The brain olotester – Wash your blues away (I dischi del minollo)

Una moglie seduta in un angolo che guarda stupita ed incredula, ascoltando un uomo che suona sogni d’amore e di speranza nel grigio, poi la lucthe-brain-olotester-cover2013-250x250e fioca divampa e tocca attimi di vertigine sublime in pezzi quasi psichedelici e ipnotici che non lasciano tregua a sensazioni banali e a risvegli privi di sostanza.

Un lungo carillon che abbraccia regole spontanee, ma innovative, dove il già sentito è da accantonare per lasciar spazio ad un nuovo modo di approcciarsi al cantautorato che da un po’ di anni a questa parte aveva fatto il sold out mentale con i vari musicanti degli anni zero.

Giuseppe Calignano invece in questa sua bellissima seconda prova viene affiancato da numerosi amici tra i quali Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione e alcuni membri degli Airportman regalandoci un disco che stupisce, sia per approccio che per attitudine ad una novità musicale che abbraccia Genesis intimisti, Sparklehorse fino ad arrivare ai primi Belle and Sebastian, passando per MGMT.

Le canzoni sono sussurri di sostanza vitale e come non possiamo gridare al miracolo in pezzi quali “Unexpected revelations” con intro e code strumentali da brividi spaziali, o in “My timeless present” dove gli archi sono conditi con un giusto mix di elettronica, mentre “The sad ballad of Mr.Spaceman” ricorda il James Iha del poco fortunato “Let it come down”.

La finale “Wash your blues away” corona intimi sogni di gloria con la voce di Giuliana Negro.

Un album di puro ascolto senza mezze misure che predilige il sussurro al frastuono che di questi tempi è un toccasana alla confusione che gira nei canali mediatici di quell’oggetto chiamato televisione che riflette un popolo consumatore estremo poco propenso all’ascolto in silenzio, un disco immacolato e grandioso che sa riflettere in modo delicato sul più grande mistero dell’umanità:  l’amore.

L’armata Brancaleone -Tutti in piedi (Autoproduzione)

cdZingaresche acrobazie per questa super band dal sapore d’altri tempi in cui non possiamo non alzarci dalla nostra sedia per ballare a ritmi sostenuti piccole perle dal sapore orientale, legate al ricordo di fisarmoniche russe e ballate selvagge in cui ci si può rispecchiare nei testi onirici e di protesta che non sono leggibili al primo ascolto, ma richiedono un’immedesimazione quasi fanciullesca ed arrabbiata per un mondo che non cresce e si divincola in tortuosi sali- scendi senza scampo e senza ragione.

La band di Macerata esiste dal lontano 2001 e nel corso di questi anni ha potuto condividere il palco con artisti affermati come Ginevra di Marco, Vallazanska ed Enrico Capuano nonche compiere un tour nel 2007 in Bosnia – Erzegovina.

Piccoli gioielli questi, per “L’armata Brancaleone” impreziositi da un potente e preciso violino che esalta la base ritmica formata dagli strumenti più disparati come chitarre e fisarmonica, basso e batteria.

Una prova all’altezza di nomi più blasonati come Modena City Ramblers e Casa del Vento, anche se qui ci avviciniamo ad un suono molto legato alle armoniche scanzonate della Bandabardò e a ritmi gitani e passionali in cui parole e musica legano perfettamente in un universo giullaresco, dove  ad essere oggetto di denuncia sono i detentori del potere.

Confezionato in modo esemplare questo album aspira a salire sul podio del genere, regalando canzoni mai banali e raccogliendo giorno dopo giorno fiori nel cemento.

Granprogetto – La cena del bestione (Millesseidischi)

Se prima si chiamavano “La camera migliore” ora si sono trasformati in “Granprogetto”, regalando all’ascoltatore nuvole fantasmagoriche di disequilibri quotidiani.

I 3 toscani confezigranprogettoonano 13 canzoni di immacolata intenzione dove conglobano pensieri moderni e ossessivi legati al quotidiano triste vivere tra appalti e falsari porta a porta che volendo si specchiano su una totalità catastrofica dal nome Italia.

Questi ragazzi si cimentano con gli strumenti più disparati: dai classici basso, chitarra e batteria passando per cembali, banjo e custodie rigide.

Marco Balducci, Francesco Fanciullacci e Davide Miano devono essere ascoltati ad alto volume, solo così la loro musica può arrivare direttamente ai circuiti neuronali passando per vie tortuose e psichedeliche dove il power rock si mescola al country e alla musica strumentale trascinando code infinite di bellezza da assaporare.

