Capside – Tous les hèros (Autoproduzione)

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Suoni concentrici che abbagliano e rendono l’idea di paesaggi da esplorare che inevitabilmente compaiono lungo il fiume della memoria percependo sapori, profumi e colori di una terra lontana, di una terra da imparare. I Capside, dalla Sardegna, proiettano nel loro essere al mondo un bisogno di comunicabilità che si sposta nelle esigenze di un prog rock che ricorda molto il Banco del Muto Soccorso, attingendo vitalità dagli anni d’oro della musica italiana quando ancora la tecnica si legava indissolubilmente alla poesia. Tous les hèros rimanda ad un tempo  che non c’è più e, con stile, riesce a creare melodie strumentali che ben si intersecano con la voce di Valentina Casu a rimarcare un bisogno di comunicabilità che entra, con grazia, all’interno della mente dell’ascoltatore. L’album dei Capside è un gesto d’amore verso le cose più preziose che riusciamo a percepire grazie alla forza della musica per un disco colorato che raccoglie l’esigenza di un mare in movimento, di un mare che non smette di fare il suo corso infinito. 


Garbato – Anima Sensoriale (Resisto)

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Rapporti umani lasciati in disparte nella civiltà del progresso, rapporti umani devastati dall’apatia e dall’odio nel mondo dell’economia e del capitalismo imperante, rapporti colati a picco nel mare più profondo, ma pronti ad essere rivisti, ripresi, cercati e inglobati in una parola che diventa musica, in un disco che parla proprio di persone, di gesti, di comunicazione e si fa portavoce di un bisogno collettivo, di un sentire comune che si sofferma oltre ogni moda imposta. Il nuovo dei Garbato è un gesto d’amore per tutto ciò che ci circonda, è un simbolo di lotta sempre incanalata in una rabbia quasi gentile, una rabbia che si fa racconto attraverso le poesie del tempo instaurando con l’ascoltatore un desiderio di rivincita, un desiderio di rivalsa contro i soprusi della vita moderna. I suoni ricercati attingono dal cantautorato e dal prog la loro linfa vitale e ci accompagnano in una sorta di concept sul ciò che perdiamo quotidianamente. Da Riflessioni a 100 all’ora i Garbato incasellano sentimenti mistici e quasi fuori dal tempo in un album di certo non banale, ma piuttosto pronto a lasciare il segno. 


Syncage – Unlike Here (Bad Elephant Music)

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Syncage fin dal primo ascolto significa complessità, forse abusata, ricercata, ma sicuramente voluta in un vortice di sensazioni che si inerpicano attraverso le montagne della nostra anima e affondano i vissuti in un sostanziale bisogno di entrare in comunione con forze apparentemente lontane da noi. Syncage è la la natura sprigionata e attraverso Unlike here si può comprendere la potenza espressiva e del tutto controllata di un alternative rock mescolato al metal, al prog, al jazz in una fluttuante sensazione di connubio tra passato e presente dove le forze in campo si scontrano e incontrano in pezzi cosmici e stellari come l’apertura affidata a School, passando per Skyline Shift e poi via via intessendo trame ardite in pezzi come Redirect e la stessa title track che chiude il disco. Unlike here è un disco assai lungo, più di un’ora e dieci di musica per un totale di dieci canzoni, minutaggio necessario per far comprendere una complessità di certo non banale, ma piuttosto radicata su un territorio grande quanto il mondo che ci circonda. L’evoluzione dei Syncage parte da ciò che erano i Rising Horizons, un’evoluzione necessaria che in questo disco trova un punto di incontro, un punto di contatto tra i grandi del passato e una modernità sempre più sospinta che avanza, pur mantenendo di fondo un’importante dose di originalità necessaria nel garantire simili risultati.

