iasevoli – Bolero! (Lavorare Stanca)

Si naviga seguendo i fiumi dell’America più nascosta percependo un senso degno di essere ricordato, un valore aggiunto che si sposa con la ricerca di un’estetica fatta di rumori in lontananza e atmosfere desertiche dove imbrigliare la propria mente in una tempesta di sabbia immaginifica e purificante, non sapendo quando si parte, non sapendo quando si arriva, il viaggio è una costruzione stratificata di elementi contrapposti che iasevoli sa percepire, comprendere e farci vivere attraverso melodie sbilenche inframmezzate dalle tastiere di Fabio De Min dei Non voglio che Clara, in veste qui anche di produttore del disco stesso, per 19 pezzi che si aprono a intermezzi strumentali ricordando la bellezza dell’attimo appena concluso, in citazioni letterarie che si fondono con la vita di tutti i giorni, con la nostra realtà, da Hugo Pratt e il suo personaggio più celeberrimo Corto Maltese in Una ballata del mare salato e Mari del sud a Salgari in Tigre del Bengala fino a raggiungere una bellezza che è essenza stessa del viaggio in canzoni come Un’estate distratta e lasciandosi andare alla deriva metafisica in pezzi come Horror che ben si lega con La realtà, quasi a comporre un quadro ben congegnato e stratificato da ascoltare in dissolvenza fino al nuovo inizio; per approccio Gianluigi Iasevoli, voce e paroliere del gruppo, ricorda attraverso il suo cantato secco e teso, Federico Fiumani dei Diaframma, alle prese però con un allargamento della visione delle cose che sorprende per lucidità impressa, in un disco sicuramente originale spruzzato per certi aspetti da un punk emozionale impattante e sincero, a tratti onirico.

Paolo Cattaneo – Una piccola tregua (Lavorare stanca)

Ricreare atmosfere sonore e innevate non è sempre facile, anzi si rischia di rincorrere la moda del momento senza guardare in faccia la sostanza, qui però, nel nuovo album di Paolo Cattaneo di sostanza ce n’è da vendere, perché con questo quarto disco, il cantautore bresciano ci trasporta dentro a paesaggi meritevoli di ascolto, tra un’introspezione che si apre a sonorità elettroniche bollate ’80 mescolate al gusto del sopravvivere oltre ogni aspettativa, inseguendo un’esigenza di abbandono e comunione con il proprio stare dentro, con il proprio stare meglio, per un disco che è ricerca musicale si, ma perlopiù ricerca di se stessi; il nostro si interroga avidamente e sposa il gioco multiforme e multisfaccettato del cantautorato che compie una parabola ascendente da Battiato, fino al più recente Colapesce, passando per le solitudini di un Cristiano Godano dei tempi migliori, per farci respirare la completezza di un bosco autunnale che si prepara a ricevere la neve: salvifico bisogno di nuova aria a coprire i prati e le nostre anime errabonde.

Notevole la proposta di Paolo che duetta nella riuscita, Se io fossi un uomo, con Lele Battista, notevoli i giochi chiaro scurali che ci trasportano fino ad arrivare ad un completamento meraviglioso del disco nel trittico finale Bandiera, La strada è tutta libera e Fragili Miti, per un album capace di riscaldare i nostri freddi cuori invernali, un album che, a mio modesto avviso, entrerà di diritto tra i più belli e significativi del 2016.

Antonio Fiabane – Torna di moda il binocolo (Lavorare stanca)

Cantautore introspettivo che raccoglie l’eredità dei tempi per trasformarla in un campo di grano estivo da dove poter raccogliere le migliori spighe per rendere il raccolto un frutto da scoprire giorno dopo giorno in una malinconia che accenna ad aperture velatamente cantautorali di un tempo passato con contrapposizioni eleganti e soprattutto coraggiose.

Antonio Fiabane è un cantautore con la C maiuscola, uno che da senso alla parola, al substrato che essa contiene per consegnare agli ascoltatori una prova dove la voce, di un Gaetano Curreri malinconico, si scontra con la realtà moderna, creando un post cantautorato che si discosta notevolmente dalle proposte di queste annate; Antonio guarda più al passato che al futuro, questo continuando a mantenere un legame con ciò che lo circonda, essenziale per la sua poetica.

Proveniente da Belluno, il nostro non condivide soltanto, con la band per eccellenza della provincia i Non Voglio Che Clara, l’amore per il tempo che fu, ma il disco è co prodotto dallo stesso Fabio De Min esponente di spicco del gruppo.

