Dario Ferrante – Uno (Autoproduzione/Regione Toscana)

Uno è il punto d’inizio verso strutture bianche concentriche che riaffermano uno stile volutamente minimal in bilico tra elettronica e piano crescente capace di incontrare mostri sacri dei nostri tempi intersecando i fraseggi dei nostrani Bavota e Carri per musica da film che come moto ondoso accoglie ed espelle, rotea nel vortice delle emozioni e consegna all’ascoltatore un’imprevista discesa negli anfratti più profondi della nostra anima, mite ritorno verso il punto di partenza, da dove rischiarare gli orizzonti e sentirsi capaci di decontestualizzare il momento; cubi che si trasformano e senza esitazioni ammaliano tra piano, violino, cello e quell’elettronica che conquista e rapisce, da Spleen a Youth, questo è un viaggio mirabile e desiderabile, minimamente mai rassegnato a se stesso, ma piuttosto portatore di quel desiderio di conoscere nuove e sostanziose parabole soddisfacenti, sei pezzi eterogenei esaltanti e pronti ad essere ricapitolati e riascoltati in rallentamenti cosmici che fanno da contorno al giorno che deve nascere attorno a noi.

Andrea Carboni – La rivoluzione cosmetica (Autoproduzione)

C’è tanto di quel rock anni ’90 in questo disco da far spavento, un rock legato indissolubilmente a piccoli ritocchi estetici di elettronica commistionata al cantautorato in modo sublime, dove le parole si legano alla musica e creano un vortice di sensazioni che non stancano, ma in loop ossessivo concedono una quadratura del cerchio che arriva fino ai Placebo, partendo proprio con i cari Radiohead in una Rivoluzione cosmetica che riecheggia nell’airbag del gruppo di Oxford.

Una linea continua che fa sospirare e vede nell’immaginario coltivare con risaputa capacità, ciò che il nostro aveva già gettato con Due, una ricerca stilistica di un proprio io che ricava attimi di esplosioni chitarristiche in un pop che per sua definizione è antipop per eccellenza, in divenire, raccontando di posti lontani e amori supremi, di battaglie da vincere e di perdite assicurate.

Un album di otto canzoni che svela un tiro deciso fin dall’inizio, con un’ottima e affilata registrazione accompagnata da un egregio mastering, otto brani a dominare la scena, la rivoluzione cosmetica è alle porte e questo atto di denuncia per ciò che non siamo più suona molto attuale nel mondo che ci circonda.

Ru Fus – Ru Fus (Autoproduzione)

Assaporare il mare lontano e gridare agli dei tutta la propria furia distruttiva, in grado di alzare le maree e agitare una tempesta che permetterà solo a pochi di sopravvivere in mulinelli cadenzati e compressi, delineati e formalmente complessi, in un continuo salto temporale e piegamenti sonori che lasciano morire il giorno, lasciando posto ad una notte quieta e solitaria.

I Ru Fus sono stoner e grunge, sono ciò che è uscito dopo la maturazione dei ’90 e i primi 2000 e sono soprattutto voglia di combattere il sistema, bisogno essenziale di rivincita e rivalsa in un disco che è il concentrato di quegli anni, di un’adolescenza finita e soprattutto durata il tempo di una fiamma, lasciando alle proprie spalle strascichi di esistenzialismi e vita rubata.

I nostri intascano una prova ben suonata e ricca di atmosfera, capace di infondere coraggio e speranza, maturità allo stato cubico e potenza espressiva incamerata in undici pezzi del tutto inglobati, tra onde e affinità in grado di segnare la strada.

Miriam Mellerin – Il vizio (Arroyo/Metarock)

Secondo album granitico, corposo e pieno di rimandi alla scena stoner questo dei Miriam Mellerin, band pisana che al secondo lavoro si interseca in melodie legate al post grunge di metà novanta per sfociare inevitabilmente in un concentrato di parole-suono che si abissano fino a far della lingua italiana un veicolo per trasportare emozioni, impresa molto difficile di questi tempi, visto che quest’ultima, nelle produzioni odierne, è impiegata perlopiù in testi che parlano di malinconiche vicende non sense.

I nostri escono da questo mondo pre imbottito di consuetudine per creare un rock studiato meticolosamente con tanto di cori a coronare un approccio diretto, schietto e ingombrante.

Si perché si tratta di un disco registrato in presa diretta , che in qualche modo racchiude lo spirito della band, incapsulata in navicelle al fulmicotone che si librano in cielo lasciando scie di fuoco.

E’ un album raffinato, che parla di incertezza sul domani e sul male di vivere, un disco che abbraccia elementi del cantautorato per portarlo in una dimensione esplosiva, incerta e soffocante, specchio di una realtà che precipita nel buio giorno dopo giorno.

I pezzi sono argini per questi tempi, argini di una terra che ha bisogno di essere incanalata in un fiume di luce.