Med Free Orkestra – Background (CNIMusic)

Multietnici e colorati che inglobano colori da ogni luogo del mondo mescolando con una certa eleganza canzoni che si divincolano in modo deciso e predominante lasciando a bocca aperta per la varietà di suoni generati che decollano pian piano verso una meta non sempre prefissata, ma che fa del viaggio un punto di partenza per scoprire, imparare, ed esportare cultura.

Una cultura che si fa ricca di sfumature e impressioni, carica di quel movimento folk etnico che impreziosice momenti di calma e phatos a danze e ritmi del mondo quasi fosse una world music in continuo divenire, sotto le stelle in una spiaggia affollata.

Ascoltare i Med Free Orkestra, nel loro nuovo album, è come ritrovarsi nel Gran Bazar di Istanbul tra stoffe impregnate di colori accesi e spezie profumate: un crocevia non solo per gli occhi, ma anche per l’anima.

Ecco allora che le canzoni si impreziosiscono grazie a sempre nuova e costante linfa partendo da African Move passando per l’introspettiva Ballata di San Lo’, lasciando posto alla corale Dondolo il mondo e concludendo il disco nell’incedere di Pizzica dello scafista.

12 componenti per 10 canzoni, un concentrato di viaggi e parole di altri tempi, di altri mondi, quasi fosse un messaggio universale di speranza.

Vandemars – Secret of gravitiy (Ultraviolet Blossom, Cave Canem D.I.Y. Records)

Profonde lance in divenire che affondano le punte in carni deboli e ricche di trasparenze quanto fantasmi di una terra lontana che si risvegliano per dare vita a una manciata di pensieri cupi e oscuri raccolti in prati neri di fiori leggiadri leggeri.

“Vandemars” è tutto questo, un racconto segreto, lasciato in una bottiglia di vetro a origine del tutto, dove l’amarezza viene rigettata verso forme nuove di contemplazione, grazie alla presenza di tre musicisti che sanno esaltare una voce che si identifica facilmente con la canadese “Morisette”, ma che guarda con un occhio anche alla musica dei “The Gathering”.

14 tracce che si dipanano tra forme sonore in grado di creare un circolo di poesia per l’ascoltatore costretto ad immedesimarsi in un mondo generato per l’occasione e cucito su misura come un abito per un bel giorno di cambiamento.

Sonorità esistenziali in testi che vorrebbero esplodere e lo fanno nell’utilizzo di “parole colorate” che si incanalano trasportate dal vento.

Una prova che dimostra grande grazia e forte capacità estetica, imprigionata da una buona dose di autodeterminazione che a mio avviso è dimostrata già nelle prime tracce del disco.

Un album pieno di tutto ciò di cui uno ha bisogno, un album che non scompare come fantasma, ma muta verso un posto migliore dove vivere.

KOO – Marea (Autoproduzione)

Cantautorato che si mescola al Brit pop con venature di fantasticherie emozionali che si disintegrano in sali-scendi sonori compressati da una voce pulita e sincera, quasi a rincorrere sogni sperati e voluti.

I Koo ci trascinano nel vortice della loro marea consegnando agli ascoltatori un EP ben congegnato e costruito che intreccia sogni acquatici a melodie che entrano nella testa e non escono più tanto facilmente.

Una marea che sale fino a controllare il volo più libero fino a scendere a temibili profondità in sei tracce che raccontano di amori, illusioni, speranze; un vissuto generato con linearità nella sua interezza, nell’abbandono del vivere, nella grazia della vita.

Il genere è una commistione d’oltremanica di suoni distorti che ricordano l’alternarsi pulito/impazzito di Greenwood e soci con scalate di puro intrattenimento sonoro ricordando Editors e Coldplay dei primi album.

Un disco perfetto nella sua semplicità, un album da mandare in loop fino a dimenticare i problemi che ci attanagliano, nella speranza che il suono distrugga tutto ciò che è male dentro di Noi.

Gray – Sessantanove in cerchio (NewModelLabel)

Una voce che meraviglia al primo ascolto, come immensa montagna che si staglia al cielo, granitica, impostata, che è capace di sussurrare emozioni anche da una distanza inestimabile; come quel sapore di pane mattutino che riscalda e riempie, che si intravede da lontano e che regala sprazzi di inedita consapevolezza e sguardo al presente.

La direzione della barca è stata segnata già a fine anni ’80, ma in questi anni oltre che alla novità del cantato in italiano, il nostro Gray si è perfezionato, facendo un’ottima commistione sperata, nei pezzi che lo caratterizzano maggiormente.

La sua voce richiama espressamente il soul di oltre frontiera, quasi fosse una naturale evoluzione del divenire, mentre la musicalità strizza l’occhio al rock più classic che però si divincola facilmente dagli stereotipi del già sentito e lascia dietro di se una scia di luce illuminante.

