-FUMETTO- Adam Tempesta – Itero Perpetuo (Eris Edizioni)


Titolo:
 Itero Perpetuo

Autori: Adam Tempesta

Casa Editrice: Eris Edizioni

Caratteristiche: brossura, sovracoperta serigrafata con colore fluorescente, 15 x 21, 408 pag., b/n

Prezzo: 18,00

ISBN: 9788898644223

 

Adam Tempesta è piovuto dal cielo e nel cielo ci fa tornare grazie ad un’opera d’esordio folgorante e sensazionale, capace di scavare nelle profondità dei nostri abissi in modo ironico e allo stesso tempo compresso, un viaggio attraverso una navicella esplosa che abbandona il tempo per crescere attraverso spazi universalmente lontani in loop continuo, precipitandosi tra le mani di una stanza vuota, per ripartire verso un viaggio che non ha meta, ma che  trova nel suo immaginato vivere, un senso finalizzato alla ricerca della propria famiglia.

Un’odissea a fumetti che ripercorre i percentili cerebrali di un personaggio guidato dall’amore, il tutto sotto la buona stella del caos allucinato e privo d’ordine, inscatolato in un ammasso vibrante di immagini mescolate al suon dell’avventura e dall’aspetto vagamente retrò che non guasta mai, anzi, la stessa rappresentazione è capace di donare leggerezza e freschezza ad un racconto illustrato che all’apparenza, dalle prime battute, risulta disunito e quasi autoreferenziale, ma che poi si apre con la velocità della luce fino ad inglobarci nel diario della vita ripercorrendo tappe esistenziali dove un umano e un pollo sembrano gli unici protagonisti del racconto, due facce della stessa medaglia, chi detta le regole del gioco e chi le subisce, chi sprofonda per trovare la via verso casa e chi, nell’ozio, muove i fili di una storia infinita.

Lisergiche ambientazioni si alternano con il vuoto spaziale, tra portali da raggiungere e moti perpetui ingannevoli, suoni inverosimili che si staccano dalla nostra mente e compiono una parabola ascendente dalla nostra testa fino al cielo; ed è proprio grazie a queste immagini che ad ogni giro di pagina, rimango sbalordito, tanta è l’innovazione, la ricerca e l’immediato raccogliere un immaginario, magari lasciato a sedimentare nella mente da tanto tempo, per poi consegnarlo sotto forma di vissuti extracorporei ed extrasensoriali.

Eris Edizioni ci regala una qualità editoriale davvero notevole, la sovra coperta, di Itero Perpetuo, ha dei disegni in rilievo che si illuminano al buio, fantastico direi, ma non basta, qui si scava in profondità e la copertina del libro è un viaggio mentale tra colori psichedelici del miglior Barrett andato, per un viaggio a riscoprire la luce e il buio, l’oscurità accecante che vede l’umano in balia di forze a cui non sa resistere, sballottato tra mondi in evoluzione, alla ricerca di una piccola particella che sia in grado di farlo tornare nuovamente a casa, almeno fino alla prossima esplosione.

Per info e per acquistare il fumetto:

http://www.erisedizioni.org/itero_perpetuo.html

Oppure qui:

Proclama – La mia migliore utopia (VREC/Audioglobe)

I Proclama si affacciano al futurismo con l’intenzione di trasportarlo dentro all’epoca della modernità, immagazzinando una capacità quasi unica ed essenziale nel fare un buon pop rock sottolineato da testi importanti che abbandonano una realtà non voluta, tentando di cambiare in modo indelebile la propria vita, lasciando da parte le mode e l’utopia della perfect life per riprendersi con presa sicura il momento in cui viviamo e consumandosi nell’ardore del raccontare cosa ci manca e per che cosa, siamo qui noi, a combattere.