Forsqueak – FSK (Almendra Music)

Sperimentali e asimmetrici parlano di geometrie crepuscolari che intessono trame e composizioni strumentali capaci di sfiorare la pelle e scendere giù fino alla milza, passando per il cuore, in un connubio ben ponderato tra melodia, ricercatezza e straordinaria capacità malleabile di creare dal nulla una potenza sonora che si fa sostanza attraverso l’ombra di questi nove brani. Il nuovo disco dei Forsquek accende la miccia dell’improvvisazione e lo fa attraverso le strade del jazz, del prog e del rock distorto in un preponderanza d’intenti che viene annoverata e rincara la dose da Batway fino a Hamster passando per capolavori in bilico come Kim ki duk o Kitalpha con la leggera, ma essenziale consapevolezza di essere davanti ad una band che fa del sogno una sostanza materica da incidere su disco e che grazie a tocchi di math e avant-jazz riesce nell’intento di trasformare una jam session in un qualcosa di più approfondito, elegante e di sicura grandezza e interezza finale.

Blue Parrot Fishes – Totani su Totem (Zona Roveri)

Frullati decompressi e destrutturati per un film vecchia scuola di Wes Anderson ad incorniciare meraviglie sonore che si interrompono da scatti di virtuosismi e note mai lasciate al caso, ma piuttosto ragionate a dovere per ricomporre una visione d’insieme alquanto strampalata, ma di sicuro impatto incalzante. I Blue parrot fishes hanno confezionato un disco alquanto strabiliante, fuori da ogni regola e da ogni controindicazione, utilizzando una forte e sana ironia e concedendosi spazi di improvvisazione che vanno oltre lo sperato, ma anche in parte al già sentito. In questo disco si passa facilmente dal blues alla canzone d’autore, inerpicando i confini al prog e al rock più duro, ritornando sulla terra con raffinatezza e canzoni gridate alla Rino Gaetano in un potpourri davvero eccellente che dribbla tutto ciò che gira attorno affossando la musica del momento e incredibilmente rinascere prendendosi, a volte, anche poco sul serio. Forse qui sta il segreto della loro formula, divertirsi e compiere involontariamente quasi un miracolo, i Blue Parrot Fishes con il loro Totani su Totem sono una ventata d’aria fresca e necessaria in questo panorama stantio e sulla via del tramonto.

Inarmonics – A thing of beauty (New Model Label)

Disco dal colossale impatto d’altri tempi registrato completamente in presa diretta e che assapora in un solo istante la storia della musica rock e prog per come la conosciamo in una sostanziale ricerca che fa repentinamente un tuffo indietro negli anni fino a scovare quell’essenza di fondo che caratterizzava band passate  e che ancora oggi rivivono grazie allo spirito in musica di gruppi come i nostri Inarmonics. A thing of beauty non si limita a circoscrivere la propria ricerca all’interno di un solo genere musicale, ma piuttosto scava nelle profondità degli abissi per dare all’ascoltatore elementi di dark wave approcciati al progressive per un unione davvero inusuale, ma sicuramente impattante che mescola uno strumentale d’azione in evoluzione con momenti più meditativi e rilassanti. John Keats al proprio fianco i nostri intascano una prova davvero coraggiosa e mutevole dove una cosa bella è una gioia per sempre e dove la versatilità con cui vengono suonati i vari strumenti presenti è emblema di padronanza e valore d’insieme essenziale e da preservare.

UTVEGGI – Altri Mondi (Almendra Music)

Paesaggi sonori che intrecciano Oriente e Occidente, Nord e Sud del mondo in un disco fatto di tanta sostanza sonora che si inerpica attraverso un rock che tende il filo del ricordo e del vivere quotidiano in accenni che si fanno vibranti quando la musica da un rock di pura matrice inglese si trasforma e tocca vertici di prog italiano, intascando la lezione del tempo, ma anche e soprattutto un’esigenza estemporanea di dare vita a sedici tracce che sono dei piccoli ritratti, dei piccoli racconti a se stanti in grado di comunicare attraverso una narrazione che parla il Giapponese, parla il dialetto siciliano, per un continuo scontro e incontro che sa di natura e di città metropolitane in divenire, di pensieri in dissolvenza e di bisogno soggettivo di imbrigliare nell’universo quegli attimi di luce che parlano anche un po’ di noi, in una globalità indefinita, ma pur sempre una globalità di condivisione.

