Malamanera – Dimmi cosa vedi (Autoproduzione)

Se devo rispondere alla domanda che da il titolo al disco, vedo tanta bella speranza utopica che converge e si apre in tutta la sua bellezza attraverso queste canzoni che danno un senso profondo al nostro esistere, fuori dai cliché di stile e implementando un pensiero che si staglia oltre le solite mete per cercare di dare un senso al tutto che ci circonda, soffermandosi sull’importanza del vivere sociale, dello stare insieme, del condividere e dello sperare. I Malamanera sono tornati con un disco emblematico per i nostri giorni, sono tornati raccontandoci un pezzo di mondo che non conosciamo o che troppe volte ci siamo dimenticati di osservare da vicino. La band toscana parla di vite, le nostre, abbandonando per certi versi la leggerezza del precedente album per concentrasi maggiormente sulla forma e sul contenuto impresso in questi pezzi in levare che si approcciano ad un cantautorato d’insieme che prende forma via via che le canzoni si susseguono, da Piccola goccia fino a Panamerikana, giocando con le parole, ma ricordando ancora una volta il bisogno di schierarsi sempre e solo da una parte: la parte migliore che possiamo intravedere in tutte le cose.

Per ulteriori info e per acquistare l’album:

https://malamanera.bandcamp.com/album/dimmi-cosa-vedi-4

Dario Ferrante – Uno (Autoproduzione/Regione Toscana)

Uno è il punto d’inizio verso strutture bianche concentriche che riaffermano uno stile volutamente minimal in bilico tra elettronica e piano crescente capace di incontrare mostri sacri dei nostri tempi intersecando i fraseggi dei nostrani Bavota e Carri per musica da film che come moto ondoso accoglie ed espelle, rotea nel vortice delle emozioni e consegna all’ascoltatore un’imprevista discesa negli anfratti più profondi della nostra anima, mite ritorno verso il punto di partenza, da dove rischiarare gli orizzonti e sentirsi capaci di decontestualizzare il momento; cubi che si trasformano e senza esitazioni ammaliano tra piano, violino, cello e quell’elettronica che conquista e rapisce, da Spleen a Youth, questo è un viaggio mirabile e desiderabile, minimamente mai rassegnato a se stesso, ma piuttosto portatore di quel desiderio di conoscere nuove e sostanziose parabole soddisfacenti, sei pezzi eterogenei esaltanti e pronti ad essere ricapitolati e riascoltati in rallentamenti cosmici che fanno da contorno al giorno che deve nascere attorno a noi.

Bastille – The National – LIVE Report – Pistoia Blues 2016 – 11/12 Luglio – Indiepercui

Qualche giorno in Toscana e beccarsi anche un paio di concerti al Pistoia Blues, non è da tutti, anzi è una fortuna consegnata in mano a pochi, una possibilità, oltretutto magnifica di viaggiare per terre dove la musica e il buon cibo sono di casa e soprattutto dove le bellezze architettoniche fanno da scenario complementare ai suoni di un palco che per l’occasione nelle serate dell’11 Luglio e del 12 Luglio ha ospitato grandi nomi del panorama musicale internazionale: i poppeggianti Bastille con in apertura i Kelevra, già band recensita su queste pagine virtuali e la sera seguente Father John Misty ad aprire per l’indie rock band americana The National.

Il centro di Pistoia ospita, quest’anno, la 37° edizione di un festival che nel corso del tempo ha saputo intensificare la proposta accontentando vari estimatori di musica, da quella più semplice e orecchiabile,  all’introspezione sonora, fuori dalle canoniche regole del mercato, cercando di avvicinare l’idea di evento a 360° atteso non solo a livello regionale, ma anche e soprattutto nazionale pensando ad un connubio tra musica e arte che solo pochi Paesi nel mondo si possono permettere.

Kelevra – Bastille 11 Luglio 2016 – Pistoia Blues

Serata calda, troppo calda, arriviamo con l’auto, si parcheggia al Cellini, comodo parcheggio ad 1 km dal centro, il tempo per ritirare i pass e mangiare qualcosa e ci fiondiamo nell’area concerti, testa a sbirciare la piazza e con non troppa sorpresa migliaia di adolescenti pronte ad ammirare la band del singolo strappa cori Pompeii.

