Ovest di Tahiti – Luci della città (Autoproduzione)

Primo disco che ha il profumo della maturità per la band pugliese in grado di attraversare decadi di cantautorato elegante e ragionato per dare un senso e una misura maggiore al significato di realtà che ci sopraggiunge ad intensificare rapporti, a rendere forse più chiaro ciò che non risulta essere evidente percependo un bisogno di raccontare che nell’onirico e sognante mondo che ci troviamo ad affrontare si fa visione materiale di questi nostri tempi. Il progetto Ovest di Tahiti intesse un disco formato da otto tracce dove poesia e musica si fondono per tentare di comprendere le dinamiche di questo nostro vivere. C’è un tocco di felicità da svelare in questo Luci della città e l’interesse per i nostri per tutto ciò che può essere bello e raffinato si percepisce ascolto dopo ascolto. Le tracce sicuramente più incisive dell’intera produzione si muovono dalle aperture di Autostrada e Indifferente fino a Lettera per gli ignavi per concludere con una title track dall’outro potente e psichedelico. Ciò che resta di questo disco è la notte che ingloba e che nel contempo porta con sé quel senso disincantato di bellezza da riscoprire nel significato stesso delle parole usate. 


The Pier – s/t (Faro Records)

L'immagine può contenere: cielo e spazio all'aperto

Improvvisazioni sonore che si ritraggono dal fondale azzurro cielo per andare a colpire la notte nei suoi punti più nevralgici intessendo trame geometriche consequenziali, quasi prive di logica e sulfuree occasioni di rimembrare una ventata ariosa di indie rock contaminato a dovere, difficile da incasellare, difficile da descrive e in grado di porsi da tramite essenziale nei confronti di un mondo in rovina, aggiustando il tiro e incrociando sonorità che si dispiegano e rendono gli arrangiamenti sostanziosi, mirati e prorompenti, per un disco senza titolo quello dei The Pier, un disco che travalica il sogno e travalica il quotidiano, lontano da forma consuete di inscatolamenti pop e vicino a forme sonore soggettive impreziosite da un’introspezione che culmina in pezzi come Exit Flowers o la finale Pier per un album da leccarsi i baffi in questo finale di anno, un album così categorico da non poter essere ricondotto a nulla se non alla mente contorta e in continuo divenire di questa band pugliese che stupisce rinvigorendo il passato rock stantio e primordiale.

Salvo Mizzle – Belzebù pensaci tu (Autoproduzione)

Evoluzione musicale e di scrittura per l’artista pugliese Salvo Mizzle, che dopo il già recensito sulle nostre pagine, Via Zara del 2013, ritorna con un album maturo e introspettivo capace di portare con sé caratteristiche peculiari di un cambiamento sovrapposto al tempo che abbiamo davanti, un cambiamento che per scelte stilistiche accompagna un concept album in bilico tra il cantautorato e il rock, passando per il folk e la progressione in musica chiara negli intenti di ricreare un mondo da abitare e tante volte un mondo da cui fuggire.

Lo stesso autore ci racconta che questo è un album che parla di vita e allo stesso tempo di morte, è un disco sull’abbandono e sulle stesse riflessioni che la vita ci costringe a fare, rintanando tante volte le certezze dentro a scatole oscure e riuscendo a strappare, barcollando nel buio, quel pezzo di sorriso che ci fa tenere in vita, in modo inadeguato forse, ma pur sempre mantenendo una forza interiore di lotta verso ciò che ancora non conosciamo profondamente, energia viscerale che compone e scompone, che rimette in sesto pezzetti del nostro corpo e ci rende attenti scrutatori di ciò che siamo diventati.

Un disco composito e importante, dodici canzoni che sono la summa di un pensiero ricercato nel vivere di ogni giorno, tra velata ironia e tanta sostanza, tra il tempo che è passato e tutto quello che abbiamo davanti.

Marrano – Marrano Ep (Autoproduzione)

Sfrontati, duri e diretti, ma soprattutto veri, i Marrano si presentano così, con attitudine molto punk e suoni grunge fino a farti scoppiare il midollo, fino a farti giungere all’essenza, un vortice che rapisce fin dalle prime note, sorregge una buona impalcatura di base e conquista grazie ad un suono molto sporco, aperto e di sicuro impatto.

Per descrivere questi quattro pezzi al fulmicotone non abbiamo bisogno di molte parole, c’è un misto vibrante di suoni anni ’80 intersecati alla scena di Seattle del primo decennio successivo, un mood eccellente per stabilire una ripresa del tempo, uno spirito interiore che ammalia e disintegra, ma soprattutto arriva diritto al sodo.

In attesa di un disco completo, un full length dal sapore distruttivo, i nostri intascano una prova di coraggio e pronta a segnare il loro cammino.

 

Pluvian – Notes from the reptile’s mouth (Autoproduzione)

Chitarre acustiche che si fermano negli anni ’90 facendo un balzo all’indietro e sperimentando a tratti i primi Simon e Garfunkel e gli odierni Kings of Convenience senza tralasciare il grunge da MTV unplugged di Alice in Chains e Nirvana.

Un prodotto confezionato a dovere da parte dei padovani Pluvian che intersecano le ballate del fiume al colore nero della notte, inoltrando fra se e se l’idea dominante di un preludio prettamente acustico in tutti i brani con piccoli interventi di tastiera, senza esagerare, ma infondendo quel tocco in più alla produzione nostrana.

Un disco che sa di tempo passato, incorporando storie di vita che non possono essere dimenticate, racconti che ci riguardano o che parlano di persone realmente esistite e che contribuiscono a creare i nostri ricordi.

Saldi al presente quindi, i nostri, non disdegnano  di passare da un decennio ad un altro per completare il corso delle cose, creando un continuo tra ciò che siamo e ciò che eravamo, tra Bluemoon passando per Marriage Zone e l’incombenza sul finale di We’ll never arise.

Un album che sa intrattenere con eleganza, trasformando i pub veneti di cover band designate, in qualcosa di più concreto e più reale.

Kayseren – Il gioco della Regina (Autoproduzione)

La regina colpisce ancora, la regina vuole impadronirsi di un mondo e dall’alto della sua grandezza gioca a scacchi con la vita, gioca la partita di ognuno di noi, un’imposizione dall’alto che senza compromessi ci obbliga a costruire una realtà fittizia e puramente assoggettata ad un qualsivoglia ordine prestabilito.

Sovvertiamo questo ordine dicono i Kayseren, alternando la schiettezza dello stoner con l’ammorbidirsi della melodia in divenire che fa strada e ci conduce nella tana del bianconiglio, lo fa nel fitto del bosco, lo fa abbracciando la musica cara agli anni ’90 passando per Pearl Jam, Nirvana, Soundgarden senza scordare le ruvidità nostrane dei primi album di Verdena e Marlene Kuntz.

Tre canzoni che non passano inosservate, cantate rigorosamente in italiano, capaci di intessere concetti filosofici di ampio respiro domandandosi quale sia l’alternativa utile per un domani migliore.

Buona prova questa, che oltre a nutrire una forte componente fiabesca, si affaccia alla realtà disintegrandola e cercando sempre e costantemente nuove vie di fuga.