Persian Pelican – Sleeping beauty (Trovarobato/Malintenti Dischi/Bomba Dischi)

La bellezza sta dormendo, ma non in questo caso, racchiusa da capogiri esistenziali dove il vortice emozionale è importante quanto la valorizzazione del sogno e del suo farne parte, in una realtà che è possibilità tangibile di ricreare l’onirico nel quotidiano, dando forma e speranza alle situazioni del domani.

Persian Pelican, all’anagrafe Andrea Pulcini, è tornato, confezionando un terzo disco di purezza cristallina che abbandona le esigenze più introspettive e malinconiche del precedente How to prevent a cold per dare un senso maggiore alla bellezza che si cela nell’elettricità e nelle melodia, divincolata dal suono acustico che lo caratterizzava, per compiere un salto ancora più luminoso nel mare delle produzioni nostrane.

Il carattere e lo stile che lo contraddistingueva, legato al desiderio di sperimentare, non manca e in qualche modo il nostro regala vita ad un concept reale sull’irrealtà e il linguaggio dei sogni, non mascherando le illusioni del vivere, ma riuscendo ad attingere direttamente dai vissuti un senso maggiore che completa il tutto.

Sono tredici pezzi di una bellezza disarmante, difficile sceglierne uno, gli episodi appartengono ad un tutto inscindibile e importante; esempio ne è l’apporto del cantautore statunitense Tom Brosseau che grazie alla sua voce rende l’idea di Orphan ancora più reale, in un disco che sa di maree e di sogni lucidi, ad occhi aperti, senza la paura di scoprire, qualcosa di più, dentro noi.

Quiver with Joy – Ghost (Autoproduzione)

Musica nuova e lontana da ogni genere, musica che parla di tenebre e oscurità, musica che parla di presenze e si concentra nel creare un’alternativa tangibile ai suoni conosciuti e disincantati che ci accompagnano ogni giorno, loro sono i Quiver with Joy e grazie al loro fantasma hanno saputo fondere diverse ambientazioni sonore per dare vita al tramonto di una musica per troppo tempo sentita creando sonorità alquanto dilatate e ben distribuite, influenzate da una poetica a tratti minimale e sincera a tratti introspettiva e incanalata verso una precisa direzione.

Il cantautorato di Rufus Wainwright si sposa con le melodie nordiche, incontra Persian Pelican e si concede all’elaborazione di quanto imparato nel corso del tempo, amalgamando, unendo e creando nuove forme di poesia crepuscolare, parafrasando Foscolo, tra ballate funebri e ricordi che si fanno vivi, rimpianti tanti e futuro incerto.

La presenza del polistrumentista Vincenzo Vasi già, tra gli altri, con Vinicio Capossela e Mike Patton, rende maggiore il tocco e l’effetto d’atmosfera creato, sottolineando l’importanza di una band che è alla ricerca di una prova fuori dal coro e allo stesso tempo crocevia di rimandi al passato e alle vibrazioni future.

Ottima disco, generosamente sentito e apprezzato; lungo però è ancora il cammino, anche se con queste premesse il futuro è nelle loro mani.

Persian Pelican – How to prevent a cold (Autoproduzione)

Un abum che deriva dal compimento di un progetto straordinario coordinato da chitarre e strumenti acustici che segnano un inevitabile riordino interno e pulizia spirituale atte a indicare un percorso chiaro verso la via del cantautorato d’atmosfera e dalle parole che non sono lasciate al caso, ma che creano verità assolute sul mondo in decadenza dell’amore.

E’ un sussurro continuopersian_pelican_250_250 quello di Andrea Pulcini, un mescolare accordi a voci dimesse e sincere, un creare assieme agli altri Persian Pelican un’idea di accuratezza e completezza che a fatica si trova in album di gruppi italiani, ma che grazie al cantato in inglese trova vita propria e una visione di intenti sicuramente di ampio respiro.

Sembra un gioco semplice tante volte scrivere canzoni di questo tipo, ma è qui che la gente comune si sbaglia, questo è un genere alquanto difficile in quanto bisogna saper comunicare utilizzando la forma quasi scarna della canzone, pochi strumenti, ma dosati a dovere, creano quella magia che non si riesce a ricreare in altra musica.

Ecco che in pezzi come la title track o come “Glass fragments in the soup” ciò che precedentemente veniva spiegato ora prende forma: un’idea di sostanza stilisticamente essenziale, ma emozionante.

L’album poi si sofferma sul lato ironico del vivere l’amore, perchè questo in fin dei conti è un disco passionale che riflette un’indole tragica capace di trasformarsi, nei minuti, in triste fine sempre più tangibile.

Canzoni come “Dorothy” ne sono l’esempio “and there is a smile of love and there is a smile of deceit and there is a hummer”: pura decadenza coronata da cori e rumori sterzati.

Un disco di cori e malinconia, un discho di chitarre Hinsoniane e leggerezza nascosta fino a

profondità temibili.

Un disco cesellato con il cuore di chi riconosce la strada da percorrere custodendone tutto ciò che è utile e allo stesso tempo un percorrere a ritroso la via battuta per capire l’incompreso.

Un album in sostanza per chi cerca nuove strade nella semplicità e per chi non sa aspettare l’attesa di un nuovo giorno.