Ad aprire i Kelevra con il loro pop trascinante e sintetizzato, congegnale alla serata, ma non troppo, in quanto carico di testi mai banali e una capacità di stare sul palco, direi invidiabile per una band così giovane e assetata di futuro da assaporare.

Ore 22.00 salgono i Bastille, band londinese che si è imposta nel corso degli anni grazie a fortunati singoli e pronta a sfornare, quest’autunno, un nuovo disco dal titolo Wild world, che grazie a canzoni di facile appeal, già ascoltate nel live, si dimostrerà capace, senza ombra di dubbio, di farsi strada tra i nuovi tormentoni del momento.

Il set sul palco comprende un efficace schermo dove le proiezioni di ottima fattura scorrono in loop emozionando la platea di giovani e agguerrite fan che si lanciano nei classici: sei bellissimo e we love you dedicati al frontman, tra selfie all’ultimo grido e canzoni cantate a memoria. Musicalmente i nostri sanno il fatto loro, una scaletta breve, un’ora e trenta di concerto, ma allo stesso tempo tirata a dovere, dove classici pezzi come Bad Blood, Laura Palmer e Things we lost in fire sono alternati dalla cover di TLC, No scrubs e da una Of the night, cover di Corona, presente nel loro primo album e suonata nel finale a preannunciare una perfetta Pompeii per un concerto per così dire radiofonico, senza imperfezioni, il disco tale e quale per come si presenta senza aggiungere nulla di nuovo ad una dimensione live che meriterebbe però di essere ampliata.

Is this the reeboks or the nike no cioè This is the rhythm of the night e si torna a casa canticchiando.

 

Setlist Bastille

Bad Blood / Laura Palmer  / Send Them Off / Things We Lost in the Fire / These Streets /Blame / Overjoyed / Weight of Living, Pt. II / No Scrubs (cover TLC) / The Currents / Good Grief / Flaws / Oblivion / Laughter Lines / Lesser Of 2 Evils / Icarus / The Draw / Of the Night / Pompeii.

Father John Misty – The National 12 Luglio 2016 – Pistoia Blues

Ben altro livello musicale la sera seguente, dove a calcare il palco del Pistoia Blues, troviamo due tra le più rappresentative band americane in circolazione, entrambe di passaggio in Italia, Father John Misty per un set anticipato, conteso ed elettrico, spruzzato dal folk e dal blues, in un itinerario complesso di musica targata ’70, ma proiettata al futuro, un fascino indiscutibile e una capacità che si consuma e rinasce, che si apre e si chiude tra pezzi come When you’re smiling and astride me , il capolavoro Bored in the USA, passando per le perle di True affection e il finale di Ideal husband, il pubblico è numeroso, molto numeroso, risponde e si sente, ad incrementare il calore già presente nell’aria.

Puntuali alle 21.30 i The National, spigolosi e concentrici lasciano la grandezza della loro carriera alle spalle per consumarsi in un live di due ore commosso e sentito, visibilmente fragile e dimesso, con Matt Berninger che cammina grattandosi la testa sul palco, pensando, riflettendo, in una narrazione musicale che strappa applausi sinceri, un’unica data nel nostro Paese che ha tutto il sapore della magia e delle cose migliori, gavetta e riconoscimenti, sudore e adrenalina, tra canzoni tratte dai numerosi dischi alle spalle e altre attraenti novità, fino alla fine, fino al bagno tra la folla con Terrible love e poi ancora in acustico l’ultima indissolubile Vanderlyle crybaby geeks, con tutto il pubblico di Pistoia a cantare nel lasciare la propria casa, cambiare nome e vivere la propria vita da soli; un live che porta con sé il sapore di un altro tempo per una band più commossa di noi nel partecipare a tutto questo splendore.

Oggi si scollina per la Porretana, da Pistoia fino a Bologna e poi autostrada fino a casa, qui nell’Alto vicentino; salendo la cima del colle, ogni tanto giro la testa e guardo Pistoia che si rimpicciolisce ai miei occhi, fino a diventare un piccolo puntino, sorrido.

