Santo Barbaro – Geografia di un corpo (diNotte Records)

I SantoBarbaro si concedono la sperimentazione oltre la sperimentazione, se il precedente Navi avevo fatto presagire un percorso sempre in continua ricerca con questo nuovo Geografia di un corpo i nostri rivoluzionano i suoni, aumentano le temperature, innestano energia dove i tratti vitali rappresi e contorti sembravano morti.

Si parla di bellezza, di una bellezza al confine, una copertina in cui prove di contorsionismo si trasformano in attimi di poesia calcarea e marmorea, un incipit al fulmicotone che si lascia abbandonare a sostanziali onde di disincanto: un gelato rintocco, un sorriso quasi velato.

Ecco allora che Lacrime di androide è preziosa energia che porta al compimento un disco maturo ed elegante che ci trasporta a sonorità soffocanti e ipnotiche in pezzi come Cosmonauta o La necessità di un’isola passando per l’apertura punk elettrica di Corpo non menti.

I toni si fanno poi Kuntziani in Finche c’è vita continuando racchiudendo forse il pezzo più introspettivo e romantico di tutto il disco Ti cammino dentro che ricorda, a tratti, del precedente disco, Prendi me.

Sono lame rotanti queste canzoni che ti tagliano e ti assorbono, come corteccia che trae nuova linfa per future fioriture, non a caso compare anche Tra gli alberi, composizione tratta dall’agiografia di alcuni santi e profeti cristiani che porta al finale una semi post rock strumentale In memoria di nessuno.

Disco meraviglia, che stupisce e si amplifica, dona e sorprende nella sua eterogeneità e nella sempre cara e importante presenza di contenuti non trascurabili.

Una prova dunque dal sapore etereo, che si può definire meta di qualsiasi forma di comunicazione musicale.

Alia – Asteroidi (NeverLab dischi)

Passo dopo passo, silenzio dopo silenzio si entra in modo quasi naturale nel mondo di Alia.

Un mondo fatto di piccoli gesti, piccoli oggetti e piccole passioni che si aprono all’ascolto, si aprono al vento che trascina queste 11 tracce di immacolata bellezza verso un orizzonte sempre nuovo e mutevole.

E’ bello sentirsi parte di questa musica, non gridata, non inacidita da chitarre distorte, ma una musica che si lascia toccare in un continuo e mutevole cambio delle stagioni.

Questo è un disco che parla di un universo che ancora non comprendiamo, forse Alia ha la chiave per scoprire e riscoprirsi o forse le mie sono solo supposizioni, di certo il suono che ne esce è pura esigenza di esprimersi che incrocia Sinigallia e Tiromancino, passando per Amor Fou e incanalando quel cantautorato italiano ispirato e mai banale in cui testi onirici si contorcono nella vera e cruda realtà.

I compagni di viaggio sono molti da Giuliano Dottori a  Cesare Malfatti passando per Raffaella Destefano che dona la sua voce in Cats.

Si apre il tutto con la leggera Bouquet che fa da apertura quasi silenziosa al singolo Cats, una voce che va in fumo appena esco viene cantata in Musa per passare alla ritmata Case di ringhiera, notevole l’aria che si respira in Corteccia che strizza l’occhio al James Blake più ispirato, si respira aria di anni ’80 nella title track e che apre il campo alla reale più che mai La sicurezza degli oggetti; in chiusura ancora, per una nuova versione, quel bouquet che tu vorresti lanciarlo a me e non vedermi più.

Ascoltando Alia si ha l’impressione di trovare davanti a noi lo specchio della nostra anima, quella più nascosta, quella che vuole parlare al nostro cuore, ma non sempre ci riesce, un cantautore sopraffino, leggero e mai banale dove la concentrazione si fa poesia e la realtà desiderio in cui riporre tutte le nostre speranze.

Kaiser Chiefs – Padova – Geox Live Club 18/10/14

Andare ad ascoltare i Kaiser Chiefs è come fare un pieno di energia a pochi km da casa, un rifornimento che porta con se le giuste aspettative e che non delude, forse, nemmeno questa volta.

Per la quarta data del mini tour italiano, la band di Leeds, sovrasta, nel vero senso della parola, il piccolo palco del Geox Live Club o Geoxino di Padova, a sorpresa di molti che pensavano di vedere i nostri, come del resto il sottoscritto, salire sullo stage principale.

Ricomposte le membrane cellulari dopo questa piccola delusione, si entra nel club alle ore 21.00 e puntualissimi partono a suonare i Ramona Flowers, band dal buon suono complessivo, ma che non colpiscono appieno vuoi per il poco potenziale sfruttato vuoi per il cantante non del tutto convincente nelle sue pose plastiche dal sapore fittizio.