Glory of the supervenient – Glory of the supervenient (Overdub Recordings)

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Disco di improvvisazioni cosmiche capace di legare il progressive alle sensazioni di una musica strumentale che entra in simbiosi con le nostre caratteristiche peculiari, con la nostra infinitesimale coscienza, allargando un ampio spettro di prospettive nel richiamare l’attenzione su geometrie quasi matematiche, da accogliere, da sentire e da far vibrare in un contesto sensazionale che rivolge gli occhi e la mente alle divagazioni post anni settanta, Mike Oldfield e il suo Tubular Bells su tutti, in una struttura difficile da incasellare che lascia giustamente spazio ad una forza creativa che questo gruppo possiede riuscendo a trasportare l’ascoltatore in un mondo lontanissimo e ricoperto di sostanza cangiante da I: The destiny fino a Path of the night, per undici tracce che hanno il sentore di qualcosa di ultraterreno, di elettronico, mutevole e ad ogni nostra motivazione quella potenza e forza di volere dare uno sguardo al tutto che cambia nel raggiungimento di una pace interiore definita dalle frequenze musicali e dai sentimenti di abbandono e ritrovamento che pervadono l’intero lavoro.

Opificio del dubbio – Epico (Autoproduzione)

Sperimentazioni sonore che toccano gli ellenici del passato in un vortice continuo frammentato da canzoni e poesie, tre a tre, un raccontare di un mondo svanito e della bellezza che questo raccoglieva in antichi splendori ormai perduti, alla ricerca di un legame profondo con la nostra cultura e la nostra capacità visionaria di proiettarci ancora, per un momento, a comprendere i sospiri degli occhi, vicini al cuore, in una terra che è  stata culla di civiltà e che continua ad esserlo oggi più che mai.

La band vicentina, Opificio del Dubbio, incarna la complessità con questa nuova prova intersecando strumenti inusuali, ma marchio di fabbrica del loro appeal, come il flauto traverso e il bouzouki, amalgamando testi ispirati con le basi ritmiche di basso, batteria e chitarra ricreando la continua ricerca sonora che li caratterizza da tempo e che soprattutto in questo disco si guadagna un posto nelle produzioni nostrane grazie ad uno stile deciso che conduce ad un’armonia di forma congeniale al loro modo di essere.

Mi hai dato le ali, Era troppo bello , Non ti voltare, Icaro, Narciso, Orfeo, Aria, Acqua, Terra: elementi vitali e indistinguibili, punto di ricerca per ciò che verrà e narrazione che assesta con supporti prog in divenire, costrutti epici e racconti mitologici di una terra lontana, ma ancora vicina, modernità quindi che si esprime in un post modernismo contemporaneo e di impatto; formula vincente per futuri di luce.

 

Lateral Blast – La luna nel pozzo (Resisto)

Un tuffo profondo nelle radici del prog italiano, in una costante ricerca arcana e celata da significati alchimici, proiettati in montagne solitarie, tra amori da conquistare e innocenza che si staglia in cielo a ricoprir le nuvole di voli pindarici e espressività che si coglie in un ensamble di gusto emozionale, mai banale, ma che punta proprio verso la ricerca di nuovi spazi musicali da conquistare, nell’anacronistico bisogno di riesumare, in modo positivo, un genere ricco di fascino e passione, che denota in primis le capacità musicali della band in questione.

Stiamo parlando del nuovo lavoro dei Lateral Blast, La luna nel pozzo, che grazie a giochi cromatici di parole, convince nella poetica destrutturante, capace di cavalcare il mito, grazie alla passione e alla comunione d’intenti, in un passaggio d’obbligo sulla sponda opposta al sole, nella ricerca di qualcosa che vive racchiuso all’interno delle nostre aspettative più nascoste e misteriose.

Un disco che vede la partecipazione di Alessandro Monzi al violino degli Area 765, ex Ratti della Sabina e di Daniele Coccia de Il muro del canto, per dodici pezzi che sono il frutto di un percorso di ricerca intrapreso e maturato nel tempo, da quell’Intro strumentale fino a La luna nel pozzo, canzone che da il nome al disco, una ricerca costante sintetizzata dal suono giusto, tra corali partecipazioni e voci che si alternano e si amalgamano in un solo, unico, sospiro verso la notte.