Father John Misty Setlist
Hollywood forever cemetery sings / When you’re smiling and astride me / Only son of the ladiesman / Nothing good ever happens at the goddamn thirsty crow / Chateau Lobby #4 (in C for two virgins) / Bored in the USA / Holy shit / True affection / I’m writing a novel / I love you, honeybear / Ideal husband

The National Setlist
Dont swallow the cap / I should live in salt / Sea of love / Bloodbuzz ohio / Sometimes I don’t think  / The day I die / Hard to find / Peggy-o (Grateful Dead cover) / Afraid of everyone / Squalor Victoria / I need my girl / This is the last time / Find a way / The lights / Slow show / Pink rabbits / England / Graceless / Fake empire / About today

Encore

I’m gonna keep you / Mr November / Terrible love / Vanderlyle crybaby geeks

Foto: Gabriele Acerboni / Marta Colombo

Testi: Marco Zordan

Bifolchi – Mi fai schifo ma ti amo (Audioglobe)

Si raccontano le storie di tutti i i giorni in questo disco e le contraddizioni di una società malata, il dare e il ricevere e la nostra capacità che si esemplifica in un’incomunicabilità che porta l’individuo sempre più ad isolarsi con i mezzi di non comunicazione, facendolo sentire come dentro ad una gabbia priva di vie di fuga e lontano da una scelta, in primis, di condivisione futura.

I Bifolchi al loro secondo lavoro, dopo solo un anno dal precedente Diario di un vecchio porco, ci regalano un disco immediato e sicuramente riuscito, formato da canzoni scritte durante il tour precedente e spruzzate di quell’energia contagiosa che fa ballare, divertire e pensare, una capacità quasi istintiva di entrare in comunione con l’ascoltatore, allacciando i legami, i rapporti e valorizzando il minimo gesto per essere sicuri delle proprie capacità e dei propri risultati.

Un album che vede la partecipazione di molti musicisti della scena maremmana/livornese da Francesco Ceri dei I matti delle Giuncaie a Fabrizio Pocci fino a membri dei Malamanera passando per Lelio e Davide Michelini dei 21 grammi per arrivare a Riccardo Nucci de La bottega del ciarlatano.

Sono otto tracce che vanno in controtendenza con il messaggio ironico e volutamente sarcastico del titolo del disco, una comunicazione esemplificata alla realtà, quella dei Bifolchi, che dona condivisione e richiede bellezza e sostanza, un’unione che fa la forza è proprio il caso di dire, un’unione che rende più semplice la realizzazione dei sogni migliori.

Gonzaga – Tutto è guerra (Autoproduzione)

Gonzaga è un nome che suona bene, vuoi per il legame diretto con un qualcosa del passato che fu e vuoi per un’assonanza con qualcosa di famigliare, che ti è vicino, che fa parte dell’arte nel senso più stretto del termine e che in qualche modo fa da ponte tra passato e futuro.

I nostri però non provengono da Mantova, ma dalla Toscana e fanno del rock una sorta di svolta verso la sperimentazione sonora che con gran classe direi io, si avvicina a territori indie con venature pop nella forma canzone, fatta di strutture ben definite, ma che al proprio interno racchiude una potenza devastante che stupisce per energia e capacità di creare pezzi orecchiabili che si possono amare già dal primo ascolto.

L’elettronica è usata con parsimonia, quasi fosse un lontano tappeto sonoro, le chitarre invece sono fragorose e incanalano un suono riconducibile alla band creando uno stile che sicuramente, con gli anni, diventerà marchio indelebile.

Un disco che già dal titolo fa presagire contenuti, sono rari gli artisti che possono permettersi di creare un qualcosa di esteticamente bello e convincente e associare al tutto parole taglienti che si conficcano nella carne e raccontano di un’Italia alla deriva.

Il Paese delle apparenze dove tutto è osannato e portato sul palmo di una mano, lassù in alto, in cerca di un cielo migliore, anche se poi ciò che si coglie dal disco è un’amarezza di fondo che si ascolta in pezzi memorabili come Minotauro, Tragedie annunciate, la stessa Tutto è guerra con quell’intro che ti accarezza e poi via via tra le magie fanciullesche di Abracadabra e il finale affidato a Odio tutte le parole e Niente è più come prima.

Un album che finalmente riesce a intrappolare l’energia dei Ministri con la sperimentazione dei Verdena, passando per la scena indie americana e concedendo di fatto una prova che apre le porte a molte strade; un gran disco, tra i più riusciti del 2015, augurandomi di sentire parlare ancora di loro, magari in un’Italia diversa, magari in un’Italia migliore.