La loro musica è un misto tra U2, soprattutto nel cantato e sonorità più alternative legate al mood brit – rock d’oltremanica in una commistione che regala, solo a tratti, forti emozioni.

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Ore 22.00 e qualche minuto sale sul palco Ricky Wilson accompagnato dalla ormai prode ciurma, pronta a far scatenare i circa 500 corsi ad applaudirli.

ima2Il frontman della band è un vero e proprio animale da palcoscenico, non smette di muoversi e come un fiume in piena si distrugge e si ricompone in pochi attimi, quasi fosse il concerto della vita, quasi fosse l’ultimo concerto a cui può partecipare.

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Gli altri elementi della band si muovono appena, defilati, impostati, quasi fermi, c’è intesa e si vede, ma i riflettori sono puntati solo su un’unica figura che si dimena continuamente tra pubblico e palcoscenico.

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Dopo i primi quattro pezzi è tempo di togliersi la camicia per Ricky e mostrare quel sudore che deve essere segno distintivo per qualsiasi rock-star che intrattiene e coinvolge, quasi fosse un bisogno necessario, innato, quello di far parte del pubblico, di farlo partecipe dello spettacolo, in un unico grande esempio di savoir-faire che solo pochi grandi gruppi di genere riescono ad ottenere.

Le canzoni poi parlano da sole, Education, education, education & War, a mio avviso sottovalutato, è portatore di un suono completo, energico e potente e dal vivo i pezzi si fanno umani, quasi terreni, bellissime le versioni di Modern Way o One more last song, praticamente un inno da stadio, come del resto il singolone Coming Home o la circense Misery Company tra i pezzi finali.

Degna di nota My life, rallentata rispetto alla versione originale e costruttrice di un appeal sincero e percepito anche tra il pubblico.

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 In mezzo a molti pezzi dell’ultimo album si snocciolano in modo naturale canzoni cardine della discografia del quintetto, un’energica Ruby, un’impertinente Everyday I love you less and less e come non notare una The Angry Mob direttamente cantata dal bancone del bar?

Tra tutto questo si trova il tempo anche per festeggiare il compleanno di Simon Rix il bassista e cofondatore della band, tra domande del pubblico e tanto di torta con candelina consegnata dal tastierista Peanut.

ima7Una band che si fa notare, ma con garbo, coinvolge senza strafare e che ha la fortuna di avere un leader carismatico e pronto a tutto per conquistare chi lo ascolta.

Un concerto potente e reale: questo mi sono portato a casa!

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Genuini e non leziosi, i Kaiser Chiefs dopo poco più di un’ora e un quarto di live non vogliono insegnare agli altri come si fa della buona musica, lo fanno e basta e questo vi sembra poco?

Voto: 8+

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scaletta

Emiliano Mazzoni – Cosa ti sciupa (Gutenberg Records)

Canzoni tirate, che si conficcano nella carne, un pianoforte malato che racconta storie di vita, perlopiù di amori fragili, nascosti e lontani.

Una commistione tra un giovane Tom Waits ricco di felicità sperata e il Bubola più intimo, intimista, raccolto da manciate di petali di rose che si fanno poesie.

E sono 11 le narrazioni contenute, in Cosa ti sciupa, disco dai tratti nudi e solitari, un orizzonte relegato all’impossibile, un cantastorie che si dipana tra ricerca e fortuna in un universo in continua espansione.

La voce è ricercata e mai banale e quando si tratta di comporre  questa si fa strumento e aiuto del pianoforte che Emiliano ama suonare e con cui compone ballate rock dal sapore indie e underground.

Si parla di vita, di morte, di fallimenti e fortune, sottolineando che quest’ultima è e deve essere una continua ricerca volta alla gratificazione; ma si parla anche di un costruire, di un comporre vite in modo delicato, quasi gelosamente nascosto; un mondo in cui la speranza è necessità e coerenza, abbandono e a tratti follia.

I pezzi scivolano inesorabili: meraviglie iniziali con Canzone di Bellezza per poi passare alle atmosfere di inconscia leggerezza di Un’altra fuga, lanciando percorsi serali in Non lasciarmi e lasciandoci al finale con Non rivedrò nessuno, ricordando il miglior Dino Fumaretto.

Liriche compresse, a volte lisergiche, sperimentazioni sonore curvilinee, incorniciate da racconti senza un tempo e senza una fine, ed è proprio questo il punto di forza dell’album: la mancanza di una matrice spazio/temporale in cui inserire le parole, che così facendo entrano in un contesto più ampio, onirico e oggettivo: un’immedesimazione soggettiva che va al di là del contesto vissuto.

Contessa & The squires – Contessa & The Squires (Autoproduzione)

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Puro e semplice rock and roll di derivazione psychobilly a dir si voglia, ma pur sempre di rock and roll si tratta.

