The Gluts – Warsaw (Autoproduzione)

glutsRumori e suoni dall’oltre mondo si riassociano ad un vibrato consolatorio che lega una voce ricca di echi sonori quasi ad arrivare da un altro pianeta, da un altro antro dove rifugiarsi, dove far rifugiare la bestia che è in Noi pronta a scatenarsi contro le inesorabili oppressioni che circondano questo primo disco dei “The Gluts”.

La band milanese formata da Nicolò Campana, Marco Campana e Claudia Cesena riassume un concentrato di dark, new wave e rock in modo quasi naturale, quel piacere estinto di fare grande musica in modo sincero e oltremodo sicura.

Sicura del fatto di avere degli estimatori che si sciolgono sotto il possente incedere del basso e della batteria che fanno da apertura lunare a chitarre e voce di altri tempi.

Si possono ascoltare echi di Joy Division, ma anche cose molto più recenti come Editors o Alice in chains, tanto il passaggio tra varie epoche storiche riassume in modo perfetto il modo dei The Gluts di suonare e comporre.

Un disco quindi fatto di momenti eterei e psichedelici alternati ad un suono più battuto e meno immediato, ma sicuramente di pregevole fattura come in “Rag Doll” o nella progressione sonora di “Iceman” a ricordare il fortunato esordio dei Vanity.

L’album poi si apre al lato b, dato che questo è disponibile solo in vinile numerato o nella canonica forma in downloading e lascia presagire nuove forme di comunicazione con pezzi sostenuti lasciando il finale alla bellissima “Don’t believe in fairy tales”.

Un gran bel disco questo, complesso, maturo e in parte originale, dove gli elementi si associano in modo quasi magico, a formare quell’alchimia segreta che fa girare il mondo.

Ilaria Viola – Giochi di parole (Lapidarie Incisioni)

Nella mia piccola casetta ultimamente arrivano delle maledette buone cose.

Tra gli ultimi cd trovati nella cassetta della posta spicca Ilaria Viola, cantautrice romana, che dopo numerose esperienze come la creazione del collettivo “L’Orchestra del Condominio” si lascia andare verso mondi diversi e ricchi di sfaccettature confezionando un disco d’esordio, contaminato da influenze extra italiane ed extra europee toccando principalmente quel genere legato ad una bossa – nova/samba e dal folk più cantautorale e indipendente.

Otto sono i brani che si snocciolano in modo sapiente come l’interno illuminato di una sala prove circondata da maestosi alberi che riparano dal sole e ricreano le istantanee per un sicuro avvenire.

La cantautrice confessa di aver creato questa perla musicale perché in qualche modo ne aveva bisogno, lo sentiva dentro di sé, quel sé che si appresta ad esplodere così vero, essenziale, contagioso: un flusso continuo di parole che rende autobiografico ogni passo nel cammino segnato.

Ci sono echi di Vinicio Capossela, ma anche il ritaglio di una voce inconfondibile quella di Petra Magoni che ispira il cantato di Ilaria per farla ascendere verso nuove altitudini in divenire.

Pezzi che si fanno facilmente ricordare sono certamente “Le buone intenzioni” e la visionaria “Come d’estate”.

Un disco per tutte le stagioni, sperimentale quanto basta per portare ondate di freschezza continua.

Perché alla fine sono i giochi di parole quelli che ci fanno sentire vivi e che ci fanno comunicare nuove cose, nuove idee e nuove sensazioni. Grazie Ilaria.

Mentivo – Io sono la verità (Libellula Label)

Dirompenti  e hard, eleganti e allo stesso tempo sincopati, ricoperti di cioccolato amaro che trasforma la loro città natia in una cascata di fluido incorporeo dove lasciarsi andare alle parole che non vanno per il sottile, ma che con affronto dimenticano il passato per sputare in faccia al presente, fatto quest’ultimo di sogni infranti e caramelle troppo salate da poter succhiare ancora.

In bilico tra sonorità cantautoriali e indie rock e andando a braccetto con melodie stile Appino e co. i Mentivo confezionano un album ricco di percezioni extrasensoriali dove storie di tutti i giorni combattono inesorabili contro un muro di granito inespugnabile.

