Stalker – Hai più di un’ombra (Autoproduzione)

Canzoni al fulmicotone che affrontano la realtà in modo aggressivo e dirompente, trascinando urla corali in refrain dal sapore d’altri tempi che si affacciano nell’intersezione degli anni ’90 a cavallo con il 2000 per un suono che risulta essere fresco e moderno, un misto tra punk e rock oltre le aspettative e apparentemente legato, con un filo sottile, alle soluzioni moderne e nel contempo vintage, spudorate e inoltrate allo stoner rock di gruppi come QOTSE e alla scena americana in un’evoluzione ben precisa e combinata, un’evoluzione concentrica e sospesa che permette di assaporare al meglio l’importanza della proposta senza chiedersi troppo, senza chiedere nulla al futuro, dalla title track Hai più di un’ombra, convincendo con pezzi come Seduzione incontrollata, Porno e Amarcord, apprezzando il cantato in italiano e tirando in ballo band del calibro dei Ministri, ma virati ad un lato meno commerciale e direi più sostanzioso.

I nostri Stalker confezionano una bella prova impattante, granitica e dai forti contenuti, in grado di sbaragliare facilmente la concorrenza ed esprimendo al meglio una passione per un’evoluzione mista al passato che non aspetta altro che essere compresa e assaporata fino all’ultima goccia.

Afterhours – Folfiri o Folfox (Universal)

Essere inglobato in un vortice adrenalinico sul filo del rasoio per poter ammirare musicalmente il ritorno degli Afterhours, dopo un Padania per me, ancora inascoltabile, mi fa sentire ancora vivo, mi da la forza per sperare che questa band, dopo i 25 e oltre anni di carriera abbia ancora le carte in regola per insegnare alle generazioni future che cos’è il rock e la sperimentazione, senza abbandonare la strada seguita fino ad ora, in nome di uno stile che si fa sempre più stratificato e coinvolgente, quasi fosse un compendio essenziale di tutto questo tempo, tra le lacrime amare, le canzoni pop, i deliri distorti e l’uso di ingegni musicali a segnare la scena e a rinchiudere ogni pezzo compresso in pillole da mandare giù quando si sta troppo male.

Folfiri o Folfox è un album prima di tutto sull’abbandono e sulla ricerca di una meta, di una via da seguire oltre il buio, pezzi di puzzle che come un pugno allo stomaco rimembrano e scavano in ciò che è stato, in modo quasi subdolo, tra le promesse di una vita eterna e lo scontrarsi con una realtà opprimente e soffocante, in attesa che qualcosa possa ancora cambiare, in attesa che il sangue che ci resta dentro sia parte vitale per le emozioni che ancora ci accomunano e segni un percorso, chiamato vita, da assaporare fino in fondo.

La nuova formazione garantisce suoni sempre nuovi e in costante cambiamento, con la forte presenza di Manuel Agnelli che intreccia la sfera privata ai problemi di un’Italia che non funziona, una rinascita inaspettata che scardina prepotentemente i pregiudizi ponendosi come opera da leggere su più piani per capirne il significato avvolgente e intrinseco, tra composizioni acustiche, pianistiche e altre elettriche fino al midollo, tra netti contrasti di luci e ombre a segnare il tempo che verrà.

Un doppio album, rassomigliante per certi versi al Mellon Collie degli Smashing Pumpkins, dove la presenza costante di musicisti spettacolari e così eterogenei tra loro riesce ad imporsi sul chiacchiericcio moderno sottolineando ancora una volta, l’esigenza estemporanea di ritrovare la bellezza anche nei giorni più cupi.

 

Mezzo Preti – Mezzo Preti (Phonogram Music)

Folk che spazza via ogni incertezza per entrare di diritto nelle produzioni genuine e immediate, capaci di conquistare soltanto attraverso il suono, soltanto attraverso una sospirata attesa che si trasforma in pulizia del superfluo e concede spazi di improvvisazione acustici che ben si delineano con un’elettrica macerata e distorta pronta a trovare il riff giusto in ogni momento, una musica che incontra il blues del delta e i sonagli in divenire che riescono a battere il tempo grazie ad una grancassa incisiva e costante per un duo che ha fatto e che farà, della potenza live, il proprio marchio di fabbrica.

Loro sono i Mezzo Preti, nome preso in prestito da un quartiere di Montesilvano Marina, paese di provenienza di Annaluisa Giansante che con il produttore e musicista Francesco Adessi decide di creare un cantautorato che si immedesima nel pop e allo stesso tempo si discosta dalle produzioni odierne per capacità intrinseca di essere proiettato in una modernità che si fa racconto di storie e sensazioni, reali e vissute, così vicine ad una contemporaneità da subirne tutta la sua pesante presenza.