Gli arrangiamenti sono delicati, quasi in secondo piano e lasciano una visione d’insieme che lascia trasportare il suono lontano e in primo piano una voce personalissima e penetrante, esigenza e caratteristica essenziale per l’attesa che avanza fino al gran finale.

Torna di moda il binocolo è un disco che ci permette di vedere con altri occhi ciò che è lontano, è tanta sostanza, è un amarcord perpetuo, una fotografia di quelle a grana grossa, pastose, di un bianco e nero oltre l’apparenza e il cliché, oltra la moda: una nostalgia per i tempi migliori che non torneranno più.

Valentina Dorme – La estinzione naturale di tutte le cose (LavorareStanca)

Sei anni non son pochi per assaporare un disco, dopo questo tempo , che parla di piccoli fatti e vicende quotidiane narrate con lo spirito del poeta d’altri tempi che si contorce come essere attorno all’albero della vita.

Sei anni e il ritorno dei Valentina Dorme si comprende in soli pochi ed essenziali fraseggi, niente paroloni, niente mezze misure, un arrivare diritti al significato recondito, celato, amorevole e disincantato dove le rime non sono chiamate per narcisismo fine a se stesso, ma il tutto si scioglie per relegare una poetica piena di lacrime e sudore.

I Valentina Dorme si consumano raccontando la realtà , si consumano raccontando una parte di Noi stessi che non vogliamo far uscire e inevitabilmente si fanno portavoce ora più che mai di quel cantautorato impegnato che abbraccia il filo sottile del rock per annientarci ancora una volta con frasi dal sapore dolce amaro e una costante ricerca negli arrangiamenti che non sono altro che sali scendi emozionali incostanti, privi di schemi del tutto logici, ma capaci nel colpire di sorpresa, in modo repentino e quasi suadente, a segnare ancora una volta il cammino per compiere l’impresa.

Un disco di protesta che cela un’aria di mistero e di tenebra, quasi a parafrasare una fine del mondo inevitabile, una catastrofe nelle nostre mani, Noi unici padroni del nostro destino che ci annientiamo per sopravvivere relegando il tutto ad una fine mortale.

Canzoni come A colpi d’ascia o Ricordi, cagna? ne sono l’esempio, passando per la storia in Lucido Sentimenti IV e l’emblematica Il circo lascia la città concludendo il tutto con la canzone testamento Shanghai.

Un album personale e carico di quel bisogno di cambiare che si accosta prepotentemente alla fatica di essere giorno dopo giorno noi stessi, ancora una volta, con le nostre speranze e le nostre illusioni, il chiacchiericcio di contorno e il nulla che avanza.

 

Là-bas – Là-bas (Lavorare stanca)

Una band che raccoglie perle nei fondali marini, cercando solo le migliori e consegnandole come un dono a noi ascoltatori intenti ad assaporare qualsiasi sfumatura della bellezza.

Una bellezza che si fa ecoverco poetico e portavoce di un’analisi della parola amore che, svalutatasi nel corso di questi anni, rinvigorisce come pioggia leggera a bagnare un popolo poco attento a questi interventi raffinati, sperando invece nella rima facile e nella canzone usa e getta da consumare durante l’acquisto della maglietta di moda.

I Là-bas non sono questo anzi sono tutt’altro: sono una band presente da molti anni nel panorama della musica underground italiana, una band che con questo disco omonimo e grazie alla collaborazione di Fabio de Min (Non voglio che Clara) segna una traccia importante nel panorama della musica cantautorale.

Ci si possono ascoltare I Perturbazione che dibattono Sartre con Francesco Bianconi, tanto è il simbolo perduto, il concetto predominante da rincorrere e tenere a se, tanto è il senso della vita, quella vita che non ha senso a priori se non è vissuta, ma acquista valore in base al senso che sceglieremo per essa.

Le canzoni dell’album sono un concentrato di amori e illusione, di apparire lontano, in fondo, per non rischiare di avere ragione; l’essere umili già nelle piccole cose il significato forse più vero del disco che in canzoni come “La fine dei romanzi” , “La sera” e “Il nostro periodo americano” raggiunge un infinito ipotetico di immagini e parole da ricordare.

Una prova di notevole struttura che mi auguro possa fare emergere questi ragazzi piemontesi all’attivo dal 2003, un album questo che dovrà raccogliere il giusto consenso all’occhio degli esperti di settore per lanciare in aria questo aquilone cullato dalla magia del vento, laggiù sul mare.