Prodotto e registrato da Giacomo Fiorenza (Moltheni, Offlaga, Marco Parente, Paolo Benvegnù) e Andrea Suriani (My Awesome mixtape, I cani, Gazebo penguins), l’album segna in modo netto e radicale l’esordio di questa band umbra che si muove attraverso territori poco battuti e dove gli appoggi sembrano mancare, anche se la qualità si sente lungo i dodici pezzi.

La strumentale “Quello che possiamo” apre bene in modo indie-arcano e passa con velocità alla “Gente comune”: inno del disco dove al proprio interno troviamo gli elementi che caratterizzano l’interezza delle composizioni che susseguono.

“Gli ex” è poesia lavorativa, mentre “Amore a tre” ricorda il Brondi migliore.

Si passa velocemente alla ballata “A casa di lunedì” passando per lo stoppato beatlesiano di “Vertigine”, chiude bene l’evocativa strumentale nel finale “Tentativo di chiusura” che lascia in qualche modo le porte aperte a ciò che verrà.

Un album praticamente perfetto, un disco che si cimenta con una prosa innovativa, senza peli sulla lingua e allo stesso tempo con uno stile affascinante; un gruppo che a mio avviso dovremmo tenere sott’occhio, soprattutto in chiave live, territorio dove i nostri si confermeranno forti del fatto di non essere una sola immagine riflessa in uno specchio, ma materia pensante e preponderante.

 

Peregrines – Proximi Luces (Autoproduzione)

Melodia ultraterrena che abbraccia il suono degli angeli e li riporta inesorabilmente a terra.

Tra la gente comune tra luoghi dove poter rilassarsi ascoltando echi di Fleet Foxes, Simon e Garfunkel e Kings of convenience, con un pizzico di Of monsters and man mescolati al buon Vernon in arte Bon Iver.

Strumenti che danzano e si divincolano tra le note di pianoforti, banjo, violini ridenti  e chitarre a creare quel circolo di aspirazioni che hanno un concreto sviluppo nell’incedere dei brani.

Una musica quasi sussurrata a porre in primo piano ciò che è importante: la luce.

Un disco sulla parte buona del mondo, un disco di speranza e caparbietà che prende l’indie-folk d’annata e lo rivisita  in modo originale, lasciando intendere una ricerca soprattutto sul piano vocale e di voci addizionali che si presentano in maniera puntuale a fare da sfondo a Sean artefice assieme agli altri Peregrines di questa magia musicale.

Di magia si tratta e le basi per un incedere evocativo ci sono tutte, un album quindi che prende il folk, associato spesso alla parte malinconica di ognuno di noi, per trasformarlo in sostanza in perenne mutamento.

Un piccolo gioellino da avere, da ascoltare e da far conoscere a chi ci regala un sorriso di luce.

La madonna di mezzastrada – Lebenswelt (Il mondo della vita) – (Autoproduzione)

Raffinato indie rock agrodolce che si staglia inesorabilmente lungo le giornate come spennellate di nero su di un muro già sporco dalla fuliggine di tutti i giorni.

Quei giorni spesi  a ricucire, a ristabilire un ordine, che non è mai stato ordine, ma solo un riporre su delle mensole dell’infanzia automobiline dalle porte aperte che prima o poi verranno chiuse.

E’ questo il senso del disco e della vita che vogliono dipingere “La madonna di mezza strada” impegnata a ristabilire il senso principale dei nostri cammini, delle nostra parole, delle nostre emozioni.

Testi introspettivi, ammalianti quanto basta, che possono splendere di luce propria solo durante la lettura, solo dopo aver letto le prime parole de “Il mondo della vita”.

Ecco allora che “Lebenswelt” si concentra sulla forza dirompente delle parole associate al vuoto che avanza, che si contrappongono a suoni lisergici di matrice anni ’90 con incedere di chitarre distorte, ricordando “CSI” fra tutti.