Sono tredici pezzi per la band torinese attiva dal 2011, tredici pezzi che inglobano le macerie di una vita vissuta e scalciano al suolo l’immobilità del presente, un presente da vivere, un presente da assaporare e cambiare, ritornare al colore a cui siamo abituati, ritornare alla sostanziale bellezza, fuori dagli schemi precostituiti, fuori dall’edonismo sfrenato, tra convinzioni da sradicare e mete da raggiungere, tra l’iniziale e emblematica Come un film raggiungendo una Non è finita che racconta proprio di quegli occhi da riaprire per tornare a vedere finalmente i colori che ci sorprendono, per poter ritornare finalmente ancora indietro liberi, sentire in faccia il suono della vita e pensare ad un finale che non sarà mai e poi mai ineluttabile.

Circolo Lehmann – Dove nascono le balene (Libellula/Audioglobe)

Sanno parlare di posti lontani, di territori che fanno parte però del nostro vivere quotidiano, quei territori dell’anima da esplorare attraverso elucubrazioni prog che si spingono ben oltre le maree e ci lasciano con il fiato sospeso ad immortalare il momento, a segnare in modo indelebile una contaminazione che si innesta dentro al sogno psichedelico e attraverso una folata di vento, riesce a ristabilire equilibri scavando nelle passioni dei giorni perduti.

Ascoltare il Circolo Lehmann è prima di tutto fare un passo indietro, negli anni ’70 italiani, tra suite sonore che meritano più ascolti per essere interpretate, una musica che poi si proietta nei giorni nostri toccando le corde di un cantautorato alla Niccolò Fabi in divagazioni alla Paolo Beraldo con suoi Public, per passare prepotentemente ad una quiete acustica che ammalia e sincera commuove, in una ricerca stilistica dei pezzi che incontra la letteratura e il conflitto eterno tra il criptico e l’evidente in una dicotomia sogno e realtà che si respira in apnea lungo tutte le undici tracce che compongono questa piccola opera seducente, dalla bellissima e incontrastata Marlene fino a Cosa ci siamo persi a rincorrere un vuoto che ci vede protagonisti per passare ad osservare l’oceano in Dove nascono le balene, pezzo di pregevole fattura che da il nome al disco e che in qualche modo è il sunto di un pensiero a tratti oscuro e di denuncia, che si contorce nel suo abbaglio e ritorna nelle profondità degli abissi, a ristabilire una comunione d’intenti con le nostre aspirazioni future.

Suite Solaire – Rideremo (Autoproduzione)

Fuggire lontani oltre i nostri destini, oltre il nostro pensare e oltre anche a un’idea di realtà che ci siamo fatti andare bene per tutto questo tempo, un rincorrere con un salto il mondo che è sparito alle nostre spalle in cerca di nuovi appigli per poter andare avanti.

La band novarese Suite Solaire da alla luce un primo disco che parla del viaggio e parla delle mete da raggiungere come vie di fuga, è un album sul camminare lenti e osservare il paesaggio, un vivere le nostre coscienze in modo diverso, più sentito e forse reale, abbracciando un indie pop/rock che sa di Velvet e di cantautorato, tanto caro alla canzone italiana, piccoli racconti che si fanno poesia lungo gli undici brani che aprono il cammino con Un mondo di ghiaccio per arrivare al Il meglio è già passato a sancire un ulteriore sguardo verso la realtà da vivere fino in fondo, mostrando le nostre capacità e la nostra caparbietà.

Brani senza effetti sorpresa, ma lasciati cullare dalla melodia e dalle parole, sempre più essenziali in un’epoca come questa, sempre più esigenti nei confronti di chi la musica non la vive come un gioco, ma sa trarre da essa ancora spunti per ridere ancora.

Il terzo istante – La fine giustifica i mezzi (Autoproduzione)

Alternative rock in trio direttamente da Torino che apprende la lezione del tempo per rendere in modo egregio ed essenziale un affresco di questa società fatte di sogni infranti e accomunata dall’idea di fine, qui intesa come parte costruttiva del nostro vivere; i nostri ci dicono che noi abbiamo paura di qualcosa, abbiamo paura che qualcosa finisca, senza magari pensare al presente, al vivere di ogni giorno, noi essere umani ci preoccupiamo di cosa ci sarà un domani senza lottare oggi, in questo momento, senza vivere appieno le occasioni che la vita ci porta.