Pezzi come Cose od Ho sentito dire entrano facilmente nella nostra testa per non fuggire più, mentre Dormi dolce dormi ha quel sapore radiofonico che colpisce al primo impatto facendo posto alla bellissima Non erano rose che si lascia trasportare dalla coda di Vorremmo tutti essere delle star.

Un disco maturo, affiatato e affinato, come dire completo, un’evoluzione personale e contingente che abbraccia un’esperienza di vita che non ha mai fine.

Leo Folgori – Vieni Via (Betaproduzioni)

Album d’esordio per Leo Folgori, che riesce a mescolare in modo magistrale e con una certa raffinatezza sonorità legate a territori deserti, indiscutibilmente eterni e privi di
confine.
Un tuffo nella concretezza dove le parole sono usate quasi fossero un distillato
di acquavite da custodire per i momenti mgliori, quel connubio perfetto che interseca
il Morricone d’annata con il cantautorato di Bubola e Dino Fumaretto: a ricreare una stanza  nascosta dove un pianoforte e la chitarra sono portanti per una serata che non vuole finire, il tutto accompagnato da una leggera batteria che si fa strada tra assoli di violini e fisarmoniche in dissolvenza.
Un cantautorato in vibrante solitudine che ci accompagna lungo le 12 tracce, una canzone
di protesta che si avvale di un racconto esaustivo di storie che sempre non hanno
un lieto fine, ma si caratterizzano per essere costanti ricerche di un mondo diverso
dove stare, dove vivere.
Il ballo del serpente sintetizza le atmosfere lasciando il rilassamento post singolo
nelle tracce seguenti fino a raggiungere sprazzi di nuova animosità in Oltre la strada
e toccando apici di cura stilistica in canzoni come Vita.
Un disco pieno di racconti da narrare dove l’approccio diretto al folk si mescola molto
bene alle radici di un vissuto in cerca sempre di una propria strada da seguire.
Un grande inizio, per questo solitario cantautore, che raccoglie i cocci e li reinventa
dando un senso alla composizione, un nuovo oggetto che si trasforma in emblema.

Doctor Krapula – Viva el Planeta (Star-Arsis, Discos Intolerancia, Pop Art , Bombea Discos)

Qui su IndiePerCui delle volte arrivano delle cose molto strane, delle cose che nemmeno ti aspetti, che ti fanno aprire gli occhi al solo pensiero di poter recensire gruppi di fama mondiale come i Doctor Krapula.

Colombiani e presenti dal 1998 questa band è riuscita nel corso del tempo ad accaparrarsi una fetta di pubblico sempre più vasta e riconoscente verso un genere che ti trasporta in un mare infinito fatto di azioni delicate, costringendoti a farti alzare dalla sedia per farti muovere e sognare.

Portbandiera di quel movimento artistico dell’America Latina e coadiuvati da amici di lunga data come Manu Chao, i nostri mescolano in modo sapiente il rock sferzante con lo ska e il reggae formando quella commistione generosa e di proptesta che nel corso del tempo ha saputo creare una  vera e propria rivolta musicale in barba ai politici corrotti e a i confini che non sono più confini.

Un disco che sa di libertà, che ti porta ad assaporare quella bellezza primordiale che è insita nell’uomo e nelle fattispecie nel mondo che tenta quotidinamente di insinuarsi dentro di noi, ma ci lascia basiti e il più delle volte incapaci al cambiamento.

Ecco invece che i Doctor Krapula rimescolano le carte in gioco, quasi fosse un divertimento per loro star sopra il palco e ci donano senza troppi sforzi un disco che racchiude gli elementi più importanti per questo periodo storico: protesta contro il potere, salvaguardia della natura, libertà.

Un disco da tramandare di padre in figlio per molte generazioni, anche quando non esisterà più il cd come supporto fisico, anche quando non avremo più fiato per gridare il nostro potere.

Incomodo – Un po’ di silenzio (Mammut Produzioni)

Toni dirompenti inframmezzati da attimi di riflessione sonora che ti integrano un mondo che lontano si avvicina per fondere il pensiero con un’unica e grande vittoria lungo i tracciati della vita, che non sempre risultano comprensibili, anzi, si portano con se incertezze e malesseri, vissuti distorti e raggelanti previsioni.

Gli Incomodo lo sanno bene e sono arrivati a questa certezza perchè a loro piace sperimentare; quella sperimentazione che parte dal substrato cosciente di un rock aternative di pura matrice indie che strizza molto bene entrambi gli occhi a Pixies e conterranei Verdena, mettendo in discussione i tempi moderni e il costante cataclisma che stiamo vivendo, interrotto solo di rado da attimi di felicità.

