Lenula – Niente di più semplice (Beta Produzioni)

I Lenula ci vanno giù pesante con uno sporco blues tinteggiato dal rock che proviene direttamente dai bassifondi sporchi dell’anima, dove il nero come colore predominate, lascia accenni di un cuore bianco in sospensione cosmica, quel battere della gran cassa sincopato che ammalia e costringe l’ascoltatore a lasciarsi trasportare sulla via opposta a quella di casa, là lungo il fiume, dove tutto ha inizio, in una dimora di legno abbandonata allo scorrere dei giorni.

Nuovo disco quindi per la band di Brindisi, che dopo l’esordio Profumi d’epoca, si concentra confezionando una prova che richiama ancora il passato ma in modo perentorio, in modo diverso, lo fa attraverso undici pezzi che sono la summa del proprio pensiero, canzoni sporcate da un’attitudine dal tiro deciso, ma allo stesso tempo romantico, undici brani che si ascoltano nel susseguirsi dei pensieri che inondando la testa, ricevendo il giusto quantitativo di sangue per poter sperare ancora.

Irrequieti e allo stesso tempo disincantati, sognanti e carichi di desideri reconditi, i nostri fanno scivolare pezzi – manifesto del loro intendere la musica da Senza stanze per nascondersi fino a quella magnifica Sogni di sempre, che non è altro che volontà sperata nell’essere diversi, partendo da noi, partendo dal principio e cioè dalla nostra anima dannata.

I Plebei – Eterna è la tensione di clavicole, ingranaggi e leve (Resisto)

Anfratti crepuscolari che ricoprono gli antri di una musica sotterranea, di bassifondi, di popolazioni da comprendere e capire per poter sostenere tesi vicine al nostro credo per sperare una vita diversa, per sperare di riaffrontare la realtà con eterna passione e dedizione verso non solo i secondi, ma verso gli ultimi, in un eterno scontrarsi con la vita, non più fatta di ambizioni, ma di verismo assoluto e concentrazione nel quotidiano.

I Plebei, band trentina, con questo nuovo disco, si promette e lo fa distinguendosi da altre e numerose produzioni, di incrociare blues maledetto, folk e canzone d’autore degli anni passati, ingranando le musiche balcaniche e trasformando il tutto in una tensione fatta di movimenti e di mosse, attesa per qualcosa che nascerà, il futuro alle porte e noi non solo spettatori, ma anche protagonisti di ciò che un giorno potremmo creare insieme.

Gli strumenti musicali in questo disco sono utilizzati per poter comunicare e canzoni come l’apripista Africa, la bellissima I fortini del sud e La vita che se ne va ne sono la prova, per una mirabolante impresa di connubio eterno tra ciò che siamo realmente e ciò che vorremmo essere.

Un album dal sapore d’altri tempi, un disco che prima di tutto è arte, partendo dalla copertina della pittrice Giulia Tarter, undici canzoni che parlano di questa società da cambiare, nel momento del riscatto, nel momento della rinascita.

GC Project – Face the odds (SlipTrickRecords)

Generi che si amalgamano e si fondono dando vita ad un’opera che ha il sapore della letteratura moderna, varia e intricata, ma sempre leggibile da più punti di vista e costantemente ricercata, di quella ricerca che non è un semplice mettere in mostra le proprie capacità o attitudini, ma è un vero e proprio smarcarsi dai preconcetti e dal già sentito per unire le corde dell’animo e dare vita a qualcosa di nuovo ed esaltante.

Giacomo Calabria nel suo progetto ci regala tutto questo, ci regala l’ambizione del tempo passato e la voglia di mettersi in gioco tra un hard rock sincero, passando per un prog a riscoprire le bellezze italiane degli anni ’70 fino ad arrivare ad una fusion in costante equilibrio con un blues sporcato di heavy metal.

Profondamente legati, tutti questi stili si concentrano nel rievocare i fantasmi di un tempo, nel passaggio chiaro scurale di una notte che è buia e misteriosa, da Hold on a Never again ci sono deserti di solitudini a ricreare una costante ricerca con il nostro io, tra tecnicismi assoluti e tanta, vera sostanza.

 

Johnny Dal Basso – IX (BProduzioni/Goodfellas)

Johnny dal basso arriva direttamente dal Mississippi con suoni sporchi però, ruvidi, quasi indigesti, ma allo stesso tempo che sanno cogliere il momento, la tentazione di procreare un esercito di nuovi seguaci che sempre più in questo periodo vedono l’alternarsi della chitarra e della gran cassa in una commistione sonora del tutto analogica, tra overdubbing di voce e chitarra con grande impegno e dedizione a testimoniare un’indignazione verso la società moderna, a testimoniare un salto di qualità per le produzioni a venire.

