Campos – Viva (Aloch Dischi)

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Disco di rock alternativo e atmosferico alquanto raffinato che sposa in modo del tutto corale l’elettronica con gli arpeggi acustici di una chitarra in primo piano nel confondere e sovrapporre il gusto asettico di delay oltre maniera presenti nelle troppe produzioni moderne per lasciare invece spazio ad un suono capace di incrociare la sostanza del momento con un gusto del tutto personale che trova le influenze maggiori nei capolavori oxfordiani Kid A e Amnesiac pur mantenendo una matrice suonata con strumenti acustici a farla da padrone in una commistione che da un senso profondo a questo bellissimo disco. Le eteree convinzioni si fanno spunti sonori già dal primo pezzo Am I a man fino a convogliare l’energia vitale nel finale Straight Ahead per un album che estrapola gli elementi folk degli ultimi anni e li trasforma per donare nuova linfa vitale ad un genere abusato, ricercando sempre una nuova strada da seguire tra malinconie dei nostri tempi e la costante ineluttabilità dell’essere umano.

Ofelia Dorme – Secret Fires (HB Recordings/AlaBianca)

album Secret Fires - ofeliadorme

Onirico viaggio che incanta in modo pregevole consegnando agli ascoltatori il gusto per la bellezza oltre modo e le atmosfere pensate e strutturate per colpire emozionalmente territori abissali che si contorcono e ci lasciano un album dove l’inquietudine del tempo lascia spazio ad un qualcosa di più dilatato, di circostante, di fluidità che abbraccia Blonde Redhead, Amycanbe in sodalizi originali però che ricercano nell’avventura di osare un’ancora di salvataggio per il futuro. Gli Ofelia Dorme sono tornati e portano con sé un disco che parla di mutamento che travalica le mode passeggere, ma che si sofferma proprio dove la moda si è fermata, tra un alternative che sfocia nello shoegaze e nell’elettronica più ambientale a costruire istanti che non torneranno più e a dare un senso alla realtà gridata che ci gira intorno, lo fanno in punta di piedi con una magia naturale che ha il sapore delle cose pensate e ragionate per un disco dove nulla è lasciato al caso e nella concentrazione dell’attimo trova un pretesto per farci percepire la sua bellezza.

Umberto Maria Giardini – Futuro Proximo (La Tempesta Dischi)

UMBERTO MARIA GIARDINI futuro proximo

Prosegue il percorso di avvicendamento alla bellezza di Umberto Maria Giardini, prosegue raccontando un futuro prossimo destabilizzante sulle note sicure e già principalmente testate nei dischi e nei progetti precedenti, mantenendo un’impronta post rock con cavalcate intrise di significati che solo le parole possono completare dando continuità di senso e addizionando ironia tagliente proiettata nel nostro presente, aspettando forse ciò che mai verrà e contemplando gli attimi di vita vissuta come fossero ricordi da custodire per sempre.

Ci sono dieci pezzi in questo album, dieci pezzi che sono perle a se stanti che si fanno riascoltare per comprenderne sfumature dimenticate e lasciate al caso, ma qui nulla è abbandonato anzi, il nulla che avanza si ricopre di novità proprio quando le novità sembrano essere lasciate in disparte; l’Avanguardia è giusto incipit di attese che si apre alla canzone forse più orecchiabile dell’intero disco Alba Boreale, ricoprendo di introspezione pezzi come Dimenticare il tempo o Graziaplena per un finale di indiscusso valore a caratterizzare una produzione che si affaccia alla modernità con un amore chiaro e limpido nei confronti del passato, nella cura del suono e nella cura dell’anima, tra sali scendi emozionali e un comparto sonoro e poetico invidiabile ai giorni d’oggi e così vicino al domani da restarne profondamente colpiti.

Julie’s Haircut – Invocation and ritual dance of my demon twin (Rocket Recordings)

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Visione obliqua di un mondo ancestrale e compenetrante con chiare espressioni di tempo che si amalgamano intensamente a ristabilire forme sonore che attingono ispirazione da generi e mescolanze in un cerchio che continua di prepotenza la propria fase motrice e assapora in modo del tutto arcano rituali e invocazioni fino all’esplodere dolce della marea  soffocante.

