Lebowski – Cura violenta (Area 51 Records)

Lebowski è un tiro lisergico che lascia spazio ad impressioni suburbane e si concede ritmicamente in una psichedelia di fondo intrisa di significato e concezioni minimali che fanno dell’astrattismo musicale un punto di partenza per creare dal nulla materico un bisogno senz’altro di esprimersi e di dare spazi ad una realtà in dissolvenza. I nuovi testi strutturati, carichi di emozioni discostanti, appaiono lontani anni luce dalle produzioni passate, abbondano di introspezione e la capacità che il gruppo raccoglie è direttamente proporzionale alla qualità delle canzoni proposte: pezzi in grado di attraversare un’ondata salvifica di post-punk da incorniciare. Le destrutturazioni dei suoni come in Animali nella notte, Mi sento Uh! o la finale Journal Noir sono attimi convincenti di un percorso complesso e davvero originale, un percorso che al quarto album viene affidato interamente o quasi a Gianluca Lo Presti che ha saputo condividere idee e creatività, suoni e affiatamento per un risultato corale che ha il sapore delle cose migliori, quelle fatte con pazienza e precisione, senza lasciare nulla al caso e soprattutto senza dare nulla per scontato. Per i Lebowski, Cura Violenta, sarà il disco della maturità.

Lebowski – Disadottati (Autoproduzione)

Autoproduzione per il terzo disco dei Lebowski, dopo le parentesi con Ragno Favero, che concentrano le proprie forze e capacità su di un lavoro che sa di ingegno e follia capace di scardinare gli schemi precostituiti e dare una sferzata di elettro rock contaminato dal funk che stupisce per uso sintetizzato di elettronica non precostituita, ma frutto di un intenso lavoro sia in studio che in sala prove.

Un disco abbondante condito da testi che nel sottobosco si fanno sentire, convergendo le idee verso qualcosa che piace e che si fa solo se il divertimento sta alla base di tutte le gesta musicali che si incontrano lungo gli otto brani, un divertimento scopritore, ironico e sbarazzino, pungente quanto serve per togliere la malinconia facendo però riflettere.

I pezzi che scorrono lungo l’ascolto del disco sono pura quotidianità non proprio visionaria, ma reale, i veristi della società in cui viviamo, il lavoro alla base di qualsivoglia forma di vita manca e a catena i problemi inondano i nostri pensieri e ci sommergono a tal punto da farci inghiottire, il pesce grande che mangia il piccolo, lo squalo della finanza che ci inghiotte, noi convinti pescatori in cerca di una nuova vita, ma costretti ad essere fagocitati dalla stessa, nostra preda.

Un album amaro nella sua interezza, un amaro andante con gioia però, lo sbatterti in faccia che il mondo non va bene con la capacità racchiusa da quella pop song elettronica di nicchia, tra Devo e Kraftwerk, che ammalia e convince.