New adventures in lo-fi – Indigo (Dotto/DGRecords/Floppy Dischi/E’ un brutto posto dove vivere)

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Stratosfere diverse si incontrano in sodalizi che fanno dell’elettricità un punto di svolta per chitarre nasali e basso e batteria in primo piano a comprimere saturazioni lasciando spazio a puliti brillanti e scomposti. Il nuovo LP dei New adventures in lo-fi  è un disco davvero affascinante che riesce a mescolare facilmente le carte in tavola per dare forma a nove pezzi che hanno la caratteristica di essere diversi tra loro, ma legati indissolubilmente da un filo di rock di matrice d’oltreoceano quasi anacronistico, ma solido e del tutto impattante. Il power trio che si muove tra Verona e Torino riesce nell’intento di dare voce a canzoni incastrate come un puzzle a regalare forme nuove costruite che non si incasellano facilmente, ma piuttosto portano con sé un’anima ben distinta, un’anima davvero unica e personale. Indigo è la commistione che si muove da Fault fino a Neglected, è un disco cangiante che racchiude al proprio interno leggeri attimi psichedelici per una manciata di tracce che fanno della sorpresa, ascolto dopo ascolto, un punto di forza notevole. 


Snow in Damascus! – Unconscious Oracle (DGRecords/StoutMusic)

Apici raccolti ed esplosi in un disco maestoso e impressionante per una band italiota, un album che ha il profumo dell’internazionalità ad ogni nota e si sposa in maniera quasi maniacale con una ricerca ricca di soddisfazioni e protesa ad un futuro difficile da spiegare a parole. Gli Snow in Damascus! hanno, dal nulla, gettato al mondo musicale un disco cangiante, psichedelico nella sua trama folk intersecata all’elettronica, un insieme di canzoni elettrizzanti nella loro pacatezza, un fiume in piena necessario confermato da incursioni che dividono il mondo a causa di una sottile crepa. Una crepa da cui vedere l’esistenza in quattro dimensioni, ogni singolo momento, ogni singolo attimo vissuto qui dilatato in concentriche visioni a farla da padrone. Dalla title track fino a Make me blind i nostri ricordano le derivazioni neo folk di Bon Iver passando per i The Barr Brothers, dando forma ad una prova completa che dimostra capacità di osare e obiettivi da raggiungere in modo liberatorio. Mi auguro veramente di sentire parlare ancora di così tanta bellezza raccolta in un concentrato di autenticità così difficile da trovare.

Nitritono – Panta Rei (DGRecords/Vollmer Industries/Edison Box/Insonnia Lunare Records/Tadca Records/Brigante Records)

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Descrivere il disco dei Nitritono è un po’ un’impresa titanica, diciamo che nulla è dato per scontato e la loro musica composita e lacerante è sinonimo di questi tempi confusionari in cui ci troviamo a vivere, questo suono è un gesto, è un bisogno di incanalare una rabbia e districarla per poi espandere i confini del nostro essere, non ci sono rapporti di costanza, c’è solo tanta energia convogliata che ricorda i padovani Menrovescio o le inquietudini sonore di Morkobot in un tripudio nero petrolio che arricchisce lo stato situazionale in versi musicali destabilizzanti e che comprimono la realtà che ci gira intorno in un sodalizio che vede il duo formato da Luca Lavernicocca alla batteria e Siro Giri alla chitarra e alla voce, perpetuare una serie di episodi tanto immensi quanto potenti per un’avanguardia di risultati graffiante e affilata a gridare un segno di appartenenza e di intenti che si spinge oltre a tutto quello che pensiamo di sapere.

Danubio – Danubio (Vollmer Industries/DGRecords/I Dischi del Minollo)

Disco corrosivo che riempie l’etere di tanta sostanza sonora capace di rinfrancare gli animi più esigenti in un concentrato di rock sudato che fa da perno ad una produzione di tutto rispetto che cavalca l’esigenza di sputare in faccia alla realtà un significato profondo che ben si evince in questa stratificazione musicale, al di là di qualsivoglia forma di omologazione e riempiendo gli spazi con suoni che si affacciano ai primi Verdena, quelli di Solo un grande sasso per intenderci, fino a toccare vertici di apertura a band attuali come FASK in un sali scendi di sensazioni e sviluppi che attanagliano e conquistano, abbracciano e ripagano di tanto lavoro quasi ad ottenere nella naturalità del momento il guizzo giusto, la scintilla errante pronta a scoppiare e a far fuoco di nuovo, da Dailan fino a Dov’è la psicopolizia quando serve? passando per Nuoto perpetuo e Tre, se conti me per una prova che apre spazi e si confronta con una realtà tante volte troppo pesante per essere compresa, ma che in questo disco trova una via preziosa di fuga da questo stesso vivere e forse solo questo conta.

Barachetti / Ruggeri – White Out (Ribéss Records/DGRecords)

Lo spazio inteso come luogo dove vivere non è mai stato così ben definito, l’idea, il concetto di ambientazione sonora qui travalica il senso del già sentito per inglobare un’idea di musica, che musica non è, ma è narrazione lacerante di un racconto post futurista e egregiamente colpito fino al midollo, nella sua imperscrutabile essenzialità, maturata nel tempo, maturata negli anni.