 

Fabrizio Pocci e il Laboratorio – Il migliore dei mondi (VREC)

Fabrizio Pocci assieme al Laboratorio crea un disco solare, ritmato e ben congegnato per la stagione che deve arrivare, tra altalene di colori e sprazzi di vivacità contagiosa che si esprimono lungo tutte e sei le tracce che vanno a comporre l’ep.

Il quarantenne cantautore toscano confeziona una prova convincente che si imbarca verso lidi lontani e conquista per morbidezza d’approccio e sostanza da dispensare.

Tra strumenti prettamente folk: lap steel e mandolino, contrabbasso e tastiere i nostri ingaggiano un duello con il tempo che deva ancora arrivare, un duello con il quieto vivere che si fa via via sempre più complesso e poco delineato, in un avvicendarsi di forme che prendono il sopravvento tra sussulti reggae, ska e cantautorato alla vita assaporando il vento.

Un buon equilibrio quindi, che ci ricorda per spirito la Bandabardò anche se a volerla dire tutta il frontman della band toscana Erriquez si intravede alla produzione e nel cantato di Le stagioni di una vita.

Disco quindi ben studiato e riuscito, ricco di sfaccettature e di intenso savoir faire letterario.

Pensa ad una giornata di sole riscaldata attraverso un vetro che dipana le ombre e si lascia al tempo che verrà in un turbine segreto fatto di amori lontani ed esigenze da condividere in un saliscendi vorticoso legato al filo dei ricordi, pensa a canzoni strutturate in modo magistrale dove le contaminazioni sono evidenti e percepibili, pensa al contrario del buio e alle foglie mosse dall’aria: tutto questo è Fabrizio Pocci.

 

Borrkia Big Band – Squattrinato (La fattoria maldestra)

Borrkia big band è il progetto solista del mitico batterista del Maniscalco Maldestro che nella nuova proposta si cimenta con la chitarra e la voce, strumenti essenziali che fanno da apripista a tutta una serie di altri componenti preparati all’occasione, rispolverando sax e trombe in gran lustro.

Ascoltare questo album è come fare un grande tuffo nel passato in un mondo color pastello dove il rock and roll si mescola in maniera sopraffina al blues e le semiacustiche acquisiscono un valore essenziale rendendo il tutto molto swingato, un continuo vortice di canzoni che fa ballare ininterrottamente fino a tarda notte.

Questo disco non è però un semplice contenitore di note al solo scopo di intrattenere con piglio deciso l’ascoltatore, questo album è un diario di pensieri e di vita dove lettere si incrociano con vissuti, esperienze, ecco allora che pezzi come Avevo un angelo ci introducono in un mondo di sogni infranti “Hai corso già abbastanza da farmi perdere…Ed io non posso cancellare storie vissute” oppure in Fila diritto al lavoro si raccontano giorni e speranze “Ma voglio scrivere, studiare, voglio vivere…non voglio stare qui da solo a lavorare, è una storia che non posso perdere”.

Ci sono contenuti in questi pezzi, c’è un po’ di morte e tanto ritorno, un piccolo sprazzo di felicità dolente che si inerpica giorno dopo giorno, attimo dopo attimo.

Stefano Toncelli ha il pregio di aver trasformato un genere che poteva essere considerato quasi velleitario, in un qualcosa di più importante, un viaggio che è un passaggio obbligatorio, un viaggio che incorpora energia e vita, piccole chiacchiere di paese che sono radici per il nostro domani.

Lawra – Origine (RougePurple)

lawraRegalare emozioni di altri mondi lontani non è facile, soprattutto per chi si approccia alla musica indie come forma di underground commerciale e orecchiabile, pronta ad emergere nel suo splendore.

“Origine” è immergersi in forme musicali che si ascoltano in radio quotidianamente, ma selezionando una matrice del tutto originale che porta all’ascoltatore più attento  un prodotto di indubbia qualità artistica.

“Lawra” è lo pseudonimo di Laura Falcinelli, presenza Sanremese nel curriculum e artista dalla voce roca e profonda  ricca di variazioni e speranze di riscatto.

“Lawra” è anche città ghanese conosciuta per la produzione di strumenti musicali.

Ecco allora che tutto torna, quella ragazza poi divenuta donna compie un viaggio solcando i mari e portando con se tutto quello che il grande continente nero può offrire in fatto di ritmi e “good vibrations” .

Laura riesce a mescolare numerosi generi quasi ad essere lei stessa una città nella città, cosmopolita e allo stesso tempo villaggio tribale, variazione interna di soul, rap, hip hop, funky e blues con tocchi di elettronica a esaltare una base ritmica sempre  puntuale e battente.