Quattro pezzi soltanto che delineano grandemente la filosofia e il pensiero di questo duo milanese, quattro canzoni che si chiudono con Forma e sostanza dei CSI quasi a voler ribadire i costrutti con i quali i nostri sono stati creati e intendono proferire il verbo; un assaggio di presente per il futuro che verrà.

Ladro – Ladro EP (Autoproduzione)

Commistione portentosa di più generi, di più stili intellegibili, per un power trio di notevole sostanza, capace di sbaragliare la scena a colpi di emozioni assicurate e imprevedibilità racchiusa nel loro Ep d’esordio; questa band milanese incornicia una prova ricca di atmosfera e pregnante di quell’esigenza quasi naturale di trasformare la rabbia e l’immediatezza in una musica che abbraccia psichedelia cosmica al grunge di Seattle, Nirvana su tutti, fino a comprendere un cantautorato nostrano che tocca vertici oscuri e raffinati in un sentiero influenzato dal carisma e dalla portentosa malleabilità nel creare nuove forme sonore partendo da ciò che già conosciamo e portando a casa cinque pezzi, tra cui la stupenda e più significativa Temporary Shelter, che sanno di passato e anche di nuova sperimentazione, tra Sycamore Age e quel gusto per ciò che di nuovo si può creare, nell’alchimia del suonare assieme.

Infrared – Infrared (Autoproduzione)

Un salto indietro negli anni ’90, un salto fatto con l’elastico, da altezze vertiginose, suoni rock in bilico tra Skunk Anansie e Guano Apes per un Ep che brilla per voracità e voglia di creare melodia nel rumore, la potenza e la quiete, la calma apparente e quella sensazione umana avvolgente e penetrante di dare un senso alla forma canzone, di dare un senso al viaggio mentale con paradigmi semplice e ben strutturati, capaci di dar vita a pezzi di impatto improvviso e immediato.

Gli Infrared intascano una buona prova, cinque brani che non passano inosservati e con le carte in regola per entrare a pieno diritto nel mondo del rock internazionale, forse osando un po’ di più, ma certamente con una base solida e sicuramente rodata; un disco che fa scorrere rapida la memoria a più di vent’anni fa, dove l’energia era parte vitale del nostro vivere quotidiano.

Never Trust – The line (VREC)

Secondo album per la band milanese che intasca l’autoproduzione del 2013 per dare vita ad un album maggiormente introspettivo e sentito, capitanati del resto, dalla carismatica voce di Elisa Galli, i nostri se ne escono con 12 pezzi rock dall’attitudine ’90 e primi 2000, inglobando le lezioni del tempo perduto e provando a dare un senso positivo al marasma che gira intorno, parlando di amicizie, amori, passando per le invidie e i sogni ad occhi aperti.

I Never trust non disdegnano riferimenti ambiziosi, Led Zeppelin fra tutti, anche se il suono è molto più moderno toccando i Paramore e gli Halestorm dei fratelli Hale, in un vortice di ossessione continua verso un mondo che via via si disgrega attorno a noi e attraverso la musica, attraverso un concetto così astratto, si tenta di ricomporlo.

Ambiziose proposte quindi che partono con il rock and roll riuscitissimo di Cut you out fino al grande finale di Heavier, passando per il singolo Turmoil e la trascinante Time is up, tracce che creano un quadro uniforme capace di dare emozioni perpetue in continuo divenire, grazie anche all’affiatamento della band e grazie anche alla loro capacità musicale.

Majakovich – Elefante (v4v records)

album Elefante - Majakovich

Si respira fuoco e un’aria di novità, lacerante idea di un giorno che mai sorgerà ancora di nuovo e scoppiettante flusso di pensieri errabondi che trovano un canale di sfogo dopo giornate spese male, dopo l’eterna lotta tra bene e male, dopo l’insaziabile ira per una luce migliore.

I Majakovich sono tornati e lasciano il segno, lo fanno con testi spiazzanti coperti dal fragore delle chitarre elettriche e da quell’insaziabile bisogno di comunicare, di lasciare una traccia indissolubile nell’eco poetica che ci rappresenta, parole tormentate che si spiegano e vanno oltre, parole di rimando e testi che, in modo dirompente, lasciano presagire futuri memorabili per la scena indie rock italiana.

Paragonarli ai FASK sarebbe troppo semplice, i nostri cercano di trovare una propria via di approdo, un’illusione che svanisce, alla ricerca di un sentiero tangibile, partendo dalle origini ed estrapolando una carica dirompente capace di immagazzinare una forza che in chiave live si fa veicolo per raccontare e raccontarsi.

