The child of a creek/Fallen – Secrets of the moon (PSYCHONAVIGATION RECORDS)

Eccolo qui di nuovo a ricreare colonne sonore senza tempo, aggiungendo un nuovo nome enigmatico a definire il tutto in parte sospeso tra sapori di terra d’Albione musicata in sonorità cosmica degna di qualsivoglia film epocale che non stanca, ma che si fa essenza e sottofondo per i nostri viaggi interstellari.

Un sapore etereo che colpisce per freschezza contrapposizione sonora Enoiana che potrebbe benissimo concedersi di dare un senso, di dare un colore allo spazio che lo conserva, quasi fosse un messaggio da lanciare in orbita, nell’oscurità più totale, malinconie sonore e stroboscopiche relegate al nulla che avanza e che attanagliano senza delineare, ma dando un senso totale solo nell’ascolto completo dell’intera prova.

I segreti della luna noi non li conosciamo e mai forse li conosceremo, questo disco però è il mezzo che ci permette di ammirare la bellezza ignota di questo satellite, coinvolgente, dissacrante e splendido nella sua infinita grandezza.

Opera d’arte naturale che ha ispirato ed ispira poeti, scrittori e musicisti; pezzo indissolubile legato al nostro io.

Il viaggio parte e noi siamo a casa tra splendide evocazioni, fino alla fine del mondo, unico punto di partenza per vedere il tutto in un modo diverso, tra orchestrazioni Zimmeriane e savoir faire di musicista d’eccellenza.

Don Juan and the Saguaros – Don Juan and the Saguaros (Goodfellas)

Rock and Roll mescolato al country folk rincorrendo serpenti lungo le vie infinite e desertiche che rapiscono per afosità giornaliera e strati continui di calore sovrapposto, un ballo infinito lungo le strade del tempo, sotto quel sole che non ama nascondersi e che direttamente fa capolino per riscaldare eccessivamente i volti di sudore e di storia vissuta.

Don Juan assieme ai Saguaros confeziona una prova in bilico tra un Johnny Cash meno introspettivo, un Micah P Hinson in stato di grazia e il classico Dylan assieme alla The Band.

Un disco dal sapore polveroso, ma che si insinua piano piano fino a farti scordare tutto ciò che è inutile per condurti in luoghi lontani fatti di arroccamenti legnosi e  pietre lasciate scolpire dal vento, da quel vento che ha cambiato la storia ancora una volta, una sostanza fatta di libri che narrano la vita, racchiusa, riscoperta e immolata.

Un album che non si lascia dietro troppi pensieri, non si rifà ad una ricerca vera e propria, ma si fa portatore di nuovi attimi di vita rimescolando le carte in tavola di un saloon dimenticato e trasformando il già sentito in un qualcosa che affascina, porta in alto il sapore e il valore di un ballo che non vuole mai finire, su assi scomposte e ricche di spessore.

Musica quindi che rapisce dalla prima all’ultima traccia che riesce a creare un vortice sovrapposto che per metafora si accosta alla gonna della ragazza che ti è sempre piaciuta e che si lascia andare vorticosamente in una danza che non ha fine.

Walden Waltz – Eleven sons (Santeria)

Echi del bianco Beatlesiano stagnante che si concede in numerose musiche che guardano oltre in confine tra un folk che si evolve poderoso e un beat che incalza ammaliato dalla psichedelica sonda che ci fa rimanere a galla.

Luci e fulmini, tempesta in arrivo, i prati in fiore e le colline da ammirare, al crepuscolo, al calare della sera in un viaggio oltre confine, oltre il canale della Manica, oltre lo strato d’acqua profondo che separa il vecchio dal nuovo continente.

Musica personale, che parte da dentro questa, si perché i Walden Waltz non si accontentano, ma ambiscono ad una costante ricerca che non relega il passato ad un quadro da ammirare, ma fanno di loro stessi i protagonisti di un’intimità sovrana ed eterea, creando ponti , distruggendo i vecchi e soprattutto stratificando passato e futuro in una sola e grande isola.

L’isola del sorriso e le piaghe da arginare, dell’introspezione sonora che parte da accenni di acustica per sovrapporsi ai confini che già conosciamo, in dissolvenza in comprimaria eleganza dando fiato alle trombe e al  clarinetto, tirando corde di violini leggeri assaporando attimi di intimità con pianoforti che danzano sospesi.

Un disco ammiccante, leggiadro e composto per restare, per segnare ancora un volta la strada, tra occidente, fino all’estremo oriente meditativo, campane che si odono da lontano, persone inginocchiate a meditare sul tempo che verrà, persi nella notte del giorno che avrà una nuova luce.

 

Japan Suicide – We die in such a place (Unknow Pleasures Records)

Stelle che cadono al suolo e come frammenti di un’unica galassia si trasformano e lasciano intravedere un campo di battaglia cosparso dal fumo di un orizzonte lontano.

Intrappolati nella rete e in tutto questo, con sonorità in bilico e oltraggiose, tra Joy Division e tutta quella dark wave che influenzò negli anni ’80 milioni di ragazzi in tutto il mondo, i Japan Suicide raccolgono l’eredità per dimostrarla ai posteri con una certa classe ed eleganza, che non si cura soltanto dell’aspetto estetico, ma anche e soprattutto dei contenuti.

We die in such a place è un disco che ama raccontare storie viste da una finestra lontana, storie di un’oscurità lacerante che si immedesima con un mondo in continua contrapposizione con le nostre speranze, con i nostri sogni di libertà.

Ecco allora che la band di Terni si concede di entrare prepotentemente nella mente di chi con inquietudine vive una vita di privazioni, un modo per essere veri narrando lo stato di disagio e le apparenze che ingoiano inesorabili ancora una volta.

Il basso in primo piano per un cantato che si evolve da lontano porta i cinque ad una commistione che si esplica in modo esemplare lungo le dieci tracce del disco dalla vergogna di Shame alla follia esistenziale in I don’t exist.

Un disco cupo, ammaliante, direttamente da un’altra epoca, fatta però di menti che sanno sognare.