Spaghetti wrestlers – Spaghetti wrestlers (Vina Records)

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Potenza sonora disinibita e disincantata a segnare una prova di certo non addomesticabile, ma alquanto orecchiabile incline a sonorità pop che non disdegnano però la potenza punk di un suono garage da cantina abbandonata all’umidità, ma nel contempo pronta a ricevere il sole estivo rassicurante per un’energia viscerale che conquista al primo ascolto. I Spaghetti wrestlers intascano un EP di sei canzoni veloce come un sussurro e rapido come un fulmine. Un insieme di pezzi che sono simbolo di una scena che si fa racconto, tra amori finiti male, divertimento e pazzia, questi conditi come ingredienti necessari per la riuscita di un disco fresco e convincente. Spaghetti wrestlers si sorseggia alla velocità della luce, è potenza udibile e necessaria, fascio di luce che non si chiede troppo, ma che raggiunge l’obiettivo sperato in un rapido batter d’occhio per una prova d’insieme che ha nel sangue il profumo di un rock’n’roll che non conosce fine. 


Jesus Franco & The drogas – Damage Reduction (Bloody Sound Fucktory)

Garage punk che strizza l’occhio ad un rock in evoluzione, vibrato, atteso e ricercato, sprezzante delle apparenze e intento a consegnare un vinile di quattro tracce, un ep dai toni cupi e incrostati di certezze, per mutazioni caleidoscopiche elettrizzanti, con distorsioni aperte a dismisura per rendere istantaneo e immediato un album  che si distingue per efficacia e naturalezza, quasi live.

Dieci anni di attività e per festeggiare questi quattro brani che racchiudono la strada percorsa e i passi affiancati all’evoluzione, un sostegno ideale per affermare ancora una volta la potenza di questa band che dopo un anno mezzo di distanza da Alien Peyote, divora la scena grazie a storie surreali, ambientate in uno sconfinato deserto americano/messicano tra Dead Kennedys e Tom Verlaine con i suoi Television: anfratti musicali mastodontici eppure compiuti e riusciti.

Una band che ha saputo raccogliere l’eredità del tempo per consegnarla in modo brillante al futuro che verrà, lasciando da parte tutti gli orpelli immaginabili, rimarcando la scena con una prova di impatto e di sicuro effetto, una manciata di tracce per viaggi onirici e infernali.

Duvalier – Hay Lobos (Red Eyes Dischi)

Non è un paese per vecchi e lo sappiamo molto bene, tra desertiche e ataviche sensazioni che ci imprigionano al suolo, sotto la terra, nella miriade sconfinata di territori e lande desolate dove gli approcci costruttivi si aprono quasi a comparse di sogni/incubi in oasi solo immaginate e lontane, fuori dal tempo e dai vincoli futuri, ma dentro all’ingestione di sostanze mascherate, che alterano la percezione in una visione annebbiata e sudata.

Sono tornati i vicentini Duvalier e grazie a questo disco, il loro quarto disco, inglobano l’oscurità del mondo tra chitarre sgangherate e giustamente distorte per l’occasione che filtrano il passo a ritornelli poppeggianti e refrain che si fanno ricordare concessi all’apertura di Black is the sun che si lancia poi in voli pindarici nella fuzzeggiante presenza di Tony La Muerte, compagno di etichetta, in Il vecchio del monte, rivisitazione dello stesso one man band in chiave sonora assai differente.

Un disco di introspezione in stato di grazia, non definitivo e completo per fortuna, ma sempre  alla ricerca di quell’energia primitiva che ci incolla al terreno e ci ricorda prepotentemente il nostro essere materia in decomposizione con un’anima da preservare.

Mat Cable – Psychotronic Drugs (Alka Record Label)

Rock aggrovigliante che si immedesima nelle sfumature del punk non ricercato, ma diritto al punto, alla ricerca di vie d’uscita da una prigione immaginaria dove contendersi quei pochi fili d’aria che permettono di respirare ancora, per vivere di nuovo, tra chitarre graffianti e la sete indispensabile di portare a compimento un progetto alla rinfusa che trova spazio con un’attitudine di ricerca che non si snocciola, ma per interezza si affaccia al mondo musicale con schiettezza e tenacia.

