Rio sacro – s/t (Jap Records/L’amor mio non muore dischi)

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Elementi disturbanti e conturbanti. Elementi elettrici che si fondono all’interno delle vicissitudini della vita moderna per creare ispirazioni, sensazioni, nuvole sulfuree. Elementi ridondanti questi, ma efficaci che coprono l’etere di suoni a tratti strampalati, ma essenziali per delineare un quadro complesso, un quadro generale. Il duo umbro Rio sacro ci accompagna all’interno di un paesaggio aspro, ma rigoglioso. Un paesaggio dove arte e natura si fondono per dare vita a strutture in rapida ascesa nell’ottenere i risultati sperati. Ci troviamo difronte ad una sperimentazione percepibile, palpabile. Nulla di omogeneo, ma piuttosto un’eterogeneità sospinta a creare le atmosfere già ascoltate in band come Calexico, Iron & Wine ed impreziosite per l’occasione grazie ad un sentore di italianità presente in tutte le tracce. Il disco del duo umbro è genuino e terreno. Un mix importante di generi a ricoprire di verdi speranze il desolato deserto.


Please Diana – Pollyanna (Jap Records)

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Impressionanti visioni in risalire che rievocano paesaggi urbani in grado di trasformare l’etere in sostanza da annusare, percepire, toccare, fare propria. Il terzo disco dei Please Diana incorpora strutture rock alla Foo Fighters per imbrigliare momenti di circostanza in grado di emozionare e accendere attimi, accendere momenti che diventano cavalcate sonore, diventano amore nei confronti di ciò che riesce ad emozionare oggi più che mai. Sono visioni, istantanee, sono racconti in primis che ci fanno scoprire l’importanza dei rapporti, ciò che si lascia, ciò che si trova. Dalla strumentale e intensa Aria fino a Io starò bene i nostri intessono trame di velluto che deflagrano, diventano mina vagante ascolto su ascolto.


Diraq – Outset (JAP Records)

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Velata introspezione e suoni che si dimenano dall’interno in una cupezza d’oltreoceano capace di sfondare acclamate visioni di porti lontani, di sogni e incubi da esplorare, di velleità lasciate in disparte per raggiungere, in un solo istante, il nocciolo della questione. Tornano i Diraq con un nuovo Lp. Sembra di ascoltare Tom Jones intrecciare cavalcate alla Nick Drake e il sapore discostante dei Black Rebel Motorcycle Club in un tutt’uno con la forma canzone che non delude mai e scava, scava negli abissi di ciò che ci portiamo dentro per emergere con suoni lontani, suoni che accarezzano e nel contempo, come pugno allo stomaco, intercalano movenze e sudano parole sui palchi di questa e altre vite. Outset è un disco cupo, un disco che non cerca visibilità, si muove nell’ombra e quando meno te lo aspetti scalda, in modo unico e assoluto, i tratti distintivi che ci caratterizzano e ci rendono unici.


JM – Uno (Jap Records)

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Rap sudato ed eviscerato a dovere. Lontano dalla trap di basi preconfezionati e testi inascoltabili. Uno è un disco immediato, ma complesso. Un album fatto da un giovanissimo musicista che ha scelto la via meno immediata per fare successo. Canzoni supportate e create da una band, canzoni nate da una chitarra e portate alla ribalta grazie appunto al sudore di una sala prove, alla condivisione di un momento. Ecco allora che il nostro JM, all’anagrafe Matteo Fioriti, ingloba sensazioni contemporanee e le trasforma grazie ad un apparato concentrico e carico di un’architettura portante e solida, mai lineare, ma piuttosto mutevole e pronta ad emanare sempre nuove e continue emozioni. Funk sovrapposto al soul in un’intrigante connubio capace di dare la giusta dose di soddisfazione e di risultato. Uno è un album che riempie l’etere di cose importanti, un disco per certi versi maturo e sicuramente fuori dalla visione moderna di musica usa e getta.


Il gigante – La rivolta del perdente (Jap Records)

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E’ un fiume in piena costante che attanaglia, abbraccia, respinge con forza le simultanee presenze di un’era che esplode e percepisce gli attimi come fossero scintille da far scoppiare per rimarcare ancora una volta il proprio nome o perlomeno il proprio stato di appartenenza. Il gigante è un progetto musicale, una band fatta di chitarre in deflagrazione continua formulate per alternare momenti di tranquillità con un qualcosa di movimentato e concentrico capace di entrare a piè pari attraverso mondi dissolventi creando immagini di fondo accompagnate da suoni che ricordano FASK e Majakovich per una potenza mostruosa, a tratti assordante, da recepire appieno in chiave live. La rivolta del perdente è un disco che ti entra nell’immediato all’interno delle vene, un album caldo con delle grosse potenzialità da verificare su di un palco, un album che compie un viaggio concentrico di sola andata verso le guerre che ci portiamo dentro e le sconfigge lasciando in disparte l’ego di un mondo che ha smesso di lottare. 


Monkey Onecanobey – Moco (JAP Records)

Disco fumettistico pieno di rimandi ad un mondo onirico e fantasioso ricco di colore e psichedelia lisergica pronta ad inglobare le elettricità e le sulfuree presenza di un rock sporcato ed eccentrico che vede una beat box comprimersi fino a lasciar sviscerare a colpi di hip hop un rock oltraggioso e di certo originale. I Monkey Onecanobey sono un duo davvero sperimentale e particolare, due ragazzi amanti di una musica in primis fatta con il cuore e sviscerata al suolo in modo inusuale, grazie ad un amore per sonorità d’avanguardia e quegli incrociatori sonori che vanno dai White Stripes fino a i Black Keys passando per i Beatles prodotti da un anacronistico Puff Daddy. Moco è un disco di una caratura davvero importante, un album che permette ai nostri, attraverso le otto tracce prodotte, di garantirsi un posto tra le migliori uscite di questo periodo, tra l’instabilità del momento e il desiderio di gridare sempre e comunque il proprio credo.

Virginia Waters – Skinchanger (JAP Records)

Copertina di Virginia Waters Skinchanger

Tuffo sonoro rimediato dagli anni ’90 dove il rock si mescolava all’indie per originalità della proposta e per intenti non del tutto sottovalutati, ma anzi lasciati a sedimentare per poi esplodere in necessità cosmiche che hanno reso grande un genere che ancora oggi porta con se numerose angolature influenzanti la musica moderna. L’anima dei Virginia Waters è Maria Teresa Tanzilli che abbandonati i progetti passati decide di costruire una band attingendo sostanza invidiabile da altre formazioni locali come dai The Rust and Fury e dagli OH!EH? tanto per citarne alcuni. Il risultato è un rock sbarazzino, altre volte un po’ più cupo in grado di raccontare un lato quasi animalesco, il bisogno di gridare il proprio senso di non appartenenza e quella sorta di potenza post adolescenziale in grado di scardinare gli ordini precostituiti e manipolando a dismisura le carte disponibili, le carte in tavole, con passaggi sonori originali e taglienti tipici di una tradizione che sembra non voler scomparire.