Canzoni come “Allo zoo” o “Roy Scheider” non possono passare inosservate come del resto altri pezzi dai titoli più strampalati come “Frateferroviere”.

Una prova che fa pensare al miracolo, anche perché il trio toscano meraviglia con una capacità rara di spaziare senza identificarsi in nessun genere prestabilito.

Aspetteremo l’uscita del disco il 27 maggio a cui seguirà il primo video di questo “Granprogetto”, un lavoro che fa forza su poche e semplici regole, un album che si inerpica su sentieri mai banali e di certo rigogliosi.

Per info:

https://www.facebook.com/granprogetto

Yast – Yast (AdrianRecordings)

YAST-YAST-1500x1500-300x300Ennesimo album per la band emergente svedese, gli Yast, che già dal primo ascolto ammaliano e stupiscono, sia per la qualità sonora che per l’offerta di stile.

Di elettro – pop si tratta, come per i “cugini” This is head, anche se qui le canzoni suonano molto più semplici e dirette, contornate da melodie solari e tocchi di magnifica presenza elegante e orecchiabile che prendono spunto da passaggi Bluriani e dagli ultimi seguaci di Corgan e seguenti, come Zwan.

All’ascolto ti sembra di percepire una band navigata che riempie immensi prati e invece stiamo parlando di un gruppo emergente; possiamo quindi sottolineare  l’ampia prospettiva ariosa di sonorità internazionali e la capacità di mirare ad un unico punto di convergenza che vede l’incontro di voci in falsetto e chitarre leggermente distorte senza eccedere troppo in un’effettistica pesante e pacchiana.

Un’offerta molto gradevole, dunque, che scorre lungo le 11 tracce in una spiaggia ricca di vegetazione dove poter ogni tanto fare un tuffo in mare, un tuffo che gli Yast compiono, ripercorrendo e traendo spunto dalla scena rock internazionale targata anni 90, come nella Title Track o nella verdeggiante “I wanna be young” , per lasciare spazio a derive più folk in “Believes”.

Un plauso dunque anche a questi giovani svedesi che di numero da band emergente possiedono soltanto gli apprezzamenti in facebook, nella speranza che qualche band italiana legga questa recensione ascoltandosi il cd e approfittando dell’occasione per imparare qualcosa.

Allarghiamo i confini, affiniamo la tecnica, lasciamo da parte l’orgoglio.

This is head – The album ID (AdrianRecordings)

Ogni singola nota è stata ricomposta e creata per dare idea progressiva di una matrice mai stanca di innovarsi quando il rock indipendente sembrava morto e sepolto, logorato da tagli troppo profondi di giornalisti e critici della prima ora troppo avvezzi a stimolare parti neuronali lontane dal savoir fare e intrise di puro spirito dilettantistico.

I 4 rinascono da une sepa13702razione, la fatica di ricominciare, quando si è soli tutto in qualche modo sembra perduto; un lavoro fatto di cesello e perfezione questo “The album ID”.

Gli svedesi stupiscono con le loro sonorità, dal freddo sbarca un elettro-pop che scalda l’anima, ascolto dopo ascolto: provare per credere.

Tu puoi percepire ogni singola canzone e non ricordarti, alla fine, il motivo portante; io lo definirei pop-intellettuale in quanto non scade mai nella banalità e neppure nelle divagazioni tipiche di un suono tanto italico che ricorda la regola: se fai parti strumentali con cambi di tempo sei figo altrimenti caro sei fuori.

Legno e pietra sommersi da acqua che porta tutto con se, canzoni come”Staring Lenses” sono riempi-stadi, poi troviamo i cori e  le eccheggianti sillabe ripetute e sostenute da tappeti di riff semplici, ma efficaci in  “Illumination”, “A B – Version” è elettrizzante quanto basta per gridare al miracolo, tutto il disco è concentrato di Arcade Fire, MGMT coadiuvati dalla migliore scena indie-rock del momento.

La favola continua con “Time’s an Ocean” dal sapore marittimo e ricca di riverberi solari che preannuncia la sperimentale “Summertime”, degna di nota la finale “If I” che prenda spunto da film di Felliniana memoria per varcare la porta dell’infinito.

Henric, Tom, Adam e Bjorn raccolgono tutto ciò che di meglio si può trovare ora per riprodurlo in un unico disco dal sapore elettrico con sferzate pop curate al dettaglio, possono tranquillamente spedire una cartolina al migliore produttore di questa terra e dire: ti sei dimenticato di Noi vienici a trovare, ma vestiti leggero, qui in Svezia fa molto caldo.

