Nuju – Pirati e Pagliacci (Latlantide)

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Folk disinibito e quotidiano che ripercorre le produzioni dei nostri giorni in modo semplice, ma nel contempo ragionato e spiritoso, apprendendo dai maestri di genere come Bandabardò una formula del tutto ballabile e nel contempo agguerrita che si sposa bene con la dicotomia del titolo Pirati e Pagliacci a ricordare le parti in gioco, i modi di vivere, la vita stessa che si dipana in canzoni ben tinteggiate e ricche di sorprese per un disco ricco di rivisitazioni e collaborazioni con band e musicisti del calibro di Modena City Ramblers, Musicanti del vento, Brace, Santino Cardamone tanto per citarne alcuni ad infittire una produzione che in primis parte dal cuore e si apre proprio con quella Menestrello che ci rende partecipi di un qualcosa di grande, condiviso e spensierato, merito di un gruppo affiatato nel tempo, merito di una bellezza che si snocciola canzone dopo canzone, in un album che chiude bene questo anno in musica, tra le tragedie della vita moderna e un nuovo modo per sperare; ecco se proprio devo dirla tutta i Nuju sono la speranza in questa fine.

Dulcamara – Indiana (INRI/Metatron)

Suoni di notti stellate e fuoco intorno, introspezioni sonore che viaggiano e creano fantasie e rituali che abbracciano con forma costante un mondo polveroso di vita da sorseggiare ed esteriorizzare in estemporanee fotografie virate seppia che sembrano uscite da un’altra epoca, loro sono i Dulcamara, guidati da Mattia Zani, una band che incrocia in modo essenziale la poesie e il folk nord americano con la canzone d’autore italiana; tanto per fare un esempio moderno prendete il For Emma di Bon Iver e impastatelo a dovere con un pizzico di Bonnie Prince Billy e di Iron & Wine, il tutto cantato però in italiano in una prova notturna che racconta di amori e di bisogno di partire, di viaggi tra foreste di illusioni, di viaggi tra i boschi dell’anima, ricoprendo un ruolo essenziale proprio nei testi che guardano oltre l’orizzonte e non si accontentano, ma trovano una dimensione onirica nell’amara realtà di tutti i giorni, perpetuando una prova che getta i propri punti di forza in canzoni che portano con sé un fascino indiscutibile da Rituale, Luce di frontiera, Sogni lucidi, Labirinti immaginari fino alla reprise dei costrutti di Terminal per un disco che ha l’odore della notte, l’odore di quello che non c’è più e  il profumo della ricerca del sostanziale nostro essere quotidiano.

Mattia Caroli & I Fiori del Male – Fall from grace (TimezoneRecords)

Disco soppesato a dismisura che trasporta l’ascoltatore nel convergere la bellezza di fondo racchiusa in questi pezzi che si stagliano all’orizzonte e, come quadri dipinti, vivono di vita propria, portando con sé una propria anima, mescolando citazioni letterarie ad ambientazioni legate alla vita di tutti i giorni per concentrati di amori perduti che affondano nella notte dei tempi e perseverano nell’incedere, nel trovare un punto di contatto, un punto sostanziale di meraviglia, la stessa meraviglia che possiamo ascoltare in canzoni che gravitano tra levitazioni di indie folk rock e blues in una spasmodica ricerca dell’originalità in un mondo musicale saturo di proposte.

I nostri dopo questa prova ne escono vittoriosi, capaci e carichi di quella bellezza essenziale che fa innamorare al primo ascolto e rende bene l’idea di album costruito e pensato non per durare un giorno, ma per tracciare un solco alquanto indelebile nell’era delle produzioni moderne, tra passato e futuro troviamo Mattia Caroli e i suoi Fiori del male, ad incidere minuziosi paesaggi sonori che colpiscono al cuore e ci trasportano con la testa lontano, tra le nuvole.

Maru – Maru (Resisto)

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Maru è una cantautrice polistrumentista che gioca nella sua cameretta a creare magnifiche ossessioni quotidiane in grado di amalgamare un concentrato di suoni lo-fi e pop con la canzone d’autore che fa sorridere e dando un’importanza veramente inusuale alla parola a ricoprire d’attenzioni un mondo fatto di particolari, tra la vita di tutti i giorni e le sensazioni che scaturiscono dal cuore, la nostra tra chitarra, ukulele, pianoforte e tastiera racconta di mondi non troppo immaginari in una forma canzone quasi onirica e incantata che in un attimo accoglie però tutto il suo disincanto tutta la sua imperfezione per un chiaro scuro alternato che mette in risalto le capacità della cantautrice di voler dare vita a quadri costruiti tra spruzzate di colore che si accavallano partendo da quella Zerotresettedue fino a Trucco + Astor, passando per Denti da latte e per l’irriverente Un meteo nel caffè, per un appeal sbarazzino, non troppo serio, ma in grado di far aprire gli occhi nelle giornate di pioggia, creando uno spirito reale, uno spirito giusto, per soddisfazioni future respirate a pieni polmoni.