I Contessa & The squires incanalano canzoni senza tempo per rendere il tutto ovattato e incastonato in un mix di sudore e balli energizzanti che colpiscono allo stomaco senza chiedersi tanti perché.

Un ep diretto suonato e risuonato, ascoltato e riascoltato che prende dallo spunto live un gran cavallo di battaglia che ricalca le orme del già sentito per impreziosire il tutto con note di personalità che ricordano per certi versi i The meteors affiancati alla spensieratezza di Miss Chain & Broken Heels passando per tutta l’ondata horrorifica newyorkese di fine anni ’80.

5 canzoni, ricche di citazioni cinematografiche e suoni ricercati, un bagliore prima della tempesta.

Un gruppo energicamente maturo e volteggiante che varrebbe la pena ascoltare dal vivo, per far si che le onde di vitalità si trasmettano da spettatore ad artista, in un’unica e continua corrente musicale.

Borrkia Big Band – Squattrinato (La fattoria maldestra)

Borrkia big band è il progetto solista del mitico batterista del Maniscalco Maldestro che nella nuova proposta si cimenta con la chitarra e la voce, strumenti essenziali che fanno da apripista a tutta una serie di altri componenti preparati all’occasione, rispolverando sax e trombe in gran lustro.

Ascoltare questo album è come fare un grande tuffo nel passato in un mondo color pastello dove il rock and roll si mescola in maniera sopraffina al blues e le semiacustiche acquisiscono un valore essenziale rendendo il tutto molto swingato, un continuo vortice di canzoni che fa ballare ininterrottamente fino a tarda notte.

Questo disco non è però un semplice contenitore di note al solo scopo di intrattenere con piglio deciso l’ascoltatore, questo album è un diario di pensieri e di vita dove lettere si incrociano con vissuti, esperienze, ecco allora che pezzi come Avevo un angelo ci introducono in un mondo di sogni infranti “Hai corso già abbastanza da farmi perdere…Ed io non posso cancellare storie vissute” oppure in Fila diritto al lavoro si raccontano giorni e speranze “Ma voglio scrivere, studiare, voglio vivere…non voglio stare qui da solo a lavorare, è una storia che non posso perdere”.

Ci sono contenuti in questi pezzi, c’è un po’ di morte e tanto ritorno, un piccolo sprazzo di felicità dolente che si inerpica giorno dopo giorno, attimo dopo attimo.

Stefano Toncelli ha il pregio di aver trasformato un genere che poteva essere considerato quasi velleitario, in un qualcosa di più importante, un viaggio che è un passaggio obbligatorio, un viaggio che incorpora energia e vita, piccole chiacchiere di paese che sono radici per il nostro domani.

Micromouse – Animal (Autoproduzione)

Una donna seduta dietro alla batteria per questa band che ha molto da dire e raccontare.
La sopracitata è anche cantante e si chiama Michelle Cristofori.
Assieme a elementi di validità provata come Riccardo Mariani alla chitarra, Gloria Annovi alle tastiere e Gabriele Riccioni al basso; confeziona un nome e un progetto: i Micromouse che si presentano al pubblico con il loro primo album Animal.
Il tutto è sapientemente accompagnato da una cover onirica e per certi versi spiazzante.
Opera dell’artista spagnolo Fernando Ramos: un corpo nudo, di donna, con la testa di rapace, quasi una simbiosi tra uomo e natura: la vita che si aggrappa con caparbietà alle situazioni disastrose che la accompagnano.
Ma veniamo alla musica, completamento necessario ad un’opera, che pur sempre ha valore in primis per chi l’ha creata e che poi sta a noi darne il giusto senso e incanalarla nella giusta direzione.
Il disco in questione sorprende per vivacità e incuriosisce soprattutto per la strana formula drums – woman  in chiave live anche se sul disco le sfumature si fanno meno accentuate con sferzate di cembalo suonato come fosse un richiamo al brit rock degli anni ’60.
In questo album c’è molto gusto e la presenza di chitarre in arpeggio continuo a tessere trame è sinonimo di essenzialità comprovata, tesa alla ricerca della meraviglia nella semplicità.
Ritmi dilatati che si aprono nella sciolta 90, per comprimersi appositamente in pezzi come Stalker e Animal, singolo per foreste ammalate, distrutte dall’uomo, una canzone per gruppi rari in via di estinzione.
I toni poi si fanno più accesi in pezzi come Tsunami o Last night regalando continue emozioni da stereo al massimo volume.
Il disco si conclude con la ballata Pierced Box, dove il protagonista è ancora il cembalo che
accompagna una voce minuta e delicata, una via da seguire lontana e in dissolvenza.
Un disco vario, che abbraccia stili in un’unica concatenzaione, una nuvola di vapore leggera che vale la pena di sfiorare anche per un solo istante.