Psychobilly in salsa blues quindi che racconta di donne non convenzionali, a testimoniarlo il singolo Isabella che racconta di una strega assetata di vendetta, ma poi donne ai margini e ingombranti, donne che rapiscono uomini e donne che non hanno paura di celarsi dietro a mariti troppo premurosi.

Un album dal sapore sociale, ricco di energia che ricorda il vicentino Tony la muerte, altro one man band, altro che con il sudore riempie il palco di nuove speranze e aspettative altro che come il nostro Johnny alza il volume della voce facendosi sentire; una voce fuori dal coro che canta le illusioni della vita.

Lara Groove – Lara Groove Ep (Autoproduzione)

Lara Groove è coscienza di un mondo che non appartiene a nessuno, tra voli in estasi fuori controllo in vibrazioni funk e soul per una band fatta da cinque persone dove un uomo e una donna cantano e dove strumenti usuali come basso, chitarra e batteria sono supportati da synth ed elaborazioni digitali connesse alla realtà in un continuo elegante e mai conclamato e dichiarato, ma che umilmente si ritaglia un posto nel mondo della musica italiana.

Cinque brani per questo esordio cangiante, cinque brani che parlano di noi e del nostro tempo, dalle dichiarazioni culturali di Hello world fino a Liberi di, passando per Nuvole, Nonostante tutto e quella CAOS che cita direttamente il Palahniuk di Invisible Monsters.

Un disco calibrato e ben congegnato che resta in attesa di sviluppi futuri, un album che è pronto ad espandersi in un full length di aggregazione, passione e fragilità; caratteristiche essenziali per le produzioni future di questa band.

The Chanfrughen – Shah Mat (Molecole produzioni)

Disco pluridecorato con vezzo di un’elettronica barocca che si staglia oltre l’orizzonte, unendo in modo quasi univoco civiltà e popoli che da Oriente a Occidente comunicano a fasi alterne, un album in grado di concepire le sfumature delle terre lontane, qualunque esse siano e capace di connettere la nostra abitudine di cambiare in un qualcosa di naturale e sommamente appagante.

I The Chanfrughen sono tornati con questa manciata di pezzi colorati da sferzate blues e rock che incontrano il funky e creano una commistione sonora ben congegnata e sentita, dove l’improvvisazione e il riff facile ha la stessa valenza e caratura artistica di una compressa eleganza mai celata, ma esposta in modo del tutto sensato e rapita dal ragionamento, rapita dall’intelletto, rapita da qualsivoglia forma di comunicazione che attraverso la musica incanala energie nascoste per librarle lungo le tracce che si dipanano: dall’apertura di Voodoo Belmopan fino a Limonov; Russia e Cina non sono mai state così vicine.

Ecco allora che questo disco si colloca all’interno di una loro ricerca, di un loro essere che va oltre il falso mito di una musica eterna, ma si impossessa dell’attimo per rigettarlo al suolo come fosse l’ultima nota del mondo, come fosse una sostanza da dover incanalare per respingerla nell’immediato, ad effetto sorpresa, sostanziale ricerca di un proprio mondo quotidiano.

River of Gennargentu – Taloro (TalkAbout Records)

Solitarie inquietudini giovanili dal piglio folk si immergono nelle acque del lago profondissimo, innescando un connubio tra sentimento e naturale che fuoriesce dalla corteccia come resina che si trasforma in linfa vitale e stratificazione arpeggiata, meditando solstizi eterni e passioni che non trovano una fine.

Corde di un’acustica in primo piano a stabilire la scena e a regalare emozioni di un poeta lo-fi che si scontra con le radici del folk moderno e disintossicando la consuetudine in un vortice di dolenza mistica e ribellione che si evince lungo le otto tracce del disco.

Dalla Sardegna il blues che a sprazzi incontriamo si fa malinconico e porta l’odore del tempo, di un Dylan d’annata che incontra l’introspezione di Richie Havens in un disco, questo Taloro, che si proietta in terre nordiche oltre gli spazi conosciuti.

Un album da assaporare d’inverno, sotto una calda coperta, otto tracce dal sapore retrò e misurate, per dare, a piccoli tratti, l’impressione di essere difronte ad un panorama infinito.