Loro sono i Mat Cable, formazione nata nel 2014, che grazie ai loro vissuti musicali e grazie alle loro esperienze decidono di convogliare le forze per dare vita ad un progetto di sporco garage che strizza l’occhio oltreoceano per creare un connubio stilistico di forte impatto emotivo che tende alla ricerca e non alla copiatura, grazia mai sospinta per una tavola ruvida che si fa ammirare.

Il quartetto formato da Raffaele Ferri alla voce e alla chitarra, Ottavio Rastelli all’altra chitarra, Edoardo Ferri al basso e Francesco Lupi alla batteria, incanala le energie del momento per dare vita a substrati di coscienza poliedrica per cinque pezzi che si fanno ascoltare partendo da Fight or hide, passando per il singolone Under my skin e chiudendo le danze con Choose your way, babe.

Un disco senza misure questo, che va diritto al punto senza chiedersi troppo, trasformando la realtà in energia, i vissuti in suoni di un qualcosa che ci appartiene.

TuttoNERO – Tuttonero (I dischi del minollo)

I torinesi TuttoNERO al loro album d’esordio colpiscono per vivacità della proposta e capacità espressiva, cantautori stralunati che si concedono e lasciano da parte le cose serie per raccontare, sorridendo, di un’Italia che non c’è più, di un ambiente desertico dove le incursioni garage blues si diffondono tra chitarre taglienti e leggermente gainizzate dove al sole si sciolgono speranze e passioni, amore verso un qualcosa che non c’è più da riconquistare, da fare proprio.

Ecco allora che i testi sono parte fondante della canzone, sono ricerca di un comune sentire che si fa forza nelle attitudini quotidiane, canalizzate come vittorie, come vincite sonore che stupiscono ed estraggono pensieri per dissacrare una popolazione allo sbando tra attimi di luce e vuoti cosmici di tunnel in decomposizione.

Un disco che parla di Noi in modo completo,  un racconto psichedelico che prende vita grazie ai cinque, tra oscurità e bellezza nelle tenebre  attraversate da suoni ben impostati e sicuramente di gran impatto.

11 canzoni che sono anche consigli, brani che ti entrano facilmente nella mente per donare in qualche modo speranza nel cambiamento, attesa e pensiero che nella veridicità della proposta si fa protesta ora e sempre.

Brani che scorrono veloci da La gente media a Nero, un buco oscuro che si riempie di linfa vitale ed energia, melodrammatica messa in scena di una vita che è anche la nostra.

Panda Kid – Scary Monster Juice (Autoproduzione 2011)

Il vicentino Alberto Manfrin, in arte “Panda Kid”, già da un po’ di tempo calca i palchi della scena underground provinciale e in parte regionale con il suo progetto one – man – band attorniato da chitarre elettriche vintage e grancassa tuonante, creando atmosfere surf, garage e punte di lo-fi.

In questa prova intitolata “Scary Monster Juice” si fa aiutare dagli amici “Miss Chain and the Broken Hells” “I Melt” “Il buio” e “No Monster club”.

Panda Kid, come nei precedenti album, è una miscela fisica, scanzonata che non si chiede troppi perchè su quello che scrive e suona, nella sua musica si possono trovare e ascoltare echi di “Beach Boys” nelle parole ridondanti di “Junkie girl” o “Your Candy”, in “Garage on the Beach” invece abbiamo un inizio alla “The Who”, ma batteria molto più cupa alla “The Cure”.

La canzone “Long long summer” sembra chiedere alla bella stagione di rimanere in posa per una fotografia fuori dal tempo.

“Surfer girl”, invece, ricorda i “Pavement” di Stephen Malkmus, una voce con cori in lontananza quasi confusa dal vociare di chitarre in secondo piano. Forse quest’ultima la canzone più incisiva del disco.

Un Lp che si conclude con la quasi stonata“Cookie Weed” e con la chitarra acustica che ricorda “White Stripes” dei tempi migliori.

Un progetto alquanto originale che ti porta la spiaggia fuori dalla porta di casa.

Un’estate sotto l’ombrellone sorseggiando cocktail e guardando belle ragazze.

Un’estate insomma che non vuole finire.