibita, un essere naturale che si fa scovare come perla oceanica là, nei profondi abissi.

Alice tambourine lover è tutto questo e Like a rose ne è l’esemplificazione più facile e intuitiva per entrare nell’universo del duo bolognese, capace di prodezze leggere tra sognanti melodie anni ’70 che non disprezzano acustici più moderni, Kings of Convenience su tutti.

E’ un disco che si fa ascoltare, un album di racconti segnati sulla carta indelebile, pieno di ricordi e personificazioni, parti inevitabili di noi che vanno a ricadere sul futuro che verrà.

Otto tracce delicate che parlano di introspezione malinconica e di forte coraggio, quel coraggio di presentarsi ad un pubblico con uno strumento acustico, senza far troppo rumore e facendo della scoperta collettiva un ponte tra passato e futuro, che non rinnega le proprie origini, ma che distoglie lo sguardo verso il troppo inutile che ci coinvolge, per ritornare all’essenza delle cose.

La Suerte – L’Origine (Discipline)

Cantautorato d’ampio respiro che parla inevitabilmente di tutto il mondo che ci gira attorno, soffermandosi su fatti e impressioni, capaci di destare un lampo di genio illuminato, un chiedersi dove sta il confine delle nostre scelte, un domandarsi da dove arriviamo e capire la nostra origine e soprattutto capire il futuro in una società complessa e individualista come la nostra.

Nascere, venire al mondo, si cita già Courbet nella copertina, emblema di nascita e rinascita che si scontra con la quotidianità che tante volte ci vede incarcerati in un qualcosa che ci sta stretto, noi esseri umani, dalle forti aspirazioni che scegliamo unicamente il nostro destino dalle azioni che svolgiamo.

E’ un cantautorato impegnato quello dei La Suerte, lo si comprende sin dalle prime battute de l’Origine, piccolo EP di 4 canzoni che anticipa l’uscita del disco che vedrà la luce nell’autunno di quest’anno.

Quattro pezzi in divenire che si domandano, mescolando il rock alle note più caraibiche in una commistione alquanto inusuale, segnando un territorio ben preciso da seguire, in nome di un’originalità che incrocia Nick Cave a David Byrne, passando per Graziani e Veloso, un equilibrio tra strumenti e voce che ammalia e colpisce.

Piccola chicca di anticipazione ben riuscita che ci fa star qui ad aspettare nuovi e interessanti sviluppi.

Turkish Café – Cambio Palco (Autoproduzione)

Occidente e Oriente che si incontrano tra mercati e tra gli incensi, tra il vociare delle etnie e il canto sospinto che non ha mai fine ad impreziosire pezzi eterogenei, capaci di ammaliare ed entrare dentro al primo ascolto, in una sorta di compiutezza che si fa eleganza conturbante, senza un ordine preciso, ma il tutto è raccolto da uno scrigno di sapori e tradizioni che vanno oltre il nostro sentire.

I Turkish Café confezionano una prova che sa di mondo, che sa di freschezza, ma anche di passato, di radici lontane pronte a contaminarsi in un lungo sospiro, un cantato italiano che è pronto ad abbracciare altre culture, che si fa tessuto vivo per ogni fulgida apparizione.

Nel disco suonano decine di strumentisti, nella formula ospitale di chi sa dare un apporto sempre diverso e concreto come Erriquez della Bandabardò in un folk che incrocia una delicata elettronica e un pop ben confezionato e elegante.

12 tracce che si muovono fra numerosi territori e che non si stancano mai di cercare e incanalare le idee verso una nuova via, verso un mondo da scoprire e in qualche modo restandone contagiati, una purezza che si percepisce fin da subito con Controlla per passare velocemente al finale A Milion Years, tra saliscendi emozionali che ci abbracciano regalando energia.

Disco riuscito, grazie all’originalità che si perpetua nell’unione di più generi, una tavolozza di colori profonda, da mescolare e reinventare fino alla fine dei giorni.

