The Ophelia’s Nunnery – Non basta vivere (Autoproduzione)

Un pop con venature rock, fresco, cantato in italiano, fatto bene, gran bene direi, arrangiamenti curati: giovani ventenni di diversa matrice ed estrazione musicale, con speranze davanti e un futuro dai forti connotati e sicure promesse da mantenere.

Il funk abbraccia il pop e i testi, nonostante l’età, si fanno valere per maturità stilistica e genuinità, mai scontati o banali, ma alla ricerca di quel piglio alternativo che porta l’ascoltatore a riflettere senza relegare la musica a sola operetta da stuzzichini.

5 brani, di leggiadra decadenza, intrisi di pop che non scade, ma si riqualifica e rigenera attimi di pura poesia musicale, tanto da poter vantare una capacità espressiva che è difficile da coniugare e trovare in un primo disco per di più fatto da giovani leve che suonano assieme da poco più di quattro anni.

Un disco di gioie e sguazzi di colore, un disco che parla di occasioni sprecate e di muri da sormontare, di mostri nell’armadio e di gioie nel guardare il sole anche nei momenti più bui.

Un album che pone la prima pietra nel cammino di questi giovani, con la speranza sempre presente di compiere il primo salto, una strada di certo in salita, ma che i nostri avranno la capacità di affrontare e soprattutto di vivere.

Emiliano Mazzoni – Cosa ti sciupa (Gutenberg Records)

Canzoni tirate, che si conficcano nella carne, un pianoforte malato che racconta storie di vita, perlopiù di amori fragili, nascosti e lontani.

Una commistione tra un giovane Tom Waits ricco di felicità sperata e il Bubola più intimo, intimista, raccolto da manciate di petali di rose che si fanno poesie.

E sono 11 le narrazioni contenute, in Cosa ti sciupa, disco dai tratti nudi e solitari, un orizzonte relegato all’impossibile, un cantastorie che si dipana tra ricerca e fortuna in un universo in continua espansione.

La voce è ricercata e mai banale e quando si tratta di comporre  questa si fa strumento e aiuto del pianoforte che Emiliano ama suonare e con cui compone ballate rock dal sapore indie e underground.

Si parla di vita, di morte, di fallimenti e fortune, sottolineando che quest’ultima è e deve essere una continua ricerca volta alla gratificazione; ma si parla anche di un costruire, di un comporre vite in modo delicato, quasi gelosamente nascosto; un mondo in cui la speranza è necessità e coerenza, abbandono e a tratti follia.

I pezzi scivolano inesorabili: meraviglie iniziali con Canzone di Bellezza per poi passare alle atmosfere di inconscia leggerezza di Un’altra fuga, lanciando percorsi serali in Non lasciarmi e lasciandoci al finale con Non rivedrò nessuno, ricordando il miglior Dino Fumaretto.

Liriche compresse, a volte lisergiche, sperimentazioni sonore curvilinee, incorniciate da racconti senza un tempo e senza una fine, ed è proprio questo il punto di forza dell’album: la mancanza di una matrice spazio/temporale in cui inserire le parole, che così facendo entrano in un contesto più ampio, onirico e oggettivo: un’immedesimazione soggettiva che va al di là del contesto vissuto.