Pin Cushion Queen – SETTINGS_1 (Autoproduzione)

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Ridondanti suoni che percorrono lo spettro di luce lasciando decomporre in cantilene infinite percezioni infinitesimali della grandezza di questa band che esplode in contorte visioni di sovrapposizioni chitarristiche e volontà da vendere nel conquistare spazi di apertura sonora e coinvolgendo l’ascoltatore in un piccolo concept strutturale e aperto, non autoconclusivo, ma una porzione di terra così piccola e così irreale, che si aprirà a conquiste future con nuovi settings moltiplicati fino a contemplare nove pezzi implementati da un apparato testuale in un’avventura lontana dal prodotto finito e vicina alla conquista di un mondo nella creazione di cupezze d’animo e velocità di pensiero che portano all’ascoltatore in territori cari alla band di Yorke e soci fino a incontrare la sperimentazione newyorkese dei Battles capitanati da Ian Williams.

Un disco che brilla e ipnotizza, strano a dirsi in un’epoca da stampini di sabbia; il primo ep della band bolognese ingrana molteplici piani dentro un campo lungo in dissolvenza.

 

Braski Lacasse – So afraid to be alone (Autoproduzione)

Band mascherata all’insegna del divertimento in una commistione di generi rock che si fonde con gli inizi degli anni ’70 fino ad arrivare ai giorni nostri, passando per Kiss, Turbonegro e Muse e dando vita ad uno spettacolo danzereccio che fa uso di proiezioni di filmati d’epoca e linguaggio teatrale all’insegna di un’impostazione sopra le righe e di sicuro impatto in chiave live.

Un disco mutevole e cangiante che lascia spazio a momenti di respiro e melodia sonora per passare repentinamente a ritmi martellanti e testi disinvolti che parlano di rapporti d’amicizia che finiscono male, tra opportunismo e lealtà mancata, una ricerca costante del proprio posto nel mondo, tra musica scanzonata e testi diretti ben impostati, dove il sapore dell’amaro in bocca scivola velocemente per lasciare spazio ad un sorriso, quel sorriso che ci accompagna già dalle prime note di I loved you so fino alla Wild and lost che chiude il cerchio e muta i sogni in qualcosa di concreto, con la testa alta e gli occhi protesi al futuro attraverso quel viaggio chiamato vita senza fine e dalle grandi aspettative.

Heathens – Alpha (IRMA Records)

Disco oscuro e ottenebrato, onirico e richiedente spazi dove poter essere analizzato tra le vertigini e le necessità di una costanza che riempie il pentagramma e lo fa con beat elettronici, lo fa con tanta classe e una voce che riesce subito nell’intento di farti partecipe di un qualcosa di più grande, vissuto e sentito, quel qualcosa che scava nelle profondità e riesce nell’intento di dare inizio alla scoperta del pensiero critico, al pensiero privo di dogmi, esorcizzando l’abuso dei mass media come internet, troppo conclamati per essere ancora piazza di scambio di opinioni ragionate.

A livello musicale c’è una riscoperta dei Radiohead e dei Massive Attack su tutti, passando per aspirazioni trip hop alla Tricky e un gusto per le rappresentazioni visive di Von Trier di The Kingdom e le allucinazioni di Lynch di Strade perdute.

Ecco allora che la perdita si fa complemento per la riuscita di questo disco, la perdita come punto di partenza e tutti quegli uomini in cerchio a rincorrersi senza alzare la testa, senza essere se stessi sono parti di questa società malata.

Prodotto e registrato da Tommaso Mantelli il disco vede la partecipazione di Nicola Manzan, Anna Carazzai e George Koulermos; un album che ha come unico scopo quello di farci vedere la luce in un mondo così grigio.

Massimiliano Martines – Ciclo di lavaggio (Dry-Art Record)

Suoni che ipnotizzano e si stagliano oltre l’oscurità tra un sali scendi di parole non sempre rassicuranti, ma che affrescano in modo egregio spaccati di vita in decomposizione e non sono altro che passi nella nebbia del nostro tempo, raccontati con maestria in queste terzo disco da Massimiliano Martines, un cantautore proveniente prima di tutto dal teatro e dalla poesia e che conquista l’ascoltatore con attimi di riflessione pungente raccontando la solitudine, raccontando degli ultimi, quei sentimenti che si fanno strada tentando di lasciarsi qualcosa alle spalle senza però riuscirci.

Il nostro è un cantore non dell’apparenza, pensiamo solo alla stupefacente La guerra dei fiori rossi, che si sposta dall’educazione cinese, passando per Auschwitz fino agli esperimenti americani in Francia sugli effetti dell’LSD.