Thomas Guiducci – The true story of a seasick sailor in the deep blue sea (Good Luck Factory)

Sprofondare dolcemente nel mare, lungo i flutti della corrente, recuperando tentativi e punti di vista per farsi immergere in toto in poesie da viandante sospeso, alla ricerca di un posto nel mondo dove stare, di un posto da cantautore marinaio in cerca della buona stella per tornare a casa, in un contesto ostile e romantico allo stesso tempo e poi ancora lo stesso  marinaio posseduto dal mal di terra in un eterno oltrepassare i propri limiti per poi ritrovarsi a fare i conti con la banale e triste realtà, metafora della vita stessa, l’uomo che non trova pace, l’uomo costretto a continuare il proprio viaggio per fare ordine dentro se stesso, come in un film introspettivo in bianco e nero Thomas Guiducci ci conduce attraverso questo disco che ingloba non solo musica, ma anche immagini e racconti in canzoni che abbandonano in parte la strada del blues per concentrarsi sulle divagazioni del neo folk americano, con arrangiamenti ben strutturati, intenzionali e qualità da vendere, tanta, che già si può ascoltare nella prima Seasick Sailor passando per Ghost Town e Jericho Rose, attraverso strade deserte e testi evocativi il nostro ci conduce al finale lasciato ad una bonus track Empty Shells, in un viaggio che ha il sapore della circolarità, del sogno e del vuoto attorno, per noi esseri umani alle prese con una natura che non consola, ma ispira.

Cisco/Alberto Cottica/Giovanni Rubbiani – I dinosauri (Cisco Produzioni)

Esce “I dinosauri”, il nuovo CD di Cisco, Alberto Cottica e Giovanni Rubbiani: I tre ex Modena City Ramblers insieme dopo 17 anni

Trio meraviglia composto per l’occasione e formato da tre storici dei Modena City Ramblers: Cisco, Alberto Cottica e Giovanni Rubbiani, un gruppo composito in grado di registrare un disco che abbraccia il passato in maniera scarna, spogliata da tutti gli orpelli di genere, per evidenziare la canzone e dare un senso ad un cantautorato vecchio stile che esce dalla penombra e tesse melodie acustiche in grado di penetrare la pelle attraverso poesie che parlano dei nostri giorni, intrecciando costume, società e cultura della nostra Italia, il tutto in maniera dolce, quasi spontanea, un gruppo di amici che si ritrova attorno al fuoco e inizia a narrare, attraverso i ricordi, di un tempo che non c’è più, come dinosauri alle prese con le macchinazioni della nostra era, anacronistici, ma con sostanza, ripercorrendo la memoria e le esperienze di una vita, quella vita che esisteva fuori dagli schemi virtuali di oggi, una vita più reale che attraverso le parole di questo disco si fa tangibile momento di condivisione e bellezza da assaporare, da Cosa conta a Tex, un disco che travalica le mode e si sofferma su ciò che conta veramente.

Silenti Carnival – Drowning at Low Tide (Viceversa Records/Audioglobe)

Marco Giambrone in arte Silent Carnival costruisce panorami eccentrici dove lo slow folk si intreccia all’oscurità umana per regalarci una prova dal forte respiro internazionale e dove il folk dell’entroterra si apre a paesaggi deserti dove le desertificazioni appunto sono stati mentali che incorporano il nostro io e non permettono all’ascoltatore di trovare essenziali vie d’uscita, anzi il nostro crea substrati di una musica ad alto tasso emotivo che riunisce le sperimentazioni dei Velvet Undeground con i Low per passare alla lande desolate di Micah P Hinson, accostandosi al mare come fosse vera fonte di ispirazione per arrivare a cercare la fragilità umana dentro ad un fazzoletto di suolo a ricoprire gli abissi della nostra coscienza, della nostra casa, se ancora possiamo chiamarla casa; un’anima errabonda che coglie il significato delle parole e le concentra sino a farle diventare poesia, per un viaggio sempre in disequilibrio, tra la ricerca di nuove forme musicali e l’apparente senso di appartenenza ad un mondo che non è più nostro.