Un album ricco di istantanee, quasi a voler fermare il tempo, quasi a voler raccontare sprazzi di vita, di un mondo che ci appartiene si, ma di un mondo che allo stesso tempo risulta decadente quanto basta per far si che le nostre azioni diventino pura routine d’intrattenimento.

Un gruppo da tenere sott’occhio nelle prossime uscite, direi  una vera sorpresa, forse la miglior sorpresa del 2014.

Evacalls – Seasons (Autoproduzione)

Avete presente i Placebo che suonano seduti attorno al fuoco in una spiaggia a metà Luglio? Ecco questi sono gli Evacalls.

Melodie raffinate in lingua inglese, che si lasciano dietro il pop degli anni ’90 per trasformalo con grande stile e concretezza in un buon mix tra indie e brit-pop.

Un album che racconta l’incedere delle stagioni con piglio genuino e scanzonato, con un uso sapiente si synth e con la capacità di chi da tempo ha nel cassetto una manciata di pezzi e vuole farne un disco da lasciare come traccia del proprio passaggio.

Ecco allora che Giuseppe Guidotti ricerca gli altri musicisti da aggiungere al suo progetto e in breve tempo la squadra si amplia con l’ingresso di Vincenzo Augello alla voce, Alessandro Martinetti alla batteria, Alessandro Ghiotto alla chitarra e Matteo Borla al basso.

Ne esce un suono puro, raffinato e al contempo ricercato; il tutto si denota da pezzi come “Give me a reason”  e “Away from her(e)” che ricorda i defunti “Zwan”.

Bellissime poi le parti strumentali di “Monday” e “The man who lives on the moon”.

Ecco allora che le finestre si aprono per lasciare spazio ad una ventata di aria fresca , in attesa della primavera che deve arrivare, come fosse un rito continuo, essenziale e esistenziale quello di correre nei prati vicino alle farfalle, quello di seminare buoni frutti, quello di ascoltare buona musica.

Gli Evacalls sono tutto questo e con un suono così non si può aver paura nemmeno del temporale

Call me Platypus – Shame on (Autoproduzione)

Acidi e puramente rock and roll questi “Call me Platypus” si fanno portavoce di un’immediatezza strillata ai quattro venti in attesa di creare un vortice di tensione crepuscolare che esplode in grida e ritornelli.

Un piccolo ep che racchiude potenza ed energia sonica, cambi di tempo repentini e sincopati accompagnati da una virata di riflessi ultravioletti ad incrinarsi nello specchio della vita regalando emozioni a non finire.

Il tutto è mescolato ad una sapiente new wave contaminata dal punk fine ’70 e dal più moderno “targato 2000” che in qualche modo incrocia la rabbia di “At the drive in” al pensiero introspettivo di gruppi come “Editors”, passando per le chitarre della “Gioventù sonica” e dei “Green day”

Il piccolo disco vede l’apertura di “Indians” battagliera e corrosiva, passando per le forme più rock soft che si aprono nel finale di “Conduit engine”, “Sonic samba” e “Pegasus plumcake” rappresentano il punto di incontro della melodia con la poesia lasciando l’epilogo alle improvvisazioni pumpkiane di “Neomelodic goes intergalactica”.

Un disco ricco di spunti questo, che riesce ad amalgamare diverse situazioni da punti di vista di certo particolari e originali. Una buona prova che lascia sperare in un’opera più piena e compiuta nei prossimi mesi/anni in grado di regalare ascolti nella quasi follia della proposta. Promossi.

Karne Murta -Swingin’ taboo (Masnada records)

Istrionici quanto basta per dare un tocco di colore al grigio che incorpora giornate prive di senso, quasi un continuo cambio ritmato che ammicca a sonorità spensierate, senza però dimenticare i contenuti, legati per l’occasione ai giorni di festa che si incontrano per dare vita ad una esplosione senza fine.

Ci sono milioni di influenze in questo nuovo disco dei “Karne Murta”, quasi un mappamondo poliglotta, una torre di Babele lasciata al tempo che grazie alle incursioni musicali si apre verso mondi lontanissimi, distanti anni luce, grazie all’utilizzo consapevole di canzoni scritte in lingua e adottando l’espediente e la capacità degli strumentisti di trasformare in poesia ogni singola nota che li accomuna.