I Julie’s Haircut sono tornati e in questo loro settimo album si abbandonano ad esplosioni sonore capaci di racchiudere la bellezza di una musica che coglie il respiro internazionale e prosegue la sua ricerca allargando gli orizzonti e gli eventi circostanti fino a conglobare l’insieme delle astrazioni cosmiche ottenute in un sodalizio che si fa naturale proseguimento del predecessore Ashram Equinox per spunti di difficile catalogazione, ma che seguono un percorso di post rock mescolato alla psichedelia lisergica e al cantato che lascia spazio alle visioni tormentate di un mondo in declino da Zukunft fino a Koan passando per quella Gathering Light, già singolo di presentazione e i voli pindarici di Deluge e Cycles a rafforzare l’idea di continuità e totale abbandono nei confronti di un bisogno di rappresentare il mondo in cui viviamo attraverso un canto lontano frastornato dalla potenza sonora di una musica sospesa.

Il ballo dell’orso – Secondo me mi piace (Black Candy/Woodworm)

Cantautorato che si perde nei meandri della continuità intascando una prova che ingloba un pensiero immedesimato e quasi menefreghista di un certo tipo di non sense che parla con introspezione di un mondo in decomposizione e sazio di vicende quotidiane, sorgente stessa per una prova che sa di tempo prezioso, una seconda prova  capace di sottolineare la capacità di questa band nel ricreare scatole di ambientazioni sonore che ripagano della fatica e danno il loro meglio grazia a musica di pregevole fattura attorniata da testi erotico – vissuti che ricordano in certi passaggi le morbosità di alcune composizioni di Elio e Le storie tese o degli Skiantos tralasciando la matrice punk del tutto e valorizzando una prova che trova nel cantautorato la sua maggiore introspezione in pezzi come L’ultimo uomo sulla terra, bellissimo spaccato di genialità corrosiva, fino al grande finale lasciato a Tutto quello che mi resta, quasi a voler dar conferma del valore di questa band che sa come non prendersi sul serio e nel contempo conosce il segreto per racchiudere dentro a tutto questo disco un significato che va al di là delle apparenze.

Cacao – Astral (Brutture moderne)

Suoni che si dividono, si espandono e si contorcono in un affilato tentativo di creare una musica strumentale paradossale e ricca di colori caleidoscopici in grado di implementare una grandezza smisurata e sincera capace di procurare contesti elettronici in una ricerca che si fa arte per l’arte, sostanza nel tripudio e amore verso la psichedelia e il rock degli anni ’90 che si inerpica fino ad accentrare i suoni dei Caraibi in una proposta molto convincente attanagliata dal duo fenomenale composto da Diego Pasini al basso e da Matteo Pozzi alla chitarra per un album pieno di sfumature esistenziali e stratosferiche in grado di abbandonare il concetto di già sentito per rifugiarsi nei luoghi dell’improvvisazione umana dall’ambient di Roboto, passando per le ballate del tempo passato di Odeon a convogliare l’energia esistenziale del refrain ossessivo di Contadini fino al finale di Anno 1000; tra western spaziali e rincorse al futuro questo dei Cacao è un album stratificato e geometricamente impazzito che regala emozioni a cuore aperto e capacità di diffondere un suono oltre le solite apparenze.

Alessandro Fiori – Plancton (Woodworm/Ibexhouse)

Risultati immagini per alessandro fiori planctonDisco di una forza psichedelica intrinseca capace di scoperchiare le origini del mondo invertendo la rotta verso cui siamo diretti e portandoci in un mondo fatto di creature invertebrate, di fragilità soppesata e lasciata al filo del ricordo ingaggiando una lotta con la propria coscienza che si consuma nell’attimo appena passato e rende al meglio l’idea di disco elettronico, fatto non per piacere al primo impatto, ma piuttosto un album, una manciata di canzoni in grado di scardinare gli ordini precostituiti della canzone d’autore, rivolgendosi al proprio interno attraverso storie che si consumano, che inglobano paura per questo tempo ignoto e incalcolabile, un tempo descritto non come causale temporale, ma piuttosto come azione, momento, attimo di abbandono e ripresa attraverso un comparto musicale allucinogeno e caratterizzato da incrociatori sonori degni del migliore Kid A intersecato alla forza sperimentale di Amnesiac, in un vortice che non segue il filo della ragione, ma anzi, dona la certezza di più e più ascolti per essere assimilato, per trovarci ad un certo punto davanti ad un’opera in grado di raggiungere picchi di elevata emotività in pezzi come Ivo e Maria, tra gli amori di una vita che non c’è più, il terrore della vecchiaia, la paura di morire.

