Immerso nei prati notturni… (Nova sui prati notturni Paris 1971, Opera mutante # 1 Reloaded, Holodomor, Frank)

Recensire attimi di splendore non è cosa da tutti e nemmeno il pensiero di una galassia distante può comprendere opere che potrebbero essere incomprensibili a detta di alcuni, ma che riempiono in modo esemplare la mente di chi ascolta purista o meno che sia.

C’è un gruppo in provincia di Vicenza che da anni ormai confeziona presenze spettacolari nel ricreare un universo di suoni udibili solo dagli occhi, che intrappola immagini e le riconsegna in formato multicolor, a riempire giorni e a dare speranza.

Partiamo con i lavori un po’ più vecchi, quasi più personali e meno immediati: Paris 1971.

Il lavoro inizialmente chiamato Le soleil quitte ces bords diventata Le soleil Paris e in qualche modo è un’opera completa dedicata alla vita del poeta Rimbaud che man mano si allarga ad abbracciare pensiero, forma e sostanza dell’altro poeta in rock maledetto Jim Morrison.

Otto tracce che si perdono nella rarefazione del momento, del singolo istante che mantengono una quiete costante a ritrovar il sole perduto oltre le nubi grigie e inspessite dallo scorrere dei giorni.

Si cita la polanskiana Tate e la doppia percezione è un intrigo da rimanere assuefatti e contagiati.

Un disco che parla di vita e di morte, glorie e idee vanificate che incanalano delusioni, ma aprono le strade a: Opera Mutante # 1.

nspn+tomatokubiko_frontQui entriamo nel mondo dei Nova e di come io li ho conosciuti.

Possiamo parlare tranquillamente di colonna sonora Lynchiana dove a dirigere il tutto troviamo il Badalamenti di Twin Peaks che con 50 minuti scarsi, divisi in due suite sonore, ci accompagna in campo aperto, dove strutture si intersecano a rilevazioni ambientali tra collaborazioni con l’artista visivo Stefano Bertoncello e lo sperimentatore elettronico digitale Sergio Volpato.

Poesie sonore quindi per paesaggi desertici dove la percezione si fa sostanza solo nel ritrovamento del proprio essere a raccoglier stelle in notti chiare, con parole che non esistono e che a poco servirebbero per raccontare la desolante bellezza di queste composizioni.

La persistenza della memoria nel Dalì pittore tra la campagna vicentina.

I paesaggi si fanno poi meno onirici toccando una realtà tangibile e concreta, fatta di miserie e carestie, dove il legame alla terra e al mondo contadino e rurale è ben rappresentato in Holodomor Ost , colonna sonora per il film / documentario Holodomor, la memoria negata di Manuel Baldini e Fabio Ferrando.

 

Il tema portante è la grande carestia che colpì l’Ucraina nel ’32, ’33 indotta dal governo comunista di Stalin e che vide la morte di milioni di persone, raccontata in modo struggente anche nelle pagine di Igort e dei suoi Quaderni ucraini.

Un disco quindi che parla di macerie mentali, di queste case non è rimasto che un brandello di muro, e i toni si fanno oscuri e introspettivi, melmosi quasi nel raccontare il sangue e a raccontare le distese innevate coperte di corpi e di neve, incanalati dal bianco eterno inglobato da un nero solitario e disturbante.

L’approccio sonoro si caratterizza per arpeggi debitrici di gruppi minimal rock come Low su tutti, tendenti al ridondante in un eterno loop che è la vita da cui non si può sfuggire.

Per ricordare la fortuna se siamo noi a raccontarla.

Vero e proprio disco, successore del già recensito L’ultimo giorno era ieri, è Frank: parabola ascendente sul romanzo di Frankenstein di Mary Shelley che promette di oltrepassare il già sentito per fiondarsi a grande velocità in tenebrosi antri di sperimentazione barrettiana, dove la voce qui è materia viva e vera per fare entrare l’ascoltatore in un pensiero condiviso.

Code è già il senso di tutto questo, di ciò che un giorno l’essere diventerà, il pensiero dunque che si fa fisico, che interagisce e guarda, la genesi dall’elettricità per tentare di dare animo umano allo specchio che sta dentro di Noi.

E poi via a rincorrere sogni che prima o poi svaniranno con il risveglio, i colori in Seven e il finale affidato all’anamorfica Gliese 436b, tra strumentali in post new wave e raffinati finali contorti, ma incisivi e originali.

Un’altra faccia quindi della stessa medaglia, la cover bianca e quella nera, i fiori dei prati e i colori dominanti a rincorrere i Fusch di Corinto in astrazioni sonore che si propongono di immortalare per sempre un concetto.

Un gruppo che sa ascoltare il mondo che lo circonda, che passa facilmente su diversi piani, dando di volta in volta materiale da approfondire, ricercare e inglobare.

Musica quindi, che va ben oltre il significato del termine stesso, in quanto letteratura che si fa percepire in chiave moderna e dove l’essenzialità sta nella cura di ogni singolo attimo, quasi ad identificarsi in ogni parola del più bel libro mai scritto.