Guarda il video della loro traccia:

A B – Version video

Droning Maud – Our Secret Code (Seahorse recordings)

E’ un album completo,  ricco di divagazioni post-rock di puro stampo arioso con interventi elettronici da far aizzare anche il più distratto degli ascoltatori.

Quello dei Droning Maud è un droning-maud-musica-streaming-our-secret-codedisco che lascia il segno sotto numerosi punti di vista.

Il concetto dominante, l’idea di fondo, è una cavalcata continua di sapori rock contaminati dalla musica che prende iniziativa di un suono carico di riverberi e atmosfere.

Già dal nome del produttore del disco, Amaury Cambuzat, il lavoro non può che prendere determinate vie legate alla sperimentazione e alla sorpresa sonora.

In “Our Secret Code” si ascoltano Mars Volta, Radiohead, gli italiani Giardini di Mirò tanto per citarne alcuni; trovano spazio, inoltre, interventi vocali degni del miglior Aaron Lewis creando  quel concentrarsi di suoni, difficile da concepire, tanto la trama si rende fitta ad ogni ascolto.

“Sun Jar” apre le fila con cadenzato battere delicato, poi “Ghost” fantasma svanito nel mare che raccorda la meravigliosa “Nimbus” fatta di stelle e arpeggi.

L’altro spunto degno di nota si trova nella corale “Now it fades now it’s gone” e cosa possiamo dire della retrograda “Led lights” che guarda al passato con una mano aperta al futuro?

“The great divide” apre alla finale di contrappunto stilistico “Oh Lord!” dove la scelta è definizione di resa e perdono.

Questi 4 laziali sanno che cosa vogliono dimostrandolo con questo album, che si discosta dai precedenti ep, sia nel campo estetico e di suono che in quello dei contenuti; una prova dal sapore onirico capace di creare quel giusto appeal in tutte e 10 le tracce, portando noi umani a carpire divagazioni mentali con un occhio teso al passato e una linea d’attacco diretta al futuro. Notevoli.

 

Gli Altri – Fondamenta, Strutture, Argini (DreaminGorillaRecords – Taxi Driver)

Rabbia, questo è il concetto di distribuzione-vita de “Gli altri”, che fanno dei suoni pesanti il loro marchio indelebile di fabbrica quasi a dimostrare una maestosità capace di bruciare idee di punti fermi, che se in un primo momento risultavano statiche ora rinvigoriscono per conglobare macerie e per ricostruire il distrutto.

Un bellissimo disco di stonefondamenta-strutture-argini-gli-altrir rock, mai banale e mai prevedibile; l’ascoltatore è risucchiato da un vortice continuo di suoni-emozioni che a lungo andare stabiliscono un contatto con la realtà di tutti i giorni, quasi ad essere un affresco marchiato con il sangue di un’ ingiustizia che ci accomuna e ci divora.

Si perchè “Fondamenta, Strutture, Argini” oltre ad essere un nome altamente chiarificatore è anche un inno per i 5 savonesi che gridano la loro protesta ,capitanata da uno sputo in faccia al vivere corrotto, dove la lotta si fa portavoce di parole; rivolta questa battaglia ad un male endemico da debellare.

“Non sento più cosa sono “ si canta in “Oltre il rumore” mentre la consapevolezza-disincanto fa eco in “Il mio spazio possibile”.

Quando si pensa di aver trovato una via di fuga ci si piega “All’orizzonte” al silenzio dei cantieri costruiti nella notte.

La strumentale perlacea e kuntziana “06:33” accompagna l’entrata roboante di “Le difficoltà del volo” altro elogio al liberarsi dai soprusi quotidiani, mentre “Instanbul” narra senza parlare vicende di guerra e riprese cadenzate da riverberi echeggianti.

“Cera” è amore al vetriolo, la canzone più riuscita, un post rock dal sapore arabeggiante, che si apre a magnificenze sonore di notevole livello lasciando spazio alla fiaba ingravescente de “La falena”.

Se De Andrè fosse ancora vivo griderebbe al miracolo: nella “Buona Novella” il canto-disincanto era origine di un male interiore che doveva essere combattuto in nome di una rivoluzione pacifica e dimostrabile attraverso una morale unica, in “Fondamenta, Strutture, Argini” si analizza un periodo privo di certezze e modelli da seguire, fatto di egoismo e noncuranza in attesa che la direzione da seguire non parta solo ed esclusivamente da “Noi”, ma anche da “Gli Altri”

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