Con gli Incomodo parlano prima di tutto i testi: un pugno nello stomaco contro il banale e già sentito, trasformando il tutto in una materia tale che le lacerazioni provocate non sono altro che pezzi di vetro incastrati come specchi di selfie arruginiti.

Della vita i nostri non vogliono di certo fare un’autocelebrazione e si concedono di spaziare in territori sonori del tutto accattivanti e interessanti, un labirinto metaforico da cui è difficile uscire.

Notevole il punk di fine ’80 di E’andata così come non passa inosservata la ballata L’ignavo e poi come non dimenticare le sonorità accattivanti di Ora non mi va e gli attimi di respiro con E’ andata così e Sai ti dirò.

Un disco che brilla per giovinezza, freschezza e capacità espressiva, un disco che si concentra su di un punto preciso per passare all’argomentazione sperimentale, lasciando dietro di sè solo attimi di lucidità.

Se fossimo negli anni ’90 qui si parlerebbe di storia.

Bioscrape – Exp.ZeroOne (OverDub Recordings/Worm Hole Death)

Discesa negli inferi senza risalita, violente sberle in faccia che non sono di certo rassicuranti, per gli amanti del genere questa è roba che spacca, un incrocio di Brutal con il Metal e l’Hardcore a creare una commistione sonora tanto cara a chi, per scelta, decide di vivere una vita nel cocktail degli eccessi e della velocità.

Un mix quindi che non ha fine e che si prende il meglio contaminato per trasfromarlo, ricreandolo sapientemente in una profilassi sonora che non ha nulla da invidiare agli esterofili che sul piedistallo danno le indicazioni per creare questa e altra musica.

Un gruppo che certamente sa intrattenere al suon di pogo ammiratori della prima e ultima ora, intrecciando confusione mentale e ragionevoli eccessi capaci di stupire.

Una band  dal sapore internazionale che innesca la miccia della ribalta, calcando il palcoscenico in modo pesante tra linee ritmiche instancabili e urla strazianti color grigio cielo.

Macrolle – OneOverZero (Autoproduzione)

Di soppiatto sembra di entrare dentro ad un film poliziesco degli anni ’70, quei film francesi che accomunavano scelte stilistiche ineccepibili, guidate da uno stile unico e da un cast di attori invidiabili.

Non siamo in Francia, ma a Ferrara precisamente, città tra le più verdi d’Italia che in questo esperimento sonoro i Macrolle la fanno diventare set cinematografico dall’atmosfera noir, tesa; un notturno film dove i passi nelle pozzanghere si fondono con il ticchettare dell’orologio da taschino.

Sperimentazioni sonore in un rock  prog sostenuto da un alt che si identifica con la scena americana nelle improvvisazioni e negli attimi di rilassamento con il mondo che ci circonda.

La voce di Ilaria Follegatti incanta e si misura bene alle trovate Radioheadiane del gruppo toccando chitarre in defrag alla Sonic Youth e spunti sonori che ricordano le convinzioni dei The Gathering nel loro acustico live.

Nove tracce che ti abbracciano e non ti lasciano andare, un sole che sorge e che ben presto è ricoperto da nuvole cariche di polvere, quelle nuvole che sono sostanza dei nostri cambiamenti umorali, proprio come dentro ad un film, dove la colonna sonora si staglia verso l’uomo che corre, nella notte, lungo il molo, in cerca di qualcosa che ha perduto, nella speranza che il tepore lo accompagni, poi, sulla strada verso casa.

 

Quarter Past One – The Ballad of Reading Gaol (Autoproduzione)

Ballata dal carcere di Reading parafrasando Oscar Wilde e componendo un concept ispirato allo scrittore tanto caro alla band e alle generazioni che fanno dell’estetismo romantico una complessa via per resistere agli urti della società.

Un disco di indie pop che mancava, qui da noi, accomunato da melodie semplici quanto geniali e capacità esperessiva e buon gusto che di certo ai Quarter Past One non può mancare.

Bellissimi gli intrecci di chitarra che suonano suadenti richiamando un brit pop d’annata che compie un’evoluzione intorno al globo cercando quell’attimo divino e perfetto che ci porta a scoprire nuove prospettive, che ci porta fuori dalle sbarre, spiccando un volo da pettirosso, dimenticando per un attimo lo stato angoscioso e le pareti oscure della prigione in cui viviamo.

Un album composto e composito, immagini che non si dimenticano tanto facilmente, un vissuto che crogiola resistenza verso l’ingiustizia e l’ignoranza.

Le canzoni parlano da sole e spicca su tutte il singolo Oh Moaning Wind portavoce di quella ricercatezza che non ha mai fine.

Una manciata di carte, fogli bianchi su cui scrivere, lettere indirizzate a tutti noi che non siamo niente senza un domani.