Pipers – Alternaif (BulbArt)

Melodie stupende intrise di significati, dirette ed essenziali che estendono la malinconia lungo la giornata, ma lo fanno con gusto, quel gusto tipico di un songwriting d’ingegno capace di penetrare e lasciare il segno grazie a pezzi favola che trovo impossibile non possano piacere, sembrano quasi studiati apposta per riempirci le giornate autunnali di tante nuvole in divenire, di tante nuvole sovrapposte al nostro stato d’animo sempre più alla ricerca di un posto diverso in cui stare, una delicatezza di fondo di ampio respiro tra un folk incastonato tra due oceani, il cuore che si apre a musiche lontane, barche che seguono le correnti, ricordando per certi versi quella Landslade dei compianti Pumpkins e tutte le loro produzioni più acustiche e intime, quella lingua di terra che cade e si protende verso l’acqua a ricordare che i sentimenti vincono su tutto, in un vortice  di acustiche trame che incrociano un cantato emotivo pronto a condurci da Empty-handed fino a Caress my mind in pezzi che hanno tutti un loro linguaggio, un loro approccio, una loro comunicazione; i Pipers centrano appieno l’intento di dare un volto ai significati nascosti della nostra anima e ci riescono con la consapevolezza di riuscire a creare architetture emozionali dentro alla nostra mente.

Mike Spine – Forage&Glean (Global Seepej Records)

Listener

Album di consacrazione che incrocia il miglior folk passato e presente con un parte più oscura e cupa per il nuovo doppio volume di Mike Spine a raccogliere la testimonianza di tutto ciò che è stato dopo dieci album e più di venti anni di carriera in giro per il mondo ad aprire concerti di Mike Watt, Los Lobos, Stef Burns solo per citarne alcuni tra un mare di nomi in una biografia sterminata.

Le canzoni sono racconti di vita, sono le grida di una classe operaia tra i mattoni in costruzione dei quartieri industriali, sono i suoni che inglobano un paesaggio metropolitano e periferico, nella solitudine di un folk raccontato per immagini tra ingiustizie di ogni sorta e il desiderio di riscatto, il desiderio di difendere gli ultimi e i più deboli, senza chiedere nulla in cambio, ma piuttosto rinvigorendo una pura esigenza che si scontra con le necessità della vita di ogni giorno.

Due capitoli che virano quindi dal cantautorato più solitario, al contorcersi al suolo in un rock più oscuro che ricorda Jimmy Gnecco e i suoi Ours, parallelismi non scontati, per vicende in divenire pronte ad entrare nel cuore di chi ascolta; un ottimo modo per celebrare le avversità della vita, un ottimo modo per chiamare in causa grandi pezzi che per l’occasione sono stati raccolti in un unico, grande disco.

Le ombre di rosso – Momenti di lucidità (Autoproduzione)

Le ombre di rosso aspettano il treno del dolce risveglio che li accompagnerà in Irlanda tra il folk d’annata, le birre a fiumi e il desiderio di danzare fino a tarda notte, tra la polvere dei solai anneriti e il desiderio di lasciare alle spalle ogni pensiero inutile, facendo della musica una rotaia da seguire per quel treno che si chiama amore e che ingloba attimi di speranza nel grigiore quotidiano.

Le ombre di rosso sono anche una band di folk cantautorale cantato in italiano, dove la tradizione del passato lasciata ai ricordi, incrocia gli strumenti più inusuali come il violino e la fisarmonica, strumenti però del tutto necessari per dare vita ad una poesia musicale che si affaccia sulla modernità, raccontando di storie quotidiane, di amori lontani, personaggi di paese e uomini corrotti, un raccontare che è anche simbolo di ricerca strutturale che guarda al mondo della narrazione per immagini su carta, quella per intenderci di un Lorca ispirato e di un Eliot che lo è altrettanto, abbracciando la canzone d’autore italiana con un De André presente a delineare i concetti più semplici attraverso l’uso di un vocabolario sempre attento e puntuale, intrecciando storie come fossero fotografie da scattare.

Le ombre di rosso, in questo disco, sono anche in grado di scherzare e fare dell’ironia un momento di condivisione, quasi a trasformare i momenti di lucidità in momenti di ludicità, dove il gioco e il divertimento sono l’altra faccia necessaria di un progetto che non è sola introspezione, ma vera e necessaria vita vissuta.

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