River Jam – A band from a river (Autoproduzione)

Provengono dall’alta provincia di Vicenza e raccolgono l’eredità della natura per comporre canzoni lungo il fiume, dove l’improvvisazione sonora si staglia lungo le tracce che compongono questo disco autoprodotto in tutto e per tutto e dove strumenti tipicamente bluseggianti si confondono fino a creare alchimie sonore tra l’incastonarsi del sax, l’intreccio di chitarre e la generosa intensità live che in tutto e per tutto si evince dalla dimensione che i membri riescono a raggiungere, incanalando una jam session infinita tra i sassi bianchi che guardano il mare.

Una band che viene dal fiume, la connotazione geografica anche qui, il Mississippi trasportato in terra nostrana per calarsi in un mondo fatto di sonorità che abbracciano il delta sconfinato per renderlo sostanza viva, acqua che dona vita e potenzialità da affinare.

In questo disco ci sono buoni spunti sonori ci sono echi del primo Springsteen, Elmore James e Canned Heat, una composizione che arriva diritta al cuore, suoni che fanno vibrare tra My only dream passando per Confusion mind e The waterman, un album che come esordio ha tutte le carte in regola per innalzarsi in futuro, livellando la voce e dando più spessore ad un mix generale che non guasta, un suono che ha bisogno di quel tocco di scintilla maggiore per garantirsi un posto di genere.

Nonostante questo i River Jam fanno parlare di se, intascano una buona prova e guardano con occhio attento al futuro che verrà, tra concerti live e tanta sana improvvisazione frutto di creazioni non snaturate, ma reali e sincere.

Iacopo Fedi & The family Bones – Over the nation (Cabezon Records)

Cantautore post moderno che raccoglie la pesante eredità di Lou Reed e Bruce Springsteen per mettere in musica un blues contaminato dal rock anni ’70, tra un’oscurità che avanza e ci ingloba, raccontando di un mondo teso a comprendere culture, relazioni e vivere quotidiano.

Proprio di questo parla il nostro e la sua è una ricerca che parte dal basso, dalle radici di una musica dannata che si contorce e rende l’esperienza del cercare abile ragione intesa come passo necessario per scoprire e riscoprire qualcosa che è andato perduto, l’idea dell’ interrogarsi, quel bisogno intrinseco di scoprire e dare un senso maggiore all’esistenza trasformando un’abbozzata idea in un vero e proprio concept di un Don Chisciotte errante che cerca la verità, cerca di capire quella vita fatta di sogni infranti e futuri ancora da visionare.

Le canzoni allora prendono forma in un eco floydiano fatto di cori e ricordi, un disco solista che attendeva di uscire, attendeva l’attimo propizio per segnare la via con pezzi come la title track Over the Nation, fino a Sr Napoleon passando per l’incisiva, in grado di raccogliere la sfida per comprendere l’ignoto, This hard War.

Facciamo parte di una guerra quotidiana che ci vede unici protagonisti in grado di cambiare quel poco che abbiamo.

La nostra vita come una dura lotta per la sopravvivenza, in un mondo dove purtroppo i sentimenti sono sempre meno importanti e dove il nostro Iacopo cerca di ridare valore e senso ad un qualcosa di perduto per far riflettere, per farci sembrare migliori.

Attribution – Why Not (Autoproduzione)

Trio immediato, sfrontato e lisergico quanto basta per riportare alla ribalta un genere che trova poco spazio, affondando le radici niente meno che nella psichedelia anni’70 e integrando il tutto da sferzate di blues, un po’ di prog rock e la ricerca inevitabile verso il rock d’oltreoceano che ribalta le consuetudini e ridona vigore e speranza ad un sapere che si tramanda per decenni.

Gli Attribution vengono da Bergamo e costruiscono attorno a loro un mondo fatto di acidità ridondante, di chitarre alla Jack White soprattutto in Woman che affrontano il blues per rigettarlo a noi ascoltatori in modo diretto e quasi evocativo, un disco che ci accompagna nella scoperta di nuovi orizzonti pronti ad esplodere.

Sono dieci pezzi in tutto, dieci pezzi accompagnati da una voce che rende l’idea dei bassi fondi da dove il tutto parte e che poi inesorabilmente si ritrova a fare i conti con la capacità da grande palcoscenico, cornice perfetta per l’ascolto e per l’apertura di gruppi che hanno fatto la storia come Billy Cobham, Kee Marcello e i più giovani Bud Spencer Blues Explosion.

Proprio di esplosioni parliamo quindi, esplosioni che si intersecano e si fanno portatrici di un suono divincolato e sopraffino, perfetto e pronto a generare alchimia leggendaria, quella che resta, con piglio provocatorio, con fare disinvolto, con quella capacità di essere unici, mantenendo una forte componente di originalità e attesa, improvvisazione jazz e mondi da scoprire, caratteristiche tipiche di chi la musica la vive dentro di sé senza chiedersi nulla.