The dust in god we trust – Remembrance (Autoproduzione)

Travagliata storia per il gruppo di Vittorio Veneto che a quasi 20 anni dall’esordio e quattro album autoprodotti alle spalle, si presenta in forma più che mai confezionando un album ricercato, che stupisce, ricco di influenze e che sottolinea la preparazione dei tre strumentisti che si avvalgono per le registrazioni in studio anche di altri componenti, quasi fosse una grande famiglia pronta a cogliere le più disparate sfumature, riversandole tra le piste di un mixer d’altri tempi che strizza l’occhio al futuro.

Risulta difficile incanalare il gruppo in un genere predefinito e noi di certo non lo vogliamo, sta di fatto che le tracce scorrono in velocità lasciando stupito anche l’ascoltatore più incredulo.

Ottime performance vocali sono da contorno all’uso di strumenti diversi e il circolo si chiude proprio quando abbiamo bisogno ancora e ancora di questa musica avvolgente sin dalle prime battute.

Ascoltare l’arabeggiante Remembrance che sembra uscita direttamente da un disco di Bucley per capire la varietà della proposta, fino alla suite Inside Out che si compone di una forma metrica alquanto inconsueta, passiamo poi a A little bit of savoir faire che riporta ai Beatles del White Album fino a saltare con un balzo al funk di Are you gonna get it.

Nel finale si ascolta la bellissima e speranzosa Tears in her eyes e si toccano i vertici dell’album nell’omnia Lord of the flies.

Tracce mature, sofisticate ed eleganti, un gruppo che a mio avviso meriterebbe di più; una band che ingloba generazioni in un solo unico disco.

coreAcore – Lottoventisette (Lottoventisette)

coreAcore racchiude quella bellezza di un cantautorato puro, semplice e arrangiato con splendida calma e capacità espressiva che si trasforma grazie all’intervento perentorio di una voce unica: quella di Claudia Delli Ficorelli.

Una grande famiglia di amici, attori, musicisti che fa perno attorno al defunto  Califano e a Francesco di Giacomo , scomparso tragicamente, senza dimenticare Vinicio Marchioni e Michele Cocozza rispettivamente protagonista e realizzatore  del video L’amore è ‘n’ incidente.

Lottoventisette è un disco di una malinconia espressiva che si denuda passo dopo passo in un continuo crescendo di sapori, entusiasmi e vita vissuta, pronta a contendere quel sapore incompreso tante volte di una Roma lucente, ma allo stesso tempo segreta, divincolata dalla nomea di capitale per riscoprire le proprie radici in un contorno  dialettale privo di confini.

Passo dopo passo si esplorano le dieci canzoni: cinque originali e cinque rivisitate, che aprono strade a nuove interpretazioni sonore toccando vertici di una musica d’autore sopraffina e delicata che riesce a sfiorare il cielo e a far vibrare l’aria di positività sostenuta da parole che con grande difficoltà si possono scordare, su tutte : I pini di Roma e Angeli agli angoli.

Un album di pensieri su carta che riscopre le proprie origini dimenticando il presente per gettarsi ad occhi chiusi in un passato fatto di piccole cose  e grandi soddisfazioni.

Two Moons – Elements (Irma Records)

Con i Two moons si fa un salto indietro di 30 anni e più, tra batterie sincopate e suoni che sembrano provenire da territori sconfinati e lontani.

Una voce che convince fin dalle prime battute, che ingloba Joy Division e Bauhaus quasi a chiudere un cerchio magico che si esprime nell’arcana oscurità di queste 10 tracce , scivolando perentorie quasi fossero nuvole di vapore che costantemente si alzano per far vedere l’orizzonte come non si era mai visto prima.

Una lenta trasformazione che sfumatura dopo sfumataura si concentra in interminate melodie, una profondità toccata e rivelata da sonar acquatici che creano mondi su mondi, strade su strade per arrivare all’insospettabile bisogno di vita e rinascita dalle macerie del tempo.

Si inizia con Welcome to my Joy per vibrate sterzanti in Snow, bellissima ballad di puro romanticismo celato, poi come in un soffio si passa ad Autumn altro gioiello stagionale minimale e dirompente.

Le canzoni poi scivolano mantenendo lo stesso stile della prima parte del disco e fra tutte spicca nel finale la strumentale in contorsione mistica Leaves.

Un disco che riporta in auge uno stile quasi dimenticato, ma che ha posto le basi per tutto l’indie rock moderno, i Two Moons sanno bene che cosa vogliono e questo disco è l’emblema di una trasformazione che sembra quasi non finire mai.