Vilma – Primo (Oh!Dear Recordings)

Primo è un incontro sul ring della vita, è il bisogno di dare un pugno al mondo intorno, Primo è la montagna che cammina, quell’enormità fatta persona che racchiude al proprio interno un sogno; combattere per non cadere, combattere fino all’ultimo soffio vitale.

I Vilma sono tutto questo e confezionano un disco fatto di rimpianti e tanta rabbia racchiusa nelle note delle sette canzoni che attraversano il loro percorso, piccole citazioni, grandi conquiste, sette pezzi che si domandano se l’io poteva essere diverso, se si poteva fare qualcosa di diverso per essere migliori per cambiare.

Ecco allora il ring, metafora della vita, dove tutto accade e i colpi mancini sono all’ordine del giorno, i nostri però ci insegnano a rialzarci, tra un emo punk italiano intriso di screamo e hardcore a farla da padrone, a segnare il cammino, a consegnarci un disco di solitudine e abbandono, ricco di quella forza che sa di lotta, che sa di fierezza e di complicità, passione e bellezza da far rinascere dietro alle maschere quotidiane.

Secondo Appartamento – La minore Resistenza (Labella)

I Secondo Appartamento esplodono con le melodie della cena, le melodie di una festa dove i partecipanti raccontano lo svogliato vivere e il contribuire a percepire ogni sostanza come fosse propria senza però assaporarla attraverso messaggi di empatia e comprensione.

Ecco allora che il padrone della festa ci fa entrare in un mondo fatto di racconti anche nostri, vissuti in prima persona, tanto affascinanti quanto sentiti, tanto tesi ad essere forma mutevole e concitata di quella capacità intrinseca nel far innamorare, contribuendo a disegnare la nostra esistenza, abbandonando le scale di grigi in una quadricromia che sa di mare.

Canzoni che sanno di acqua, di pioggia e amore vissuto, sotto attimi di sconforto e pura vita elegante e coinvolgente.

I colori esplodono e vivono da Io non ho paura fino a dal Polo al Giappone per dare vita a quell’esistenza non compressa, ma condivisa, che ha molto dei maestri del cantautorato di un tempo, ha molto di quella perspicacia nello spiegare un concetto, ma allo stesso tempo si divincola, creando materia di puro, vero e sentito conforto.

Novadeaf- Carnaval (DreaminGorillaRecords)

Strumentisti mutevoli e cangianti che si inoltrano in boschi di betulle inospitali per aprire l’oscurità alla passione, incanalando energia e scoprendosi capaci di sprigionare un pensiero riconducibile a diversi strati e teorie musicali, mai ben definiti, ma che abbracciano in modo elegante e anche direi con un tocco di finezza il pop, l’elettronica e l’indie folk d’oltreoceano, tornato alla ribalta con artisti del calibro di Bon Iver senza dimenticare Micah P Hinson e Bonnie Prince Billy fra gli altri.

Un disco che ruota attorno al polistrumentista e mente della band Federico Russo che per l’occasione si dimena tra basso, chitarra, voce, tastiere ed elettronica in un connubio con gli altri membri: Matteo Quiriconi alla chitarra e Matteo Amoroso alla batteria, andando oltre la concezione di power trio e riempiendo di sovrastrutture le sonorità che di volta in volta sono lo specchio dei nostri giorni, sono l’immagine di chi crede nell’evoluzione e nella maturazione data dal tempo e da tutte le forme sonore che verranno.

Con questo album i ritmi sono colorati, cangianti; si abbandonano le buone idee del primo Humoresque, anche se più cupe e misteriose, per lasciare spazio a strade in continuo divenire, dove le ombre del passato sono solo un ricordo che per ora, se non per alcuni passaggi malinconici, è giusto riporre nello scrigno della nostra memoria.

Otto canzoni in bilico tra Radiohead e Nick Drake con un occhio di riguardo alle uscite discografiche d’oltreoceano più recenti, un disco dal sapore moderno che crea una continuità di pensiero e si fa armonia cangiante per i giorni che verranno.

Ophiuco – Hybrid (SeaHorse Recordings)

Elettronica di grande respiro che si apre a territori inesplorati lasciando spazio ad una capacità espressiva fuori dal comune che da internazionalità alla proposta e abbraccia per certi versi le incursioni sonore di Lali Puna, Massive Attack e i nostri Amycanbe in contesti di sovrastrutture eleganti e mai scontate capaci di dare profondità ad una musica che non sembra facile ad un primo ascolto e dove la forma canzone è delineata a poco a poco quasi a volersi svelare in tempi delicati lasciati al tempo.

I nostri Ophiuco provengono da Varese e concepiscono il loro Ibrido in formato fisico per l’etichetta del cavalluccio marino sempre attenta a spaziare in territori diversi e sempre nuovi garantendo un’offerta nella proposta varia e incisiva.