E’ un disco che si fa ascoltare questo e che sa costruire attorno a un disagio un vero e proprio concept su di un costrutto inusuale senza dimenticare le apparizioni di Paolo Parpaglione dei Bluebeaters degli Africa Unite al sax in Il blues del latto versato e Lucido e la voce di Sabino Pace già nei Belli cosi e Titor, nel pezzo Fenice,  un brano tiratissimo e coinvolgente tra venature hardcore e introspezione che ci richiede ascolto e attenzione in un sol fiato.

La fine giustifica i mezzi rilancia notevolmente la qualità della proposta e confeziona un disco che sa di anni ’90, di muri da abbattere e di periferie solitarie, dove ai margini c’è sempre qualcuno che vuole gridare al mondo la propria esistenza.

Andrea Fardella – Le derive della Rai (Contro Records/Macramè)

Il disco dell’emarginazione per eccellenza; siamo abituati a pensare che tutto quello che vediamo è sorto per qualche strano meccanismo che non possiamo comprendere, un album che parla della realtà in cui ci troviamo, una realtà fatta di sogni infranti, di possibilità che si tramutano in sogni e la ricerca costante di un pertugio sul muro è solo pura sensazione di vita, non quella vera, semplicemente un’idea che ci siamo fatti del nostro domani sempre più oscuro, sempre meno vero, ma purtroppo sempre più reale.

Andrea in queste tracce racconta il peso della vita, lo fa con introspezione delicata, lo fa attraverso tracce verbose alternate ad uno strumentale che si divincola dalle produzioni moderne per cercare una propria via di fuga e di rilascio costante di una nuova idea di sviluppo personale, un cantautore che ricerca la propria essenza nelle quotidianità e soprattutto nelle illusioni che la vita costantemente ci riserva.

Attore, musicista, ma anche cantautore aggiungerei, di quelli con l’anima cupa e nera, di quelli che sanno costruire impalcature sonore raccontando di un’Italia che non c’è più, partendo con La deriva della Rai fino a comprendersi in Piccino, monumentale attesa di un futuro sperato, fuori dai vincoli della tv, fuori da costrutti indegnamente precostituiti.

Arturocontromano – Pastis (Libellula/Audioglobe)

Stili diversi di musica che abbattono le barriere culturali per trasformarsi in una danza infinita incrociando cantautorato e jazz, fino a toccare la musica d’autore italiana del tempo che fu, passando per un Buscaglione modernizzato e spolverato per l’occasione, come fosse un vestito tornato di moda e incorniciato da testi taglienti e irriverenti, capaci di sfondare; pezzi per ballare si, ma pezzi che al contempo fanno pensare, perché sono essi stessi filo conduttore verso mondi di immagini che ci portiamo dentro, come ricordi lontani che affiorano e sentono il bisogno di affermarsi al pari della musica.

Loro sono gli Arturocontromano, sono di Torino e suonano dal lontano 1999, costruendo un proprio stile ricercato, partendo dal reggae fino a comprendere sonorità più folk e manouche, passando per lo swing in una ricerca estetica dal piglio alquanto sicuro e deciso.

Il loro Pastis quindi è l’incrocio di più stili, è il sudare energia, è il mondo dietro l’angolo e la voglia di partire, la valigia di cartone in mano e il bisogno, quel bisogno di emozionare sempre e comunque in un’alternativa all’alternativa; un’istantanea sfocata del tempo andato a riempire cuori, a ripercorre la via.

Noir Project – Saved (Mervilton Records)

Salvateci con la musica, unica luce di un faro sempre più lontano, unica capacità intrinseca di dare un senso alle nostre vite, alle nostre dannate vite grigie, fatte di poche soddisfazioni e distanti da tutto ciò che la televisione vuole farci percepire.

