UT – Noise Deadening Barrier (MarsigliaRecords)

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Noise in putiferio che elargisce la giusta dose di inquietudine per abbattersi su di un muro di chitarre a tratti fragorose, a tratti meditative che sferzano elettricità senza chiedersi troppo e incrociando la furia dei FASK e Three Second Kiss, portando l’immediatezza in territori aspri e taglienti.

Il power trio genovese raccoglie ciò che di meglio la propria terra ha da offrire coltivando un genere che affonda le proprie radici nel post punk e nell’alternative molto lontano dalla scena mainstream, molto lontano dalla scena pop, in un vortice di incontro e scontro con le correnti oltre oceaniche, creando ponti sopra l’atlantico e atterrando con suoni ruvidi e riconoscibili.

Un disco che si fa portatore di un suono di nicchia, ma allo stesso tempo accompagnato da incedere di protesta, un mix geniale e congeniale capace di entrare in profondità e strappare gli ultimi fili d’erba alla terra, gettarla al suolo e lasciarla lì in un vuoto cosmico e siderale in un vuoto che deve essere riempito.

Ecco allora che le dieci canzoni del disco hanno proprio questo compito, quello di concedersi e riuscire nell’intento di dare personalità ad un genere, rispolverando al meglio le armi per distruggere il sistema, come scheggia che si conficca fino in fondo, come orizzonte nuovo carico di buone aspettative.

The singers – The singers (Cosecomuni)

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Succede spesso di incontrare gruppi che hanno un buon tiro, registrazioni impeccabili e andirivieni di fraseggi chitarristici da cori da stadio.

Capita però con meno frequenza di imbattersi in band con un sound maturo, seppur al secondo disco, portanti di un’energia che involontariamente esplode come fosse un modo per assistere ad un live nella poltrona di casa.

I The Singers nel loro omonimo regalano 10 canzoni di incrocio tra pop e new wave, a tratti sembra di stare dentro al film Kellyano “Donnie Darko”, altre nella colonna sonora di “Beverly Hills” o “Dawson’s Creek”, il che non ha nulla di negativo anzi il gruppo è sempre alla ricerca della canzone alternativa perfetta: orecchiabile, ma allo stesso tempo con appeal underground.

I cinque mantengono quindi le promesse, sanno cosa vogliono e lo sanno fare bene, canzoni che colpiscono sono certamente “Toronto” e “Flowers in Navona” altre ricordano invece evocativi ricordi come in “Maestro” e “Alice”.

Un miscuglio quindi eterogeneo di stili da “Spandau Ballet” a “Tears for fears”, dai più attuali o quasi Placebo alle cavalcate potenti di Nickelback.

Unica pecca dell’album a mio avviso, è che ad un certo punto le canzoni suonano un po’ tutte uguali: l’originalità nel complesso si sente eccome, un po’ meno manca la canzone che emerga in modo preponderante rispetto alle altre.

Resta comunque una bella prova, velata di rosa e conturbante quanto basta: creata per far innamorare.

Australasia – Vertebra (Immortal Frost Productions)

vertebraUna discesa nell’oscurità, poderosa cavalcata indefinita che porta il viaggiatore ad alzarsi verso porti immaginari e a spingersi verso mete ineluttabili.

Il rock strumentale prende forma con il progetto Australasia nel loro nuovo album “Vertebra”, una cura maniacale per suoni che vanno ben oltre il ristagnarsi di una melodia asfittica, anzi cedono il passo ad un susseguirsi di corse tra le nuvole dove a vincere è sempre la trovata geniale accompagnata da buon gusto per gli arrangiamenti e dalla magia lungo i dieci brani.

Quasi una colonna sonora claustrofobica dei nostri tempi che accompagna l’ascoltatore in un’immedesimazione totale con il tutto che lo circonda.

Poesia in catarsi la chiamerei, attimi di implosione come in “Aorta” pronti ad esplodere nelle trans elettriche di “Vostok” o nelle sferzate di “Zero”, per lasciar spazio all’ambient di giallo vestito di “Aura”, mentre le timbriche si alzano in “Volume” per poi rasserenarsi nella splendida title-track; “Apnea” è intermittenza ondeggiante per segnare il cammino, passando per “Deficit”, alla sublime e sensuale “Cinema”: ricordo di un tempo che non c’è più quando i baci si rubavano tra le sedie di legno e i titoli di coda erano colonna sonora per altrettanto tempo donato.

Un disco maturo e prezioso, quasi come i secondi che ogni giorno si consumano dietro a noi; ascoltare questi brani è viaggiare in un’altra dimensione, dove le parti del tutto si amalgamano creando un qualcosa di unico.

 

Nova sui prati notturni – L’ultimo giorno era ieri (Dischi obliqui – 2011)

Ed ecco dal silenzio più totale una musica che proviene da lontano e delle voci che si sovrappongono una femminile e una maschile: mai inizio fu più bello per la cover e chiamiamo la cover di “Signore delle cime” del Maestro Bepi De Marzi.

A scalare questa impervia montagna per arrivare fino alla cima sono i vicentini “Nova sui prati notturni”.

