PHIDGE – Paris (Riff Records)

I Phidge sono tornati regalando orpelli parigini di matrice indie rock che si sposano molto bene con l’alternative d’oltremanica in un disco che regala una certa omogeneità di fondo e fa percepire, in modo comunque distinto, la gamma cromatica di esasperazioni musicali che trasportano, rincorrono e si fanno vivo scorcio nel creare un impatto vorticoso e avvolgente, ricordando per certi versi i Placebo e tutto il rock post duemila, in una ricerca sostanziale della bellezza musicale e armonica che ben si amalgama in queste dieci tracce di Paris, estendendo la quotidianità oltre le apparenze e immagazzinando staticità sulfuree in pezzi che via via si aprono da (Do We?) fino a Thin passando per le riuscite The mouth of love e Memories per citarne alcune, in un disco che sostanzialmente non spicca per singoli impattanti, ma piuttosto ricopre un’essenzialità di fondo che nella costruzione geometrica di un tutto rimane imbrigliata a favore di un sentire comune percepibile e ben soppesato.

I Paradisi – Dove andrai (Autoproduzione)

Affondare le radici rock per estrapolare una musica che viene dall’anima non è sempre facile, ma I paradisi in questo album  riescono nell’intento di attingere direttamente la loro coscienza musicale nel mood della psichedelia targata ’60 per un disco che ha il sapore metafisico di un ponte sopra l’Oceano Atlantico, tanto grande da contenere dentro di sé una bellezza spaziosa, che si apre e si restringe e sa creare illusioni parallele e veridicità importante e sentita, frutto di un lavoro in sala prove originale e mai scontato; se possiamo trovare resti e rimasugli del rock passato in questo album i colori che si vanno via via definendo sono improntati su di un’essenza di musica più moderna, ricordando Le Vibrazioni dei primi album, quando ancora per approccio erano molto più underground di come le conosce il pop-olo e le sofisticazioni in apnea di band come i trevigiani Public, un album che racconta le vicissitudini della vita scavando nell’oscurità per cercare un po’ di luce, per cercare un motivo unico e valido per poter viaggiare ancora, tra pezzi che si aprono alla James Bond come per Un brutto sogno per arrivare a Strange Days, passando per la bellissima ed evocativa Voli Via il tutto amalgamando dieci tracce che vanno oltre l’idea di classic rock.

Dove andrai sono dieci pezzi che si perfezionano proprio grazie a quel ponte, in equilibrio, tra mondi totalmente diversi e dove la fame di musicalità esplode attraverso ogni percentile di vibrante attesa.

Plastic Light Factory – Hype (Autoproduzione)

Rock and roll sbarazzino che si scontra con la quotidianità senza chiedersi troppo, per un suono che fa muovere il culo e sorprende degnamente intrecciando riff chitarristici e astute trovate per generare un’apertura graffiante e tagliente, tra i glitter sprigionati e la fantasia ribelle che incontra Miss Chain & the Broken Heels e l’uso delle tastiere; complice di tutto questo anche un basso ben sincopato, dal ritmo deciso e serrato, scuotimenti da pista quindi per i Plastic Light Factory, band mantovana rumorosamente attiva tra il rock psicotico e lo shoegaze, per brani messi in evidenza da un collettivo che vuole occupare l’idea di arte a trecentosessanta gradi, una crisalide che prima o poi esploderà e in parte così tanta bellezza la possiamo percepire in queste cinque canzoni nate di getto, tra la bellissima iniziale Colour of the morning trasportatrice di viaggi lisergici fino a Jakiteko, espressione massima di un coinvolgimento senza limiti, ancora una volta in grado di dimostrare che la musica si staglia ben oltre le apparenze e regala, come in questo caso, una soddisfazione personale di stampo sessantottino.