I suoni ricordano il divagare nordico, l’accento posto su quell’etereo che fa da sfondo, ma nello stesso tempo è anche parte integrante del tutto, è parte viva e partecipe di noi, di quello che proviamo e sentiamo ogni giorno, nel nostro incedere nel nostro non volere morire; ecco allora che il cantautorato prende il sopravvento, il senso delle parole, per vederci più chiaro in questo mondo sempre meno ospitale.

Vale & The Varlet – Believer (A Buzz Supreme)

Suoni insonni dalla cameretta, trasformati per l’occasione da boleri affascinanti e incursioni classicheggianti a citare aforismi e parole prese in prestito dalla discografia storica mondiale per dare vita ad un disco a tratti cupo e oscuro, vibrante di quella capacità che solo l’incontro può sperimentare e socchiudere, attendere e sperare, elargire da un pianoforte il suono del futuro che verrà, tra sperimentazione e disincanto.

Il primo disco di Valentina Paggio e Valeria Sturba in arte Vale & The Varlet è una ricca composizione di suoni lunari che non ammiccano alla canzoncina pop, ma si stringono nell’attimo per concedere il volo sperato, dalle porte di una camera fanciullesca fino ai confini del centro della terra; i martelli e i giocattoli non sono mai stati così vicini.

Presenza e partecipazione anche dell’istrionico Vincenzo Vasi e Luca Savorani, che intensificano i rapporti e creano una sorta di moto perpetuo alle canzoni che già di per sé hanno una propria vita, un cammino penetrante da seguire e costeggiare, su cui credere e su cui sperare.

Un disco imprevedibile, che ad ogni ascolto si cala sul palco della vita e da una visione del tutto soggettiva e surreale del contesto in cui ci troviamo, una musica che va oltre il concetto spaziale e si concentra, in modo prodigioso, sulle immagini del nostro tempo.

The Hangovers – Different Plots (Unhip Records)

Hanno macinato la strada italiana, la conoscono a memoria o quasi e ora sono qui con questo disco accecante di luce, di sonorità grunge caraibiche, di rock trasformato per l’occasione in country folk e snocciolato in maniera immediata e spensierata, racchiudendo un marchio di fabbrica esemplare e non pre – costituito fatto di sogni e speranze, fatto di riflessi di sole e bagliori che spazzano via la notte, tra la disillusione e l’esigenza di formare, per divertimento, un gruppo esplosivo, oltre ogni previsione.

Questo disco racchiude i nostri anni migliori, musicalmente sembra di stare in riva al mare, in un anno solare dove non esiste l’inverno, tra inglesismi trasformati in italiano e viceversa, frutto di improvvisazioni altrettanto calibrate e ben celate da quella voglia, da quel bisogno di divertirsi, un’esigenza tutta italiana di racchiudere la bellezza in musica, con ritmi trascinanti e testi che non si chiedono mai troppo; l’essere multietnici non è mai stato così semplice.

Il disco assume le svariate forme della vita, assume il coraggio di creare, assume il desiderio di essere diversi, ancora per una volta, per scatenarsi disinibiti, abbagliati dalla diversità del mondo.

Earthset – In a state of altered unconsciousness (Seahorse Recordings)

Disco d’esordio per la band nata a Bologna che coniuga in maniera del tutto personale un’attitudine punk alle incursioni psichedeliche che si diffondono nell’aria passando per quel gran concentrato chiamato indie music che basta e avanza a riempire un mondo intero.

I nostri amano spaziare, amano giocare con i suoni e in un attimo si è trasportati in un’altra dimensione comodamente restando seduti, la variegata eccentricità del quartetto si evince soprattutto nella capacità di creare immagini che permangono nel tempo, un incontro tra filosofia e psicoanalisi, alla letteratura fino a toccare le scienze politiche, un bignami di maturità quindi non solo stilistica, ma anche nelle parole, nei testi che sempre più veicolano l’ascoltatore nello scoprire qualcosa di più, qualcosa che rafforza e si rende necessario per comprendere le varie stratificazioni che appaiono e scompaiono, un andare e venire guidato dal tempo, mera conclusione soggettiva di un cammino che continua per sempre.

Ecco allora che i suoni si fanno solidi e tangibili con l’apertura chiamata non a caso Ouverture, finendo con la chiusura del cerchio marino in Circle sea, definendo una linea guida che si perde nella nebbia e da la possibilità ad ognuno di noi di prendere il meglio da questa favola in bianco e nero, che si propone di distruggere il sistema per poi ricomporlo, ripartire verso la speranza: una luce nuova tra foreste inospitali, ma ricche di vita.