Il sistema di Mel – B (Autoproduzione)

Laceranti che grazie a partenze in sordina riescono a far esplodere un inconcepibile divenire sonoro che si interseca perfettamente con la struttura portante delle canzoni, un concentrato di anfratti da dove poter spiare ogni qualsivoglia incontro per scatenarlo al suolo, furibondo e composto, incitato dal dubbio e dalla forza di voler cambiare.

Un rock alternativo suonato con stile che dirompe e esplode, che si avvinghia alla forma canzone e si fa arte gettando al suolo tutto l’inutile per trasformarlo in modo inesorabile grazie ad un Ep che convince sin dalle prime battute.

4 pezzi conturbanti, come lo sono gli stessi titoli, Mel, l’Acne, Darwin e Neve, tra cavalcate sonore in commistione di generi che prendono forza dall’internazionalità della proposta e strizzano l’occhio ad un rock originale che si immedesima con la vita di tutti i giorni, tra reale e fantastico, voluto e impossibile da raggiungere.

Un mini ep che immortala come in una fotografia la capacità della band di creare architetture personali e originali, un mix di melodia e rumore, dirompente come cascata d’acqua viva.

These Radical Sheep – Soundtrack for breakfast (Autoproduzione)

Il colore dei Beatles trasportato ai giorni nostri, quel colore allucinato e contorto che ci fa sognare, ci fa atterrare in mondi lontanissimi e ricco di proiezioni sonore, quelle proiezioni sonore che chiedono al cantautorato di andare oltre, incontrando il rock e il pop d’autore, confezionando una prova varia e autentica.

I These Radical Sheep sono una band che non bada a compromessi e ama alla follia quello che fa, nascono a Padova e decidono fin da subito di suonare un indie folk pop intelligente, contaminato certamente, ma anche carico di originalità e apporto personale, che non guasta di certo, ma che permette all’ascoltatore di entrare in modo discreto nel mondo creato appositamente dal gruppo, un mondo colorato e strampalato, che ci racconta e si fa raccontare tramite otto canzoni, otto modi diversi di svegliarsi e di vivere la mattina.

Si passa da A morning per la lucentezza di Soleada e poi via via a rincorrere il giorno lungo strade infinite in pezzi come Colors o This Life e chiudendo il cerchio con Grey.

Riportando un genere non più in auge, i nostri si relegano un posto tra gli estimatori del passato, un passato che ha messo le radici alla musica moderna e grazie a queste costruzioni sonore riesce a vivere ancora una volta, il pianoforte in primo piano e quella batteria presente, ma non invasiva, danno un senso al tutto di svogliato relax, in un continuo di capacità espressiva ben calibrata, che non sfigura, ma anzi si impossessa del tempo per farlo un po’ anche nostro.

The Hunting Dogs – Out to hunt (Autoproduzione)

Pronti per cacciare, pronti per attirare la preda a se in un’unione al cardiopalma che unisce il pop all’elettronica d’autore, costrutti che si dipanano oltre la nebbia della brughiera dando un senso al popolare e costringendo il mondo ad un ascolto, almeno una volta.

I The Hunting Dogs sono un duo anomalo nel panorama musicale italiano e grazie a questo piccolo ep ci dimostrano che la commistione di generi ci permette di ascoltare un qualcosa che va oltre il moto perpetuo in continuo movimento.

Atmosfere pop elettroniche quindi, quasi sognanti, con una voce a metà tra Morissette e Natasha Khan, passando per Bjork stupendo per varietà canora e capacità di sfidare l’impossibile, capacità di dare un senso al tutto che ci circonda tra invenzioni sonore di spiccato pregio.

Marco Germini legato alle colonne sonore e Alba Nacinovich più votata al cantautorato e al jazz si incontrano per creare una fusione di generi indissolubile, mai cervellotica, ma particolare al punto da consegnare agli ascoltatori una prova ricca di sostanza.

4 pezzi in tutto da Petrha al remix della stessa passando per l’esistenziale From Where we are e The Grapes Pt.2.

Un disco sognante, onirico e lontano, così lontano da poter essere toccato con mano.