Da Elefante fino a Salvati il viaggio è una spirale, ricco di attese e sacrifici, la testa tra le nuvole, ma con i piedi sempre per terra, quelle parole poi che arrivano diritte al cuore e non ti lasciano più, questi sono i Majakovich e questo è il loro Elefante.

 

Nero – Lust Soul (Autoproduzione)

Viaggio negli abissi di sola andata, viaggio senza ritorno, anime nere che si scuotono e tentano di ricucire il tempo perduto, in stato di grazie e rumorose presenze si dipanano all’orizzonte, concentrando il divincolato giorno verso un sogno che può e che appare lontano, che contrasta l’esigenza di volere ottimizzare il nostro tempo, anche se il tempo non conosce forma e inghiotte ogni nostra speranza, ogni tacito accordo, ogni lieta notizia che ora come ora intravede poche possibilità nel domani.

Anni ’80, anni ’90, il piacere della scoperta e il calarsi dentro a mondi lontanissimi, distorti e compressi, mai lasciati al caso, alla ricerca di quelle anime perdute che fanno tanto coscienza e che si insidiano in sostanze multiforme devastanti, rock  and roll, molto più rock del dovuto e meno roll, intrecciato ad un punk atomico di inizio millennio che sa di nero tossico, di nero crepuscolare.

Ecco allora che il disco omogeneo è un anfratto di quella oscurità che ci appartiene e ci rende partecipi di una vita incompresa e governata da altri, di una vita al limite che ha bisogno di essere riscoperta.

E la notte lo inghiotte inesorabile.

L’introverso – Una primavera (RuggitoMusic)

Influenze di un oceano passato sdoganato tra navi e uccelli in volo capaci di tramutare la marea e condensare quel poco che avanza in pioggia sovrabbondante a ricoprire i campi, a sperare in un raccolto migliore e a disegnarci diversi almeno per una volta.

L’introverso è una band milanese che al secondo disco esplode, esplode di rabbia e malinconia per ciò che mai saremo e si trasforma in un qualcosa che prende forma lungo l’ascolto degli undici pezzi presenti, tra un rock d’oltremanica che abbraccia gli anni ’90 in modo appariscente, quasi copiato, ma che si appropria di uno stile unico quando parte la voce; il cantato convince raccontandoci di un mondo opulento visto dalla periferia, sottolineando le proprie radici e le proprie aspirazioni, ben lontane dai mondi patinati dei giornali e della Milano bene.

Un disco che racconta di come la vita sia accompagnata dalle distorsioni quotidiane abbondandoci di inutilità svelata che dobbiamo con forza, ogni giorno, cercare di lasciarci in disparte.

Prodotto artisticamente da Davide Autelitano dei Ministri, il disco apre con la bellezza sopraffina di Tutto il tempo per avanzare sempre più fino al gran finale di Una primavera, alla ricerca di tutte le cose perse, del tempo perduto e di quelle emozioni dell’indole umana che sono parti vitali di qualsiasi infinito.

Teo Manzo – Le Piromani (Libellula/Audioglobe)

Disco stralunato o veritiero quello di Teo Manzo, milanese, che nel suo album d’esordio affronta un concept alquanto connesso con la vita reale rappresentando in musica una Legge di Murphy dichiarata e capace di entrarti in profondità sancendo e dando senso tangibile al motto che tutto ciò che può accadere accadrà.

Noi viviamo in un secolo racchiuso da legami e fissazioni, dove l’imporre certi paradigmi che non amiamo e che non voliamo ci portano a compiere azioni e a vivere come formiche in preda ad un delirio esistenziale che non esiste, un delirio di massa e anche di messa che ci costringe ad essere uguali e omologati al pensiero dominante, dimenticando la nostra capacità cognitiva di far fronte a esigenze, seppur nella loro difficoltà, del tutto normali.

Un disco cantautorale che si domanda se la convinzione che la luna stia per cadere può essere reale o frutto di un qualcosa di imposto a cui il popolo è chiamato a obbedire, una storia d’amore che si consuma senza respirare, quasi in mancanza di ossigeno e solo gli occhi, quegli occhi possono ricordare di che cosa siamo fatti, anche se un’allucinazione, un bruciare davanti ad un corpo privo di vita, non è sempre garanzia che ciò che stiamo vivendo sia reale o immaginato, un vivere quindi di un’illusione vitale per un amore che non esiste più.

Disco conturbante e visionario, prova eccelsa come prima prova, ricca di contenuti e sostanza in cerca di nuove galassie da poter esplorare.