Il duo Barachetti/Ruggeri intasca una prova innovativa che si fa prima di tutto interrogazione sul tempo che abbiamo davanti e su quello che è appena passato, una prova fluida e scarna, quasi malata, sintomo di un qualcosa che ci rende prigionieri, che non ci rendi liberi, ma è ossessione fanciullesca narrata, è abbandono e accoglienza in un moto perpetuo assordante, nel bianco e fuori di esso.

C’è del colore però nella narrazione, c’è il Ferretti del post CSI e tanto desiderio nel ricreare qualcosa che va oltre gli schemi precostituiti, abbattendo le tre dimensioni che conosciamo e facendo dell’elettronica una costante gravitazionale che annienta le produzioni odierne e si fa veicolo e funzione della stessa storia, dello stesso racconto sonoro.

Il bianco che fa da sfondo e l’oscurità che avanza già dal primo pezzo fino a convogliare le energie in quel fiume verticale di mirata desolazione; i nostri, con questo disco hanno saputo raccontare di luoghi inospitali, così vicini alla nostra anima dannata e capaci di infondere l’esigenza di uscire dalla scatola che ci tiene prigionieri.

SDANG! – La malinconia delle fate (La Fornace Dischi, DGRecords, Taxi Driver Records, Toten Schwan Rec, Acid Cosmonaut Rec)

Raccontare storie senza parlare, perché questa filosofia di partenza sa di incontrare l’apprezzamento di chi, con il tempo, ha potuto capire che tante volte i discorsi non sono necessari, ma quasi più importante è il flusso di emozioni che la musica creata riesce a trasmettere, in una continua ricerca della sostanza, dell’elemento magico che accomuna e non disgrega, che meraviglia e accende speranza dove luce non c’è.

Loro sono solo in due, anche se sembrano in quattro, sono Alessandro Pedretti e Nicola Panteghini, già impegnati tempo fa con Ettore Giuradei e a fianco di Colin Edwin negli Endless Tapes ed ora, formati Gli SDANG!, contribuiscono a portare linfa senza usare le parole, ma abbracciando uno strumentale disseminato di contaminazioni dal post rock fino allo stoner passando per grunge e metal, creando disorientamento in primis in quanto i titoli dei pezzi fanno parte di un coinvolgimento emotivo lontano da stereotipi di genere, raccontando in musica di sentimenti e di giorni persi, di malinconie per il passato e soprattutto per quelle future, nutrite di speranze nell’insuperabile Scrivimi una lettera tra nove anni.

Un album che sa di esplosione sonora e di scintille di nuova luce, un diario sonoro per i giorni passati e per quelli che verranno.

Felix Lalù – Coltellate d’affetto (DGRecords/Riff Records/La Ostia)

Felix Lalù è uno strampalato cantautore che vive tra i veleni delle mele genuine e dopo una dose massiccia  di diserbanti e altre amenità se ne esce con una prova dal sapore intima cameretta dove la componente fanciullesca è essenziale per stabilire e rimarcare un’idea, un concetto che non è altro che il vivere quotidiano in alta quota in grado di proiettare nel cielo fotografie virato seppia di una semplicità disarmante, sincera e certamente utile per capire il pensiero di queste follie in musica.

Si raccontano le vite di paese e con sarcasmo ed ironia si parla del mondo e di come gira, da un punto di vista quasi letterario, un brain storming di pensieri a tempesta che non illudono e non scendono a compromessi, ma sono lo specchio dei nostri giorni, visti con gli occhi di chi vive la vita nelle difficoltà quotidiane, tra chitarre dimenticate nei fossi ed energia lasciata sotto il pavimento, per un cantautorato dimesso, ma di sicuro effetto.

Numerosi sono gli ospiti presenti ad accompagnare il nostro, da Jacopo Broseghin dei The Bastard Sons Of Dioniso, passando per il reverendo Jhonny Mox, Elli De Mon, Candirù, Simone Floresta, Gianni Mascotti, Phill Reynolds, Michael Pancher e Mirco Marconi per una musica che fa riflettere con il sorriso sulle labbra, in memoria dei tempi andati e di quelli che verranno.

MIWOOK – IN SANA MENTE (DgRecords)

Elettronica a creare atmosfere post grunge che colpiscono grazie all’efficacia di cori in dissoluzione che rapiscono, trasportano e conquistano, relegando il tutto, inglobandolo in un incedere sonoro dalla forte personalità.

Rabbia gridata e voluta tra sintetizzatori che inebriano parti scandite da una batteria carica di sincope e precisa nell’abbattere il muro del suono, a ricreare geometrie di esistenze perdute, buttate al suolo e volutamente atte al pensiero supremo, al pensiero che indica la via prima di tutto e sopra ogni cosa.

Vengono da Brescia, questo è il loro primo Ep e i Miwook, nonostante la giovane età, hanno una forte dose di coraggio nell’assemblare e nel dare nuova forma al rock defunto, grazie a quattro pezzi, i centrali strumentali, capaci di infondere energia e nuova linfa vitale nel raccontarsi.

Disco carico di adrenalina, capace di conquistare al primo ascolto, che non lascia giudizi a metà, ma che promuove a pieni voti questa band che suona da internazionale, pur vivendo in casa nostra, una band da valorizzare e da accudire come fosse fiore in via di estinzione.