Hibou Moyen – Fin dove non si tocca (Private Stanze)

Cantautore introspettivo e delicato che accarezza la vertigine del mare per affondare montagne sottosopra all’interno di un’acqua che sa cullare, ma che sa anche far male, grazie ad un sostanzioso appeal di ricerca cantautorale che ricorda molto i primi lavori di Umberto Maria Giardini – Moltheni, qui guarda caso in veste di produttore dell’intero album, per canzoni che si snocciolano nei meandri della nostra coscienza, donando freschezza a parole desuete e quasi dimenticate, ritornando in qualche modo a ciò che erano gli anni ’90 grazie anche a tutta una serie di corrispondenze con il folk malinconico americano; basti pensare a pezzi immaginifici e bellissimi come la traccia d’apertura Il naufragio del Nautilus, quella barca dispersa nel mare per poi toccare punte di alta poesia con Efelidi fino ai Miei Nodi e Pallida erba per un concentrato di solitudine misteriosa che riesce ad abbracciare la natura in un porto disperso oltre le nostre abitudini e per un disco in grado di farci riappropriare del tempo perduto, tra le cose lasciate e quelle che troveremo: un album questo che ha il sapore delle cose migliori, un cantautorato incontaminato che deve continuare ad essere preservato.

Senura – Senura (Furious Party)

Suoni che sprigionano un’energia viscerale e strappano al tempo la conseguente forma di abbandono per incanalarsi in un flusso di magma continuo che stordisce come pioggia acida riuscendo a trovare dentro di sé un posto naturale in grado di formare geometrie lineari, ma fragorose, concentrate nel buio costante, nella rivincita e nell’abbandono dei giudizi scaraventando a terra, attraverso una base ritmica dal forte impatto, una necessità di intenti e di sapori che mastica l’attesa e l’assenza partendo proprio dal singolone Norimberga, di colori e scie nel cielo da osservare con occhi all’insù e rincorrendo i giorni-canzoni attraverso l’uso estremamente convincente del linguaggio e delle parole, tra l’iniziale Indaco fino al finale lasciato a I santi i nostri Senura apprendono la lezione del passato per un rock alternativo rigorosamente cantato in italiano che racchiude l’esigenza di oltrepassare le barriere fisiche e mentali, lasciando dietro di sé il ricordo lontano di una luce filtrata attraverso un buio costante e minaccioso, a ristabilire nuove forme di comunicazione e di amore.

Tunguska – A glorious mess (Promorama/Audioglobe)

Claustrofobici labirinti mentali si posizionano al centro della foresta e scavano sotto le foglie, sotto il terreno alla ricerca di muri di suono da infrangere grazie ad impianti chitarristici che si dimenano creando intersezioni , strutture molecolari, ben udibili, aggrappate al filo del nostro mondo, un mondo risputato nella nebbia da dove tutto è venuto, un mondo intriso di significati, capace di mantenere disequilibri in continua evoluzione e confronti apparenti con la società ormai indistinguibile.

I Tunguska entrano di prepotenza in un concentrato di visioni sotterranee, lo fanno in maniera diretta senza fronzoli, grazie ad uno shoegaze che incontra le emozionalità degli anni ’80 per un duo che dopo un anno di lavoro riesce a scoprire la luce tra le lacrime della pioggia, in molecole proporzionali soltanto alla loro grandezza, per un disco che raccoglie l’enorme eredità del passato, la trasforma, la eviscera e ancora disubbidiente e insoddisfatta viene appesa al chiodo della ragione nel muro della nostra anima.

Ascoltare A glorious mess è far parte di un tutto incontrollato, stupefacente e magnifico, restarne senza sarebbe una privazione.