La band è all’attivo dal 2011 con Giulio Pastorello e Massimo Fontana che dopo un album completamente strumentale si avvalgono, ampliando l’organico, di Gianfranco Trappolin alle percussioni e Federica Gonzato al basso per l’esordio su “Dischi Obliqui” de “L’ultimo giorno era ieri”.

Canzoni sviscerali che creano atmosfere cupe e oniriche dove si incontrano, chiudendo gli occhi, Mars Volta e Sigur Ros, PGR e Gatto Ciliegia contro il grande freddo.

In “Oggi” poi tutto questo trova un punto d’unione, sembra quasi di ascoltare “Senza Peso” dei MK, tanto il suono è debitore del indie-rock piemontese, ma cosparso di passaggi dilatati.

“86” sembra uno sfogo alla CCCP, con un cantato urlato in lingua albanese, ma ricco di quella nostrana genuinità che ti fa dimenticare presto la band “ferrettiana”.

In “Tempo celeste” Francesco Bianconi sembra cantare questa splendida canzone con Federica, fino all’entrata della chitarra non ancora distorta, non ancora pronta a lacerare l’aria e a lasciare in cielo polvere di stelle o “Cuori di tenebra”.

“Dodiciminutieundicisecondi” è un egregio esempio di rilevazione ambientale per chitarre e bassi, suoni che ti rapiscono mentre ti fanno sudare leggerezza preparando il palato all’immersione canora di “Malkuth (il regno)”.

Con “Nova sui prati notturni” ci accingiamo alla fine di questo disco intenso che preannuncia un epilogo lucente, ma meditato con “L’orto dei veleni” canzone che parla dell’importanza, ai giorni nostri quasi perduta, della terra e dei suoi frutti.

Non è un album per tutti e per fortuna aggiungo io, sicuramente il gruppo va testato in chiave live, magari in un anfiteatro naturale tra gli alberi di una montagna dispersa che incornicia digressioni elettriche e sussurrate.

Una formula originale per una band che regala sempre novità nella ricerca musicale e una felice realtà per una provincia chiusa e poco proponsa a gruppi di questa caratura.

Marco Notari – Io? (Libellula/Audioglobe) 2011

Da Jonsi ai Sigur Ros, dai Radiohead a Thom Yorke di “The Eraser”, Marco Notari sforna un lavoro caleidoscopico, poliedrico che abbraccia una moltitudine di generi, suoni, colori.

Una copertina firmata da Tommaso Cerasuolo cantante dei Perturbazione, già presente quasi in toto nella creazione del video “Porpora” nello splendido “Babele”; penultima fatica del piemontese Notari.

Le sonorità di “Io?”, rispetto a quelle del precedente disco, sono più ricercate, non sempre immediate come possono sembrare anche perchè ci troviamo davanti ad un album ricco di influenze: dall’elettronica ambient, dal pop raffinato, al rock urlato fino ad abbracciare quella canzone d’autore tanto cara al cantautore Piemontese.

Io?” prima canzone, ritmo tribale e percussioni miste all’elettronica ottimo inizio con quel ritornello legato al tempo accompagnato da un organetto. “Un tempo per restare in due sopra al mio cuore”.

Le stelle ci cambieranno pelle”. Non ci sono presentazioni: Belle and Sebastian incontrano Afterhours e Sigur Ros.

Con la terza canzone “La terra senza l’uomo” le nostre orecchie ascoltano qualcosa di già sentito nel disco d’esordio “Oltre lo specchio”.

Dina” ballata delicata, storia di vita vissuta, xilofono e modulazioni sonore: bel connubio per un testo quasi sussurrato.

L’inizio di “Hamsik” è un omaggio al quintetto oxfordiano e anche il testo ricorda per molti versi il concetto presente in “Hail to the thief”, un affronto alla politica da carta patinata.

Io, il mio corpo e l’inconscio” altra ballata, questa volta poco incisiva e che ha quel qualcosa di già sentito, con sonorità tardo ’70.

Il settimo brano “L’invasione degli ultracorpi” cori alla Marco Notari che incontrano sonorità british e accordi e pensieri “Affamati di Camilla…”

Con “Apollo 11” siamo di nuovo nello spazio, forse la canzone più bella di tutto l’album “Ci siamo odiati, amati, fatti male, tu sei la sola cosa per cui vorrei tornare”.

“Canzone d’amore e d’anarchia” con inizio alla “Daphne Descends dei compianti “Pumpkins” di “Adore” ci fa capire che siamo ancora portatori di pensieri per lottare.

Chiusura con una reprise della prima canzone alla maniera della meraviglia sonora di “Staralfur” degli islandesi Sigur Ros. Brano strumentale che annuncia speranza nel domani.

Questo disco è un viaggio dalla terra alla luna A/R, un volo pieno di rabbia e poesia, dolore e attivismo mai inerzia e apatia. Un disco, a mio avviso non all’altezza del precedente, anche perchè meno concept e quindi meno immediato, ma che cerca di farti aggrappare ancora a qualcosa che sia portatore di cambiamento: “cambiano i colori e sono migliori”.

www.marconotari.it