Andrea Fardella – Le derive della Rai (Contro Records/Macramè)

Il disco dell’emarginazione per eccellenza; siamo abituati a pensare che tutto quello che vediamo è sorto per qualche strano meccanismo che non possiamo comprendere, un album che parla della realtà in cui ci troviamo, una realtà fatta di sogni infranti, di possibilità che si tramutano in sogni e la ricerca costante di un pertugio sul muro è solo pura sensazione di vita, non quella vera, semplicemente un’idea che ci siamo fatti del nostro domani sempre più oscuro, sempre meno vero, ma purtroppo sempre più reale.

Andrea in queste tracce racconta il peso della vita, lo fa con introspezione delicata, lo fa attraverso tracce verbose alternate ad uno strumentale che si divincola dalle produzioni moderne per cercare una propria via di fuga e di rilascio costante di una nuova idea di sviluppo personale, un cantautore che ricerca la propria essenza nelle quotidianità e soprattutto nelle illusioni che la vita costantemente ci riserva.

Attore, musicista, ma anche cantautore aggiungerei, di quelli con l’anima cupa e nera, di quelli che sanno costruire impalcature sonore raccontando di un’Italia che non c’è più, partendo con La deriva della Rai fino a comprendersi in Piccino, monumentale attesa di un futuro sperato, fuori dai vincoli della tv, fuori da costrutti indegnamente precostituiti.

Cosimo Morleo – Ultreya (Irma Records/Contro Records)

Cosimo Morleo ha classe da vendere, è un delicato cantastorie marino che sa di tempo perduto, quel colore che si può investigare solo con le tenebre che avanzano ed è un continuo rispecchiarsi dei giorni sui giorni, del tempo, sul tempo, un’energia soppesata che spiazza e commuove tanto grandi possono essere le sue canzoni con arrangiamenti alla Antony Hegarty e un gusto per il romanticismo non mieloso che travalica qualsivoglia forma di poesia.

Questa è arte con la A maiuscola, è un continuo rinfrangersi di onde che raccontano paradisi e tempi perduti, una voce in primo piano che fa risaltare strumenti poderosi e perfetti nella loro intensità, un’intensità che non si spegne, non si affievolisce, ma divampa, tra la sorprendente e nordica Kavafis fino a quella Leave the boy alone cantata con Maddalena Bianchi che per l’occasione è anche al piano, struggente, intensa e sentita.

Un disco sulle destinazioni da raggiungere, un disco per anime inquiete e soprattutto un disco di poesie, quelle abbandonate in questi anni, quelle nascoste nel cassetto della scrivania a chiave, quelle sudate e cantate, con un occhio al presente e l’altro a contemplare la bellezza del passato, laggiù in fondo, sopra il mare.

Giancarlo Frigieri – Troppo tardi (Contro Records/New Model Label)

Al settimo album la sperimentazione continua, Giancarlo Frigieri riesce con grande maestria e capacità a dare un senso e una forma ai suoni, quello che solo uno sperimentatore è in grado di fare, la cromaticità che acquisisce sostanza e la ricerca introspettiva si convince di un mondo fatto di sconfitti e di relegati, che seppur raggiungendo minimi attimi di felicità, si relega a mero burattino in uno spazio infinito.

Nella sua ricerca, il nostro cantautore, usa sapientemente filtri e ed effettistica, dando ai posteri un album ragionato e dove i testi emulano suoni di batteria, dove parole recitate in lingua finlandese creano basi ritmiche e dove gli assoli di chitarra sono sovrapposizioni di melodie classiche, nel vero senso del termine, da Bartòk a Stravinskij, passando per Debussy e Holst senza dimenticare Shostakovich, il tutto condito da un Guccini che suona moderno, Francesco che incontra Vasco Brondi, sembra una blasfemia, ma l’effetto e l’uso di contorsioni sonore porta ad un risultato del tutto originale e pieno di capacità e speranze per quello che deve ancora arrivare.

I testi parlano di noi e dell’accettazione della sconfitta come parte vitale dei nostri giorni, un seguire all’infinito aspirazioni che alla fin fine sono la morte del nostro pensiero e Giancarlo lo sa bene, cantautore atipico, rimescola le carte in tavola per dare un senso diverso ai canoni imposti di ogni giorno.

Davide Tosches – Luci della città distante (Contro Records)

E’ la pace che cercavo in tutto questo tempo, dove arrivano costantemente dischi ricchi di suoni e rumori, quasi fosse una gara a chi riempie di più le canzoni con cose e trovate tante volte inutili e poco edificanti.

Poi apri un cartonato, semplice, puro, bianco sporco, parafrasando gli altri piemontesi MK, con disegni delicati che ritraggono animali della natura intenti nell’essere al centro di un qualcosa di meraviglioso, delicato, composto.

Illustrazioni di pennarello su carta create dallo stesso autore che vanno a completare un’opera ricca di suggestioni e mirata a conglomerare il tracollo che la nostra società si sta meritando in nome del progresso che assorbe la nostra essenza, creando solo nuvole di polvere e contraddizioni.

Una voce fuori dal coro quindi quella di Davide, che in questo terzo disco Luci della città distante, si fa portavoce di un genere essenziale che ricorda le solitudini campestri del primo Nick Drake, raccogliendo poesie di vita che solo i grandi cantautori riescono a fotografare anche solo per un istante.

Strumenti inusuali, una vena poetica-jazz, che abbandona lo strumming chitarristico per lasciare spazio a poche venature folk per incontrare flicorno, viola e violino a definire un primo indefinito spiazzante, ascoltare il singolo Il primo giorno d’estate per credere.

E’ un immergersi costante nella natura, il viaggio del cantautore piemontese, che riflette di per sè un animo che sa di antico, quasi fosse un giovane Rousseau con il proprio Emilio da educare, lontano dalla città, preservando la purezza del bambino dalla corruzione a cui la società che lo circonda lo farebbe altrimenti andare incontro.

Un album non per tutti di certo, ma che ai giorni nostri dovrebbe essere perlomeno sfiorato dolcemente da tutti, se non altro nella sua essenza primordiale, quasi fosse un morbido abbraccio che ci rende vivi.