Dieci pezzi che sono la trasposizione di ciò che si vede camminando nell’oscurità, un viaggio cosmico che abbandona l’essenzialità per mettere in atto, dar vita, ad una macchina con i sentimenti, quelli veri, che trasportano il buio in una dimensione terrena capace di raccontare e raccontarsi.

Il cammino si apre con Desert per chiudere il cerchio con Game Machine, un gesto di percezione che ingloba un pensiero circolare e ammaliante, un grigio accecante dentro ad un contesto che ci rende sempre più vivi, sempre più leggeri e pronti ad accettare qualcosa che va oltre le nostre capacità sensoriali; questi sono gli Ophiuco: elettronica soppesata per canzoni ad effetto che permangono nel tempo.

Soulspirya – Stay Human (SlipTrickRecords)

Anfratti gotici che lasciano il segno in contemporanea allo spegnersi del sole, perpetuando le ombre in mobilità apparente, in stato accecante e confusionale, dove le onde del mare si appropriano del tempo rubato, donando calore e intensità a questa prova che sa di alternative studiato e calibrato, la solitudine centrale dell’essere umano e la continua ricerca di nuove sperimentazioni sonore.

In bilico tra Lacuna Coil, Portishead e Muse dei primi dischi il duo veneziano prosegue la ricerca di nuove abilità compositive che si possono ascoltare lungo le undici tracce dell’album, dando maggior risalto ad un’internazionalità di spicco pronta ad entrare prepotentemente in territori inospitali, rendendo il tutto una via di fuga verso una casa che ancora  stiamo cercando.

I testi esistenziali si fanno appiglio al colore seppia oscuro di un’immagine in dissolvenza e già dal primo pezzo We are coming  i nostri affrontano in totale libertà il loro entrare di diritto verso terre che ci appartengono, che fanno parte di ognuno di noi, creando quel connubio musicista/ascoltatore che permette di proseguire l’ascolto con attenzione, passando per riuscitissime The tunnel, Fading away, We will be alone fino al finale di The night before.

Un disco che racconta la solitudine dell’essere umano, lo fa toccando le aspirazioni dell’anima e quei muri che inevitabilmente ogni giorno troviamo davanti a noi, lo fa con rispetto verso il mondo ingabbiando quella solennità tipica di un genere che via via ci si ritrova a combattere per uscirne vivi, ancora una volta, come quelle onde del mare, laggiù all’orizzonte, tra uno scoglio silenzioso e la luna che governa le maree, quasi ad essere la padrona della notte: l’essere umano e il suo lato oscuro, l’essere e l’oscurità.

Intercity – Amur. (Orso Polare Dischi)

Amur è un disco che tutti vorrebbero fare, è un disco sul pensiero di ognuno di Noi, quell’abbraccio su cui si può contare, girando il mondo, vedendo cose, costruendo insieme.

Gli Intercity fanno ancora centro con questo nuovo album e dopo i cambi di formazione, acquisendo una maturità stilistica davvero invidiabile, che folgorante come un fuoco vivo d’inverno, ci trasporta verso terre lontane; il tema portante l’amore, quell’amore a cui non possiamo rinunciare, quell’amore che converge al centro di ogni cosa e non lascia scampo, il fiato al cielo e gli occhi al mare.

Dall’Himalaya all’infinità, dall’Australia mi penserai, fino agli Urali mi troverai canta Fabio in cerca di una forma di riscatto, in cerca di occasioni perse, ma mai abbandonate: un substrato di coscienze sottili, uno strato di ghiaccio polare che ci fa capire Come siamo lontani anche se vicini, a volte silenziosi, a volte premurosi, luoghi dove Qui convive il silenzio e non si parla più e ancora l’esigenza di incontrarsi in Teatro sociale, i ricordi dispersi lungo strade senza uscita di Indiani Apache e poi le atmosfere di Kyoto e gli addii di Kill Bill per chiudere il cerchio, un percorso senza fine che riparte con Le avanguardie: Da qui io partirò.

Malinconia di fondo che abbraccia Amor Fou e Baustelle, immaginarsi una terra desolata di frontiera dove un bambino corre con il suo aquilone in cerca di una meta senza trovarla, è un disco prettamente indie rock con venature pop, dodici pezzi che fanno il giro attorno al globo, innescano vortici letterari e di citazionismo e si concentrano su di un tema apparentemente banale, ma in questo caso affrontato con forte capacità visionaria e coscienza, il descrivere attraverso immagini istantanee una poetica di vita vissuta dove i ricordi e i momenti reali sono ancora vivi; immaginarsi il nuovo che avanza osservando le città in rovina.

Si chiude il cerchio, il sipario cala sulla scena e ancora quella nostalgia ci assale per un disco che sa di perfezione da qui all’infinità.