Il titolo Saved, il disco d’esordio dei giovanissimi Noir Project, sembra parlare chiaro, racchiude un pensiero importante e sentito, racchiude l’esigenza della giovane età adulta di far parte di un mondo diverso, rompere gli schemi con il passato per affezionarci maggiormente al futuro che avanza, un futuro non calato dall’alto, ma strettamente scelto, dopo anni passati ad osservare il tempo che scorreva davanti ai nostri occhi.

Dentro a questo album c’è la rabbia dell’abbandono, c’è la forza dello stoner e dell’alternative rock targato Tool e A perfect Circle per passare ad un’elettronica ricercata a toccare l’elettro rock dei Vicentini Phinx fino ad esplodere con incursioni oniriche in testi che lasciano scie di luce e sorrisi sulle labbra.

Dieci pezzi, si parte con una title track carica di adrenalina per chiudere il cerchio con la rinascita di W, un album per certi versi che raccoglie i dolori del tempo vissuto per scaricarli al suolo come fossero scosse di elettricità.

 

Fase 39 – Elettroscopia (Cosecomuni)

Elettropop convincente e ambizioso che si staglia contro i decibel degli anfratti chitarristici per dare un senso ad un’elettronica del nuovo futuro che avanza, intascando gli insegnamenti dei metà 2000 e cesellando canzone dopo canzone un sound che deve, per esigenza, farsi il più possibile penetrante e convincente, lavoro che i nostri Fase 39 compiono già da un po’, intascando questa Elettroscopia che sa di analisi del materiale posseduto fino ad ora e che è stato prontamente scomposto per essere poi assemblato in maniera del tutto sincera e al contempo originale, con cantato in italiano e approccio d’oltremanica.

Un disco completo e maturo quindi, anche se l’importanza qui data alla musica è preponderante, non ci troviamo davanti ad un cantautorato sopraffino, ma a battiti e suoni che fanno ballare, che fanno alzare in aria le mani e colpire a fondo gli ultimi fasci di luce prima dell’oscurità.

Si parte con Equilibrio dell’anima per arrivare ad Apocalittica passando per la riuscita title track d’artista in continuo viaggio verso territori inesplorati e sicuramente ricchi di soddisfazioni.

Med in itali – Si scrive Med In Itali (Libellula/Audioglobe)

Med in itali è il sudore della strada rinvigorito che in questo nuovo affronta le peripezie quotidiane con uno stile ancora più marcato e incisivo, capace di affondare in divagazioni sonore che dimostrano sempre più la bravura dei musicisti, amalgamando coscienziosamente una voce che crea un tutt’uno con l’ascoltato e l’ascoltatore.

Dodici tracce ricche di partenze e durezze, ma anche di semplicità e immediatezza un giocare a rincorrere questa dicotomia che porta ad entrare di prepotenza nel loro mondo, fatto soprattutto di storie di tutti i giorni; potenza espressiva di una denuncia italiana, potenza di parole per futuri radiosi che colpiscono grazie alla presenza di Niccolò Maffei alla voce e alla chitarra, Matteo Bessone alla batteria, Dario Scopesi al basso, Nicolò Bottasso alla tromba e al violino, al flauto e tastiere Ariel Verosto, Riccardo Sala al Sax tenore, Elia Zortea al trombone e Elena Pyera Frezet alle percussioni.

Una commistione di generi quindi, si passa facilmente e con grazia sottile dal rock al folk spruzzato il tutto da jazz, funky e reggae per un’inusuale idea di cambiamento che parte dall’utilizzo delle parti musicali per rendere ancora più reale un racconto che vale l’interezza del mondo.

Cito a dovere Eroi, un pezzo sulla disillusione, avere tutto e non avere niente, pensare di possedere qualsiasi cosa tangibile che vediamo e alla fine essere eroi è solo un modo per dire io vivo, vivo in una società che fagocita denaro e io e te dove ci collochiamo? I Med in Itali questo ce lo insegnano.