16 canzoni che spaziano da un genere all’altro prediligendo quello stile un po’ folk- swing che caratterizza chi con capacità vuol fare della musica un motore inesauribile

I testi a prima vista sembrano disimpegnati, ma a leggerli bene si colorano di quella purezza espressiva tipica di solo poche realtà italiane.

Ecco allora che il tutto si trasforma in una grande coreografia circense, in cui al suono dello swing strombettante fanno capolino i clown e gli animali; tanto simili ad uno spaccato di vita italiana, ad uno spettacolo che agli occhi di tutti risulta sempre uguale nella sua tristezza e amarezza.

Un disco anche di denuncia quindi, che si denota soprattutto in pezzi come “Clown town”, “Stooggey cat” e nel finale con “Buco nero”.

Spensierati quanto basta, questi ragazzi ci regalano un album ricco di ironia e capacità mutevole di trasformazione in divenire perenne, verso forme nuove di comunicazione.

The Crystal Session – The Crystal Session (Seahorse Recording)

Immergersi nelle ombre paradisiache di un’eclissi che si sta per svelare.

Un attimo di luce coperta dalle vanità appese ad uno specchio per sempre o quasi.

Una ricerca attenta e soddisfacente alla cura elettronica che trasmette caparbie trasformazioni degne di catenelle acquose che ti penetrano per non lasciarti mai, per non lasciarti sperare, per non lasciarti uscire da quel sogno voluto e prolungato, sottostimato e poco gentile qual’è il sogno della vita.

I “The Crystal Session” sanno aprire nuovi confini, far nascere atmosfera lontana dal tempo, ma vicina al cuore, con una musica che si inabissa nell’animo più nero per regalare attimi di luce sotterranea, arricchita da stranezze strumentali e impreziosita da un’evocativa perla vocale.

Marinella Dipalma e Francesco De Palma giocano a interpretare una sorta di Radiohead, legata da un filo sottile con Air e con la scena più sotterranea di Cocteau Twins.

Un gioco meraviglioso che incanta grazie a pezzi come “Hyperion” e “Narcolepshymn” passando per “Raven” e la miracolosa nordica “Opalescent”.

Un disco composto magistralmente e suonato altrettanto magistralmente che sottolinea la maturità di questo duo che tutti potrebbero invidiarci.

Grande prova questa: un passaggio dalle tenebre alla luce, un ricordo di un passato attraverso un fantasma opalescente.

La parola persa – Tutta vita! (Autoproduzione)

Descrivere questi quattro personaggi dall’accento tipicamente romano è molto difficile, se non impossibile.

Sembra di ascoltare una vecchia radio a manovella in cui tutte le molle presenti al proprio interno sono pronte a scoppiare, ingranaggi oliati alla perfezione per dare un mix strampalato al mondo che circonda “La parola persa”.

“Tutta vita!” è il loro primo album in cui diversi generi si amalgamano per creare una perfetta commistione tra “NoBraino”, Elio e soci e i primi “Marta su i tubi”

Gli accostamenti sono del tutto inusuali anche tra gli strumenti: contaminazioni di fiati, musica mediterranea e tribe sound che non possono che farti scuotere piede, testa e cuore all’infinito, fino a raggiungere un esasperato finale che ti crea un bisogno di ricominciare di nuovo la corsa verso una musica senza tempo.

Gli accostamenti dei suoni e delle parole sembrano posti in uno spazio privo di appigli e punti di riferimento, invece dopo più ascolti riesci a concentrarti su un qualcosa che con difficoltà si sottrae alle fatiche della mente.

Come dicono loro: “bisogna unire i puntini” solo così si possono comprendere gli arcani misteri dietro a pezzi come il mega singolone “Il sesso tricolore” fino a “Va tutto bene” passando per l’ammaliante “El tango del florista notturno”.

Un prendersi non troppo sul serio questo, che ha fatto si che la musica creata dalla “Parola persa” sia incanalatrice di nuova linfa e da esempio per una fantasia sempre in evoluzione, verso nuove strade.