Siamo di fronte ad un progetto che guarda al miracoloso con un certo piglio e autorevolezza di chi solo si ritiene capace di manipolare i suoni in modo perfettamente maniacale.
Si perché di sovente sentiamo progetti supportati da matrice post-rock- emotion anche se a ben sentire questa volta il polistrumentista umbro Giulio Ronconi riesce a riaccendere le speranze in un’Italia forse omologata all’incedere quotidiano dei mass media e dei radical chic da aperitivo.
L’album è un insieme di suoni in feedback che si alternano talvolta ad un cantato filtrato che ricorda il Jonsi più meditativo e gli Air di Talkie Walkie.
In questi 10 intensi brani, sintetizzatori si alternano a batterie in lontananza, poche chitarre e tanti suoni ultraterreni che fanno compiere giri vorticosi in universi infiniti.
Ascoltare Hey Saturday sun è come accomodarsi all’interno di un bosco, sulle foglie appena cadute e osservare l’intorno che evolve in poco più di mezz’ora: il sole filtra appena e le stagioni fanno capolino in un unico libro aperto chiamato natura.
Sorprende il tutto per scelta stilistica e suoni che si imprimono in modo notevole in pezzi come “The other city” lasciando posto ad una seconda parte del disco più movimentata da canzoni-simbolo quali “1.9.8.9” e le due “Museum of Revolution”.
Un disco da riascoltare più volte come onde fluttuanti in tiepidi lidi, gli occhiali da sole sono d’obbligo per non rischiare di rimanere abbagliati.