Alice Tambourine Lover – Like a Rose (GDRecords)

Cantautorato d’altri tempi che si fa respiro internazionale tra gli anfratti dell’isola di Wight, tra la terra dei fiori umani che lanciavano messaggi di pace e comprensioni sonore che si accontentano di rimembranze acustiche, stilisticamente convogliate in un leggiadro passare di petalo in petalo.

Una foto d’altri tempi, una foto in bianco e nero, una cornice e la semplicità nella bellezza, la bellezza nella semplicità, che ha segnato un’epoca, che ha segnato il cammino lungo scoscese opere di misericordia e naturalezza conclamata, ma non esibita, un essere naturale che si fa scovare come perla oceanica là, nei profondi abissi.

Alice tambourine lover è tutto questo e Like a rose ne è l’esemplificazione più facile e intuitiva per entrare nell’universo del duo bolognese, capace di prodezze leggere tra sognanti melodie anni ’70 che non disprezzano acustici più moderni, Kings of Convenience su tutti.

E’ un disco che si fa ascoltare, un album di racconti segnati sulla carta indelebile, pieno di ricordi e personificazioni, parti inevitabili di noi che vanno a ricadere sul futuro che verrà.

Otto tracce delicate che parlano di introspezione malinconica e di forte coraggio, quel coraggio di presentarsi ad un pubblico con uno strumento acustico, senza far troppo rumore e facendo della scoperta collettiva un ponte tra passato e futuro, che non rinnega le proprie origini, ma che distoglie lo sguardo verso il troppo inutile che ci coinvolge, per ritornare all’essenza delle cose.

SplatterPink – MongoFlashMob (Locomotiv Records)

Questo è il risultato del sapere padroneggiare in modo sicuro e in tutto e per tutto il proprio strumento musicale.

Un genere che per definizione non ha definizione, loro si definiscono JazzCore e sono da Bologna si chiamano SplatterPink e sorseggiano in modo egregio un hardcore rivisitato con cambi di fraseggio strumentale al limite del comprensibile.

 Quando meno te lo aspetti, quando pensi che tutto sia incasellato in un determinato genere, loro sono li per sorprenderti e per farti dire: questi ci sanno veramente fare.

I nostri intarsiano bene Sonny Sharrock con NoMeansNo, incanalando quell’aggressività a cambi repentini quasi profetici e che hanno del miracoloso, un osare che porta alla scoperta e alla fusione di più generi appunto con incursioni funk e pregevoli suite prog.

Un disco che non è facile da ascoltare, questo lo ammetto, ma del resto questa musica inclassificabile non è alla portata di tutti e forse e meglio così, lasciamola in mani che ne faranno del buon uso, la sperimentazione è di un altro pianeta e sono in pochi, per fortuna, coloro che hanno la necessità di scoprire volando.

Valentina Mattarozzi – Vally doo (Sanlucasound/Edel)

Valentina ha classe  e talento da vendere, una voce inconfondibile nel panorama del blues italiano, forse l’unica in grado di arrivare a certe altezze senza aver paura di cadere giù, senza che la vertigine la porti in un mondo lontano da lei.

Valentina è vita gridata, è ornamento di un qualcosa di più grande e sincero, una sincerità espressa in nove tracce, che dovevano essere delle cover, ma che si sono trasformate in poco tempo in pezzi originali donati da amici musicisti con cui condivide il cammino.

Proveniente da Bologna, Valentina riesce a mescolare in modo superbo uno stile inconfondibile, il pop con il cantautorato degli anni che furono, la pazzia del jazz e la sensualità del blues.

Vally doo, la title track, riesce a convincere  e a racchiudere tutto il suo mondo, tutto il suo bagaglio musicale che si fa fiume, che si fa sole, che si fa vita.

Le canzoni si fanno poi portatrici di un sound accattivante, tra pennellate di costanza e singoli da classifica come Tra i colori dell’amore con la presenza di Vi Gù, la voce di Iskra Menarini in No lies, la chitarra acustica di Bruno Mariani (Lucio Dalla) in Ad ogni costo e ne il Tempo di morire, per concludere con la presenza di Teo Ciavarella in Nebbia.

Ecco allora che le note prendono il sopravvento e la certezza illumina la strada, una cantautrice unica nel panorama della nostra musica leggera, che unisce l’ironia alla caparbietà, la fatica al risultato, il tutto concentrato in pochi attimi di respiro.