Presente anche in collaborazioni con Jovanotti e Negrita, in questo album caratterizzato da un bel mordente, la cantante Toscana si avvale della presenza del cantante italo-congolese B.B. CICO”Z: i pezzi quindi si riempiono di suoni significativi e brani come “Welcome to my country” e “Underground soldier”   si materializzano in un groove notevole, quasi elettrizzante, a sancire un imponenente ritorno in scena.

Un disco sicuramente d’impatto, un prodotto ben costruito e pronto a concorrere con i grandi nomi della musica internazionale: partendo dalle origini, dalle cose più semplici ci si ritrova solitamente molto in alto.

The child of a creek – The earth cries blood (Seahorse recordings)

Rapiti dalla fantasia di un folk singer visionario ci accingiamo a recensire l’ultima fatica di “The child of a creek” intitolata “The earth cries blood”, quasi un concthe-child-of-a-creek_the-earth-cries-blood_1367498603ept album evocativo in cui lasciarsi andare a costanti echi e riverberi di terre lontane e dove la simpatia per gli anni ’70 è evidenziata dall’approccio prog e ricercato nei suoni e nei colori che l’album riesce ad evocare.

Il disco è composto da 11 canzoni ben strutturate, ma imprevedibili, dove anche la singola sfumatura è pensata per emozionare e lasciar posto ad un incedere vagamente Barrettiano in cui assoli elettrici psichedelici si intrecciano marcatamente a digressioni tastieristiche di archi sintetizzati e gocce di suoni a piovere dal cielo.

Il toscano Lorenzo Bracaloni nel suo quinto album in studio riscopre la passione per l’arte concettuale, l’ascetismo quasi profetico e un uso, il più disparato, ma magistrale, di strumenti digitali e fiati elettrizzati.

Questo giovane uomo esalta con coraggio la solitudine nascosta, una passeggiata su di un colle alla ricerca di se stesso e ogni incedere di passo riconduce a frammenti di memoria persa nel tempo, la quale solo attraverso parole come  abbandono e malinconia, riesce a dare un senso alla propria vita.

I pezzi rispecchiano appieno questo viaggio ultraterreno e gli attimi di riflessione sono costituiti da vere e proprie scariche sonore che toccano l’apice in pezzi quali “Morning comes” e “Terrestre”.

Un cantautore che ha scelto la propria via sofisticata, ma che in chiave live è in grado di creare bucoliche atmosfere utilizzando la sola voce e la sola chitarra, quest’ultime capaci di mantenere quell’equilibrio nel pensiero e nell’animo, accompagnandolo verso lo scorrere leggero dei giorni che verranno. Rapiti.

 

Granprogetto – La cena del bestione (Millesseidischi)

Se prima si chiamavano “La camera migliore” ora si sono trasformati in “Granprogetto”, regalando all’ascoltatore nuvole fantasmagoriche di disequilibri quotidiani.

I 3 toscani confezigranprogettoonano 13 canzoni di immacolata intenzione dove conglobano pensieri moderni e ossessivi legati al quotidiano triste vivere tra appalti e falsari porta a porta che volendo si specchiano su una totalità catastrofica dal nome Italia.

Questi ragazzi si cimentano con gli strumenti più disparati: dai classici basso, chitarra e batteria passando per cembali, banjo e custodie rigide.

Marco Balducci, Francesco Fanciullacci e Davide Miano devono essere ascoltati ad alto volume, solo così la loro musica può arrivare direttamente ai circuiti neuronali passando per vie tortuose e psichedeliche dove il power rock si mescola al country e alla musica strumentale trascinando code infinite di bellezza da assaporare.

Canzoni come “Allo zoo” o “Roy Scheider” non possono passare inosservate come del resto altri pezzi dai titoli più strampalati come “Frateferroviere”.

Una prova che fa pensare al miracolo, anche perché il trio toscano meraviglia con una capacità rara di spaziare senza identificarsi in nessun genere prestabilito.

Aspetteremo l’uscita del disco il 27 maggio a cui seguirà il primo video di questo “Granprogetto”, un lavoro che fa forza su poche e semplici regole, un album che si inerpica su sentieri mai banali e di certo rigogliosi.

Per info:

https://www.facebook.com/granprogetto