Lorenzo Feliciati – Koi (RareNoise Records)

Un mondo nel mondo, da scoprire attorno alle estrapolazioni sonore che si fanno carne viva, tagliente e capace di donare a chi ascolta quel senso si sbandamento fuori da ogni singolo controllo che intasca glorie e sperimentazioni a non finire, in un’ellissi costante di tempo spazio e moto, un connubio perfetto tra ragione e sentimento dove i suoni incasellati si fanno sempre meno tangibili, ricreando costatazioni oniriche di grande pregio, in nome e onore di una musica che scava in profondità, trascinandoci con lei in un’atmosfera che non è definita, ma fuori dal tempo si concentra per aspirazioni future.

Lorenzo Feliciati compositore e strumentista per il secondo capitolo di Frequent Flyer collabora con Steve Jansen, batterista dei Japan e fratello di David Sylvian e con Alessandro Gwis, pianista, per creare dal sottofondo una colonna sonora mistica in un viaggio verso terre lontane e affascinanti, cariche di materia costante da poter estrapolare e regalare come dono prezioso.

Un disco di ambient jazzy, atmosfera che si fa via e si staglia magicamente, tra cadenzati elementi compositi e tanta capacità ed eleganza, capacità che fa di questo disco una piccola perla da conservare nel tempo.

Emidio Clementi – Notturno Americano (Santeria)

Sembra un audiolibro che avanza piano, racconta e si contorce, si lascia andare ad evocazioni sonore di elettronica non conclamata, ma che rende un degno sottofondo musicale ad una voce che conosciamo, che abbiamo amato nel tempo e ci ha accompagnato lungo le nostre solitudini.

Emidio Clementi partorisce un lavoro introspettivo che seppur non direttamente parla di se stesso, della sua vita, un momento di catarsi che diviene collettiva, in racconti emblematici di un’altra epoca.

In notturno americano i quadri di Hopper prendono vita e si elevano nel racconto, nelle storie di tutti giorni nella continua ricerca di un punto d’incontro da dove partire per riuscire a ricostruire il passato.

Il passato di Emanuel Carnevali narrato per l’occasione dalle chitarre e dai synth di Corrado Nuccini e dal violino e la tromba di Emanuele Reverberi  entrambi Giardini di Mirò che per l’occasione cambiano immagine addentrandosi con garbo nella polverosa America del primo ‘900.

Emanuel Carnevali quello scrittore, tra i più talentuosi e meno riconosciuti dell’epoca, che parte da Genova per inabissarsi negli anfratti di New York e Chicago del primo ventennio tra falso mito americano e il lento discendere le scale dell’abbandono, della miseria, dell’emigrazione e di quella solitudine di fondo che connota la vita di chi parte per non fare ritorno con la speranza che il mondo, almeno da qualche parte, sia diverso.

Un pre John Fante capace di intingere di verismo la penna dell’anima, narrando attraverso visioni offuscate il complesso ingranaggio di sentimenti e fortuna, morte e vita, lacerante spazio fatto di piccole cose nascoste, ingabbiate e bramose di uscire allo scoperto come un forte pugno allo stomaco.

Qui la voce narrativa è mezzo per un qualcosa di ancor più grande: la memoria, astuto dilemma del tempo, un passo tra le lancette dell’orologio, tra i corpi e il lieve sospirare fatto d’amore, tutto quello che viene dedicato e sottointeso: la  purezza che lascia spazio al tempo, a quella barca da rovesciare la barca da rovesciare della tua purezza entrando furtivo di notte nei tuoi sogni, entrando furtivo di giorno nella tua realtà.

Fiorino – Il masochismo provoca dipendenza (Frivola Records)

Finalmente un cantautore frivolo, poco impegnato, poco serio ma dai davvero???

No Fiorino non è questo o almeno non sembra questo dopo un ascolto attento e completo del suo primo LP Il masochismo provoca dipendenza.

Di certo si respira in tutto l’album un’aria di tranquillità e pace, scandita da fischiettii e voce che se ne va per così dire a puttane, ricordando il Dalla e il Gaetano degli anni ’70 che raccontava storie di non senso, importanti quanto basta per gridare al miracolo, ricucendo strade interrotte e facendo ancora sperare che il nulla non si aprisse agli anni ’80.

Matteo Fiorino nasce a La Spezia, marinaio di professione e cantautore per vocazione, come ama definirsi e certamente questa sua capacità va ben oltre le attese.

Nei suoi testi troviamo l’ironia, ma troviamo anche la verità che si trasforma in veridicità e profonda convinzione che tutto ciò che possiamo creare lo possiamo anche donare agli altri in segno di gratitudine, ma anche in segno di protesta contro un’Italia che non esiste, relegata all’angolo del mondo circolare.

Ecco allora che i testi, si fanno esperienza di vita da narrare e come un flusso di pensieri si esaltano allo scorrere del tempo e alle emozioni vissute.

Fiorino è un cantautore atipico, per fortuna, che trasforma sassi in fiori e pezzi di carta straccia in acquarelli leggeri.